In premessa una considerazione su cui tornare più attentamente nei prossimi giorni. Ma siamo sicuri che i referendum siano stati un flop, tale da giustificare i gridolini di gioia della destra?

In un Paese dove vanno al voto – se va bene – il 50% o poco più degli aventi diritto, il fatto che il 30% degli italiani si sia recato alle urne per esprimere un voto che, grosso modo, già si presumeva sarebbe stato del tutto inefficace, vi sembra poco?

Quattordici milioni di italiani hanno sacrificato un fine settimana di sole e bel tempo per non andare al mare e piuttosto recarsi alle urne. Se fosse il segno positivo di un certo risveglio di passione politica? Siamo sicuri che sia fuori luogo pensarlo?

Ad ogni modo, l’Italia è da ricomporre.
Ci voleva giusto il referendum per ribattere il chiodo di un Paese – come osserva giustamente Giancarlo Infante nella nota pubblicata ieri (CLICCA QUI) – diviso o addirittura frammentato.

Questo vale per il campo delle forze politiche, perfino per il sindacato, per la distanza che si coglie tra Nord e Sud anche nello stesso risultato referendario, per le profonde differenze di condizione sociale.

Differenze oggi già sufficientemente profonde da configurare un diverso titolo di cittadinanza tra chi ha e chi non ha. Differenze tanto più avvilenti, nella misura in cui la loro natura economica, si traduce sul piano, ad esempio, della povertà culturale ed educativa delle nuove generazioni. Come se – basta osservare i dati relativi alla “povertà assoluta” di milioni di famiglie – troppi bambini, in un Paese sviluppato come il nostro, fossero fin dalla nascita marchiati da un handicap sociale che rischiano di pagare nel decorrere intero della loro vita.

La cosiddetta “polarizzazione “, insomma, è diventata una categoria sovraordinata alla comprensione dei fenomeni sociali del nostro Paese e rischia di spingersi fino al punto di non ritorno di una lacerazione ingovernabile.

Senonché e esattamente il contrario di ciò che tanto più è necessario, quanto più è intrecciato e complesso il quadro tematico generale entro cui viviamo.
Possiamo andare avanti e fin dove in un’Italia in cui la dialettica ha ceduto il passo alla contumelia? Eppure, nei prossimi anni – anzi, è così fin d’ora – dovranno maturare indirizzi destinati a ri-orientare il destino del nostro Paese, avviandolo per un certo cammino o piuttosto per un altro, in ogni caso secondo una postura destinata a manifestare i suoi effetti a lungo, lungo termine.

E’, anzitutto, il tema dell’Europa e della sua – e nostra – collocazione in un nuovo scacchiere internazionale che è ormai e resta oggettivamente multipolare, a dispetto delle grandi potenze che vorrebbero ricondurlo alla logica delle loro, rispettive “sfere d’ influenza”. La “polarizzazione”’di ogni profilo della nostra vita collettiva, in altri termini, è tanto più pericolosa per tutti, anche per coloro che se la godono meglio, nella misura in cui è una sorta di dea bendata che, anziché, avanzare, ci fa girare in tondo ed a ritroso, riportandoci a quella sorta di circolarità del tempo e dell’eterno ritorno tipico della cultura classica e che solo il cristianesimo ha potuto interrompere.

Da dove prende le mosse la logica “diabolica” – nulla di “satanico”, per carità, ma letteralmente divisiva – che sembra essere la “cifra” dominante dei giorni nostri? Sarebbe un gioco facile attribuirne la responsabilità – tanto per non dire nulla, con la pretesa, al contrario, di dirla tutta – alla “complessità”, intesa come un comodo “passepartout” che ci dispensa da ogni ulteriore fatica di comprensione.
Al contrario, bisogna lavorarci, riflettere e pensare per andare a fondo della questione.

Domenico Galbiati

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