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Chi ci salva dai rischi e dai mali del “progresso”? Ma è evidente ! Se adottiamo il paradigma tecnocratico dell’ individualismo assoluto o dell’ homo homini lupus  solo il “male” può salvare dal “male”! Solo il male, cioè la volontà di potenza, ha consistenza ontologica!  Nel Covid ci salva il vaccino, cioè un male iniettato per salvarci ( se funziona)  da un altro male,  nella crisi finanziaria  un male cioè la svalutazione  ( svalutazione del lavoro visto che non si può svalutare la moneta unica, l’euro)  salva i bilanci ( quelli pubblici, non quelli privati) , nella guerra le armi ( quelle più potenti)  salvano dalle armi ( quelle meno potenti). Basta far sempre coincidere il più potente col più giusto, un nuovo compito della politica estera. Per questo il Riarmo europeo proposto dalla Commissione Europea  si presenta come  un dato strutturale e permanente.  Non come una decisione difficile,  da sottoporre ad un dibattito parlamentare.

Del resto  le degenerazioni del potere , all’inizio della modernità,  si fermavano  sempre un po’ in questo modo , equilibrando i poteri e le forze,  contrapponendo  il potere al potere, secondo il modello  per cui un male si contrappone ad altro male, per arrestarlo se non per eliminarlo.  Ora questo non è più possibile, in conseguenza di un esito imprevisto della accettazione strumentale  diffusa del male e della violenza.

E’ l’esito imprevisto che ci ha pazientemente spiegato Papa Francesco. A suo modo di vedere nel mondo attuale ormai  “guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modo di diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo tanto da assumere le fattezze di quella  che potrebbe esser definita una terza guerra mondiale a pezzi. .Questo non stupisce se notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere verso l’unità perché in ogni guerra ciò che risulta distrutto è lo stesso progetto di fratellanza iscritto nella vocazione della famiglia umana, per cui ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento. Così il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia».[25, 26] (Papa Francesco, Lettera Enciclica, Assisi 2020,  Fratelli tutti, punto 26)

Il ricorso diffuso alla soluzione tramite forza genera il  “doppiopesismo” che prescinde dalla verità e dalla esigenza di ricerca della verità- e che nega la realtà stessa dei massacri senza senso  come nel caso di Gaza. Questo “doppiopesismo” è ormai la  base antropologica della distruzione in contemporanea della pace , della democrazia e dei diritti, e della cancellazione dell’orizzonte comune dell’umanità, ormai “strusciato via” come nelle disperate parole del folle che va in cerca di Dio, ne La gaia scienza di Nietzsche . E’ un auto-inganno sapientemente costruito, in cui nessuno può credere davvero con l’uso della retta ragione e che, pertanto,  può funzionare soltanto con la “droga” continua della paura e della sfiducia,  che giustificano e generano a loro volta violenza senza confine e senza limiti.

La logica della paura e della competizione

C’è un interrogativo che infatti abbiamo cessato di porci: ma può davvero la sicurezza collettiva degli stati fondarsi sulla paura e sulla sfiducia reciproca? Può su questo costruirsi la regola di un ordine internazionale? Per molti, moltissimi credo di sì. Però la storia dell’ Europa contiene eventi e situazioni che smentiscono assolutamente  ogni base di questa convinzione.  Bastano alcuni esempi.

Dopo la “grande guerra”  un numero crescente di Stati subentrava ai grandi imperi dell’ Europa continentale, che erano stati certamente delle “prigioni dei popoli” , ma che avevano anche assicurato l’integrazione economica e l’equilibrio delle forze a livello internazionale. In realtà gli Stati nazionali- allora fondati sui principi di identità nazionale e di esclusione-   si dimostrarono non meno aggressivi dei grandi imperi e soprattutto incapaci di costruire rapporti di fiducia e di cooperazione tra gli stati.

