Iscriversi ad un partito è una cosa seria. Aderire ad una formazione politica – da “militante”, con l’ enfasi che il termine di per sé comporta – non è, insomma, come avere in tasca la tessera della bocciofila o di altro sodalizio ricreativo. E’ bene focalizzare anche questo aspetto nel momento in cui si progetta la costruzione di un nuovo soggetto politico. Soprattutto, se guardiamo ad una forza che, in altri tempi, si sarebbe detta “interclassista”, per cui l’ adesione non è mediata dal sentimento collettivo di una appartenenza di classe, ma passa prevalentemente attraverso una determinazione di carattere individuale.
È importante come ci si arriva ed anche a che età succede che si decida di assumere un impegno politico attivo, perché questo significa aderire ad un partito. Vuol dire accettare di condividere con altri – di cui non si conosce la provenienza, se non in quanto a condivisione di una idealità comune – il proprio pensiero e vincolare, fatta salva la libertà di coscienza, la propria facoltà d’azione, nel contesto politico e civile, ad un patto di condivisione. Significa uscire dalla propria singolarità, non certo per venir meno a sé stessi o per accettare supinamente un comodo allineamento
Si tratta, al contrario, di un gesto che ha in sé un sentimento di fiducia e di apertura, un profilo di disponibilità ad incontrare gli altri, un implicito rifiuto ad arroccarsi in una presunta, algida autosufficienza, il riconoscimento di una ricchezza plurale della realtà che non può essere compresa e posseduta stando dentro l’orizzonte della propria singolarità.
Implica quella capacità di ascolto che non è sempre scontata, non sempre viene naturale ed, anzi, richiede applicazione ed una disponibilità a rimettere in discussione i propri schemi mentali, integrandovi nuovi apporti di pensiero, pur senza smarrire il filo logico e la coerenza interna della propria riflessione. Significa soprattutto mettersi nell’ottica di una responsabilità che ha a che vedere con il senso della propria vita.
In fondo, aderire ad un partito è un gesto di umiltà, nel senso proprio del termine che nulla ha a che vedere con quell’atteggiamento un po’ viscido ed untuoso di certe umiltà esibite ad arte. Ma piuttosto significa misurare il distacco che corre tra il proprio impegno, la capacità che uno ci mette ed il livello dell’impresa.
Un partito moderno deve essere un luogo aperto, che non fa proselitismo, ma accoglie generosamente e, sia pure, mette alla prova dei fatti l’intenzione e la competenza di chi assume un impegno di “militanza”. Un luogo in cui il pensiero precede l’azione per cui non si cade, pur apprezzando la necessaria concretezza dell’azione, nella retorica dei cosiddetti “uomini del fare” che spesso si affaccendano in una manipolazione confusa di cose e situazioni che non approdano a nulla di organico e risolutivo.
La “militanza” non evoca metodi da caserma o da centralismo democratico, ma sicuramente una disciplina di cui ciascuno deve farsi carico, soprattutto per rispetto dei suoi interlocutori. Sapendo che un partito non nasce a tavolino o nei salotti dove illuminanti benpensanti disegnano astratte strategie politologiche.
La politologia è una cosa, la politica un’altra. E’ in sé la natura della politica ad escludere che se ne possa fare una scienza, almeno nel senso galileiano del termine. Un partito nasce, seleziona i suoi aderenti, la sua classe dirigente nel vivo della competizione politica, per cui pur apprezzando sinceramente tutti gli apporti che la realtà virtuale offre alla comunicazione – come sperimentiamo noi stessi in questa fase cruciale – non può prescindere da un forte, schietto radicamento territoriale.
Del resto, chi ha un po’ di esperienza vissuta di vita di partito, sa bene – e qui sta il bello, la vera, forte ed innata sostanza democratica che rende avvincente una politica popolare e schietta – come non ci sia assolutamente un rapporto di proporzionalità diretta tra livello culturale di una persona e capacità di comprendere la politica ed esprimere in merito valutazioni penetranti ed appropriate.
Anzi, molto spesso si constata il contrario perché fortunatamente la politica ha a che vedere con la vita molto più che con l’accademia e richiede, vorrei dire, “sapienza”, cioè un modo di leggere, interpretare le cose del mondo che adotta una modalità conoscitiva sovraordinata ai “saperi” particolareggiati che pur sono indispensabili.
Domenico Galbiati