Parafrasando Marx ed Engels potremmo affermare che uno spettro o un ciclone si aggira per il mondo: grande, grosso e zazzeruto. L’allocuzione del neopresidente americano pronunciata subito dopo il giuramento solenne ha spezzato il respiro a molti, ma soprattutto agli europei. Molta gente abituata a proclamare certezze granitiche, indignazione o sconcerto, oggi pigola sempre più piano, come in una poesia del Pascoli, in attesa della tempesta che colpirà non si sa come e non si sa quando. Forse l’eco delle parole apocalittiche dei sinottici (Mc 13, Lc 21, Mt 24) “vegliate perché non sapete il momento preciso, il giorno del Signore giungerà come un ladro…” è ancora sedimentato nel subconscio secolarizzato degli europei: anche se la zazzera color senape non trova precisi riscontri scritturistici.
Dazi, insenature marine che cambiano nome, gelidi continenti conquistati a suon di dollari, controesodi, riscaldamento globale a briglia sciolta, dispregio del diritto: immagini che si affastellano confuse nelle menti degli europei che scrutano l’orizzonte in attesa di un Veltro (per dirla con Dante), un leader che li stringa a coorte e infonda loro coraggio. Ma il capo della Francia è ammaccato, quello della Germania detronizzato e a Bruxelles i falchi baltici sorvegliano il borsellino delle nazioni (Dombrovskis) o scrutano sulle frontiere orientali i movimenti del nemico (Kallas) e non sanno in quale direzione ondeggerà la zazzera.
Condivido in generale la lettura di molti autorevoli osservatori delle vicende internazionali: l’ordine mondiale sta attraversando una di quelle fasi di transizione che non sono fisiologicamente esenti da tensioni e scontri, anche a mano armata. Era accaduto due secoli fa quando la guerra di Crimea – guarda caso un conflitto ordito dai britannici contro la Russia zarista il cui intervento 40 anni prima era stato decisivo per respingere le ambizioni imperiali napoleoniche – segnalò le prime incrinature dell’ordine di Vienna che aveva assicurato alcuni decenni di relativa stabilità al continente.
Oggi l’ordine di Yalta è in procinto di crollare dopo che il bilateralismo, che ne era il presupposto strutturale, è svanito insieme al tramonto del blocco sovietico e l’unilateralismo che lo aveva seguito è apparso di difficile gestione da parte di un’America impossibilitata a fornire una pax (cioè un ordine) a una sfera di influenza che sembrava avere dissolto ogni confine proiettandosi su una dimensione veramente globale. L’ideologia che ha animato la globalizzazione, il neoliberismo senza limiti né compromessi, lungi dall’esitare nella fine della storia – il titolo emblematico di un celebre saggio del politologo Francis Fukuyama – ha scatenato risentimenti, acuito le diseguaglianze fra Stati (un neocolonialismo 2.0?) e all’interno delle comunità nazionali, indebolito il cemento che teneva insieme i diversi attori nello spazio geopolitico e precipitato l’ordine mondiale nella fase interlocutoria che stiamo vivendo.
L’amministrazione Trump, si dice, manifesta una chiara ostilità nei riguardi della vecchia Europa: l’imposizione dei dazi ci penalizzerebbe oltremisura. Ma se ci atteniamo ai dati ampiamente consolidati del 2023 scopriamo che l’interscambio USA-UE ammonta a ben 1540 miliardi di euro suddivisi fra beni (851) e servizi (688). Nel primo comparto il saldo commerciale è decisamente favorevole a noi europei (export 503 mld, import 347 mld) ma in quello dei servizi la bilancia pende dalla parte americana (export 294 mld, import 396 mld). Che dire? Nonostante il rischio significativo cui siamo esposti sul versante dell’interscambio di beni, gli strumenti per rintuzzare un assertivo neoprotezionismo statunitense non dovrebbero mancare. Vi sono segnali che la nuova amministrazione desidera incrementare la vendita di gas liquefatto e petrolio prodotto con l’inquinante e costoso metodo del fracking, la frantumazione delle rocce (o scisti) bituminose iniettando nel sottosuolo ad altissime pressioni una speciale miscela di acqua e sostanze chimiche: nel dicembre 2021, due mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il presidente in carica Biden si concesse un tour delle capitali europee ricevendo assicurazioni in merito all’applicazione delle sanzioni economiche alla Russia e al rifiuto di acquistarne le materie prime energetiche (in seguito il North Stream 2 in fase di costruzione fu prudentemente sabotato perché non si sa mai, e il governo tedesco non emise neppure un gemito): alcuni salaci commentatori parlarono di un Biden piazzista di materie prime, e in effetti cominciammo a importare il GNL (Gas liquefatto; e il trasporto via mare non è oltretutto neutrale sotto il profilo dell’ambiente) americano pagandolo molto più caro del gas che l’odiato despota del Cremlino pompava verso la vecchia Europa.