Apparve chiaro ben presto che , in mancanza di uno strumento che assicurasse la sicurezza collettiva, bisognava contare esclusivamente sulla diplomazia tradizionale, sui trattati bilaterali e sui sistemi di alleanze e di garanzie reciproche. Di qui il numero straordinario di trattati e accordi che servirono, a pochi anni di distanza dalla Conferenza di pace di Parigi del 1919, non a risolvere questioni territoriali controverse, ma ad assicurare garanzie all’una o all’altra potenza, all’una o all’altra regione. Un po’ il rischio che correrebbe oggi l’Europa con un riarmo nazio-centrico (cosa ben distinta da un vero esercito europeo e da una difesa comune oggi necessari) , che potrebbe creare aree distinte di maggiore e minore  sicurezza  e quindi potrebbe replicare la paura e la sfiducia reciproca, che aprirono la strada  al secondo conflitto mondiale. Un conflitto che nacque – ricordiamolo- grazie alla convergenza di interessi egemonici tra un Impero esterno (quello sovietico) ed una potenza interna europea (la Germania) a spese di un’area non inclusa nella sicurezza collettiva e sostenuta da garanzie esterne poco efficaci (l’area polacca).

Non solo quei sistemi di sicurezza regionali non garantivano la pace, ma gli stessi trattati di “pace” avevano posto le premesse per la sfiducia e per la competizione distruttiva. La questione delle “riparazioni” di guerra che il trattato di Versailles addossò alla Germania, ritenuta lo Stato responsabile della guerra, fu, alla fine, insieme alla smilitarizzazione della Renania ed ai  pesanti ed unilaterali vincoli al riarmo tedesco, un elemento di peso straordinario nell’opinione pubblica tedesca. Se non altro perché il senso della disfatta immeritata da esso generato alimentò quel revanscismo che fu olio sul fuoco per Adolf Hitler e per il nazismo che, qualche anno più tardi , di fronte alla crisi del 1929, poterono acquisire consensi straordinari sfruttando il sentimento di “umiliazione” nazionale  creato dai trattati.

L’ “ordine europeo” che si era cercato di ricostruire coi trattati di pace e coi successivi accordi (Locarno, Stresa ed altri) invece di assicurare una vera pace, aveva garantito una tregua debole e fragilissima che si sarebbe gradualmente infranta soprattutto dopo i colpi della crisi economica del 1929 e la ripresa dei nazionalismi protezionistici e aggressivi che avrebbero segnato gli anni trenta in Europa e fuori d’Europa.

L’ Europa, come riconobbe Schuman nel 1950 non era arrivata e si era avuta la guerra. L’idea di una federazione possibile tra gli Stati europei, la cui esigenza era chiarissima negli statisti di più alto livello, come Aristide Briand che provò a lanciare un piano europeista il  5 settembre 1929 si rivelò, nel 1929, come una prospettiva utopistica e fuori linea rispetto alla realtà. I timori reciproci, le rivalità, le diffidenze, i risentimenti per l’esito diplomatico dei conflitti avrebbero incendiato rapidamente la prateria.

La logica della speranza e della relazione

La pace intesa nel suo senso più profondo, non solo intesa come sicurezza, ma anche come  cooperazione e concordia ordinata tra stati e tra popoli,  è oggi, nel 2025,  in realtà proprio per questo, una dura battaglia, un combattimento culturale e morale, una difficilissima conquista (altro che egocentrica rinuncia a combattere!), non una realtà  che è sufficiente enunciare, richiedere, supplicare, rivendicare, come se la parola bastasse di per sé ad illuminare le intelligenze ed a smuovere le volontà e le coscienze. Ed essa è anche una dimensione globale,  una realtà indivisibile, come ben la intendeva  Schuman, che infatti parlava di “pace mondiale”, non europea, da salvaguardare.

E’ necessario, a partire dal’ Europa, riprendendo un compito che essa si era assunta,   un recupero del senso di responsabilità, e del senso di verità oggettiva per umanizzare la realtà dei poteri selvaggi che prescindono persino dal senso della realtà e per iniziare a superare il caos,  ormai arrivato al diritto internazionale,  ridotto all’impotenza ed all’emarginazione, come mostrano i terribili fatti di Gaza.  La violenza elevata a giudice supremo dei conflitti tra gli Stati!

La “pace” perciò, e non semplicemente l’ “ordine internazionale”, nella prospettiva di Schumann, si fonda infatti su una prospettiva che  include la progettualità, la forza che ci consente di aprirci ad un futuro che non possiamo conoscere ancora(quella forza, o “virtù” che si chiama “speranza”), la prevalenza del tempo della progettualità sullo spazio che è il campo della decisione necessitata ed emergenziale (la massima delle quali è la guerra), la salvaguardia del concetto di comunità fondandola sulla relazione tra persone e tra popoli (che è tutt’altro dalla connessione, più o meno remota) e la pratica di una vera democrazia che non può esistere nella sua forma autentica che laddove c’è una prospettiva aperta che la libertà razionale umana  è chiamata a inverare.