Uno degli incubi dell’establishment statunitense si chiama Eurasia: un’Europa non necessariamente coesa ma collaborativa sul piano dell’economia (la tecnologia dell’ovest e le materie prime e agricole dell’est: l’Ucraina che è un grande granaio tra l’altro se ne avvantaggerebbe) e dialettica su quello della politica. L’Eurasia sarebbe un attore geopolitico molto forte soprattutto oggi che l’ordine internazionale inclina verso una struttura multipolare e le linee di confine stabilite nel dopoguerra a Yalta perdono gran parte del loro significato; e cominciarono, anzi, a logorarsi proprio con la caduta dell’impero sovietico e il tramonto del bilateralismo.
Questo non piace agli americani che vorrebbero esercitare un controllo paterno ma fermo sul Vecchio continente.
Sintetizzando all’estremo: cara Europa ti ho aiutato a liberarti dal giogo nazifascista, ti ho aiutato con il Piano Marshall un po’ perché mi conveniva un po’ perché capivo perfettamente che la miseria non è l’humus su cui germina la democrazia liberale (compresenza di motivazioni idealistiche e utilitaristiche), insieme fronteggeremo il nemico ideologico comune, cooperiamo, ci integriamo culturalmente, ma ti chiedo fedeltà, ti chiedo di crescere sì ma non troppo (e tu Italia, Paese sconfitto non azzardarti a surclassare l’IBM con la tua Olivetti, non fantasticare sul compromesso storico, non fare il bullo in quel di Sigonella…).
Ci dobbiamo scandalizzare? Niente affatto, è dalla notte dei tempi che così funzionano i rapporti fra le potenze, anche, se non soprattutto, fra potenze amiche e alleate. E le asimmetrie fanno parte della natura delle relazioni fra le comunità umane. Ma insomma, al di là delle differenze di stile – suadente in un caso brutale e rozzo nell’altro –, l’approccio fra le due amministrazioni non appare molto dissimile. Il rapporto conflittuale fra USA e Federazione Russa, di cui la carneficina ucraina è conseguenza, deriva a mio modo di vedere dal timore eurasiatico più ancora che dal dispetto suscitato dalla rinascita russa dopo il crollo del regime sovietico. Rinascita che eclissò l’ambizione, mai esplicitata come è ovvio in esternazioni ufficiali, di frammentare quell’immenso territorio in più entità statuali di fede liberale e di sfruttarne per mano delle proprie multinazionali le enormi risorse.
L’Amministrazione Trump sembra voler fare professione di realismo: mettere in pausa le istituzioni multilaterali, meno docili e manovrabili rispetto al passato e dunque non più funzionali rispetto agli obiettivi imperiali della nazione, rilanciando il primato americano attraverso politiche assertive, avviando confronti e round negoziali con i singoli Paesi, concentrandosi sui veri avversari (la Cina) rinunciando al ruolo oneroso – in senso politico e finanziario – di gendarme del mondo. E cercando un’intesa con una potenza regionale come la Russia, di cui probabilmente riconoscerà il diritto a esercitare un predominio sulla sua tradizionale area d’influenza slava (il Russky mir).
La ricaduta di quest’atteggiamento sarà probabilmente la pace (una pace temporanea e gravida di diffidenza) nell’est europeo, ma è comunque una buona notizia.
E l’Europa? Appena si è diffusa la notizia della telefonata presunta fra Trump e Putin le nostre cancellerie hanno subito pigolato che esigono un ruolo nel processo negoziale. Temo che i due Presidenti ci concederanno uno strapuntino in seconda fila. Salvo che nel Vecchio continente non sorga un Veltro dantesco, uno statista coraggioso e creativo capace di rovesciare il tavolo e aprire inedite prospettive a un’Eurasia economica e politica, lanciando un messaggio chiaro all’alleato americano e costringendolo a meditare sulle sue minacce protezionistiche. Ma non lo si avvista all’orizzonte. E l’Europa dovrà docilmente rispettare il ruolo assegnato, oggi come in passato.
Non sappiamo se Trump sia un cultore della grande letteratura italiana, a guardarlo non si direbbe. Ma di certo la famosa frase che nel Gattopardo il giovane Tancredi pronuncia di fronte allo zio, il principe di Salina, gli si attaglia perfettamente: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Andrea Griseri
Pubblicato su www.associazionepopolari.it