E’ questa la sola prospettiva che può  rovesciare radicalmente il  “fondamentalismo di mercato” (Joseph Stiglitz) oggi dominante che punta a  trasformare  le comunità da collettività  sociali a masse composte da atomi individuali, che mirano a potenziare tecnologicamente se stesse.  Una prospettiva che implica una lotta culturale durissima di cui spesso chi manifesta per la pace o per la democrazia è poco consapevole.

La “pace” in senso profondo si fonda infatti  sui doveri  più ancora  che sui diritti. I doveri, una dimensione del tutto estranea a tecnologia e finanza, ma anche ad un certo senso comune diffuso a sinistra.  Per questo la “pace” è tanto lontana dalla  realtà politica oggi prevalente in Europa e nel mondo. Si tratta dei doveri  della intelligenza umana e della ragione – “la pace vuol dire rinunzia alla rinunzia,  accettazione dello scomodo  stato di essere uomini, adempimento dei delicati doveri della vivezza e dell’intelligenza” scrive splendidamente Aldo Moro, in: La necessità di essere uomini, Editoriale in   “Studium”  1945, n.12. Doveri ritenuti obsoleti nell’era dell’ Intelligenza Artificiale.  Doveri peraltro necessari a strutturare il concetto di “ordine internazionale” che non sia semplicemente quello dettato dalle leggi del più forte, ma un ordine che  assicuri la fiducia reciproca e la socialità, visto che “  una più grande consapevolezza  dei doveri umani  universali  sarebbe di grande beneficio alla causa umana della pace , perché  le fornirebbe  la base morale   del riconoscimento  condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà  di un individuo  o di un gruppo” (San Giovanni Paolo II,  Messaggio  per il 1  gennaio  2003).

E’ necessaria però una cultura antropologicamente diversa che non si fondi né  sulle leggi necessarie dettate dalla natura e dalla storia ( come nel marxismo leninismo) né su quelle  dettate dalla tecnocrazia, dal tecno-liberismo  o dalla tecno-scienza ( come nel neoliberismo). Entrambe considerano l’uomo un prodotto  prestabilito, certo da proteggere o “migliorare” ma  una entità   dominabile e trasformabile,  rotellina o  ingranaggio nella grande macchina del progresso, o magari “risorsa preziosa” per usare il linguaggio politically correct  (che ovviamente ignora che in quella stessa accezione il termine “risorsa”  era usato persino da Stalin).

La pace vera è perciò incompatibile con la società dell’astrazione  che è incapace di aprirsi all’imprevisto, alla aspettativa ed alla speranza, perché  conosce solo gli schemi dettati dalla scienza ed ignora  che “nessun popolo  finora si  è organizzato secondo  i principi della scienza  e della ragione: non c’è mai stato  un simile esempio  se non per un attimo  o per stoltezza“ (F. Dostojevskji  I demoni).

La pace, esattamente  come la democrazia, si fonda sulla  riscoperta del valore della memoria del bene  ( o almeno della ricerca del bene)  che è sempre presente nell’esperienza dei  popoli e che rende sempre sensato il confronto ed il dialogo culturale  al di là degli autocrati, dei dittatori e dei capipopolo che prima o poi passano, mentre i popoli restano.

Il migliore augurio da fare quindi all’ UE, che il 9 maggio celebra la sua ricorrenza  fondativa a Leopoli, la città ucraino-polacca,  crocevia di popoli, nel cuore della vecchia Galizia austriaca, la città che ha conosciuto come altre ( pensiamo a Verdun in Francia), specie nella “grande guerra” 1914-18, la tragedia dei massacri reciproci tra europei  e delle “inutili  stragi”, proprio da Leopoli possa venire l’ auspicio di farsi promotrice e modello della ricostruzione di un “ordine internazionale fondato su regole” che siano  improntate alla fiducia reciproca, alla cooperazione  e  alla giustizia.   Respingendo con forza la facile illusione di divenire una potenza regionale forte per la sua capacità di deterrenza e cioè di costruttrice di paura.  Questa illusione o tentazione  sarebbe davvero la “Finis Europae”.

Umberto Baldocchi

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