Il Disegno di legge per la Riforma costituzionale della Giustizia ha iniziato l’iter parlamentare ed è stato già approvato dalla Camera.

Ci saranno altri passaggi in Parlamento ma sul testo è in corso un confronto acceso tra maggioranza e opposizione che vede i Magistrati contrari alla Riforma e che é culminato, persino, in uno sciopero delle Toghe che rivendicano la salva- guardia della indipendenza del Sistema giudiziario dal Potere politico.

La questione, al di là delle valutazioni che si leggono nei tanti commenti, merita qualche chiarimento di ordine tecnico sulle proposte avanzate dall’Esecutivo e, forse, anche qualche indicazione sui correttivi di apportare prima della definitiva, quanto auspicabile, rapida approvazione.

Limiti sovranazionali della Riforma

Nonostante le tante polemiche e prese di posizione da parte della Magistratura, si potrebbe tentare di trovare un pacifico consenso unanime precisando nel testo normativo che la indiscutibile soggezione alla Legge dei Giudici riguarda solo quella “alla cui applicazione essi siano tenuti nell’esercizio delle loro funzioni”.

Si chiarirebbe, in tal modo ed in maniera ineccepibile, quello che é già previsto dal dettato costituzionale allorquando è necessario applicare una norma vigente che contrasti con un principio costituzionale che occorre per risolvere un qualsiasi procedimento giudiziario che sia in attesa della decisione.

In tali casi l’Autorità Giudiziaria, sia di sua iniziativa ovvero su istanza di una delle parti, incluso il Pubblico Ministero, è tenuta a sottoporre la questione di costituzionalità alla Corte costituzionale, sospendendo il giudizio pendente e attendendo la decisione della Corte a cui compete, come è noto, la possibilità di annullare la norma incostituzionale, che, in conseguenza, potrebbe non trovare più applicazione nell’Ordinamento e non solo nel caso controverso.

Inoltre, sul punto va ricordato che la potestà legislativa tanto dello Stato quanto delle Regioni, oltre che al richiamato rispetto della Costituzione, è tenuta a considerare i “vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e dagli obblighi internazionali” assunti dallo Stato(art. 117, c. 1, Cost.). Questo significa che sottovalutare, da parte del Legislatore, questo limite di natura sovranazionale renderebbe, in ogni caso, inapplicabile la norma interna con buona pace degli avversori della Riforma in cantiere.

In conseguenza, in questi casi, il Giudice si troverebbe, a sua volta, a dare diretta applicazione alla norma Europea e/o attivare il controllo di costituzionalità da parte della ella nostra Corte delle Leggi. Ne costituisce riprova il fatto che su queste questioni di ordine procedurale si è consolidato nel tempo un orientamento giurisprudenziale, tanto della Corte delle Leggi quanto della stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che  non potrà essere ignorato dall’Autorità giudiziaria chiamata a disapplicare la norma interna laddove rilevi  un rilevante contrasto con quella sovranazionale.

Va sottolineato che, per tale ragione, l’applicazione del diritto, al cui sono tenuti i Magistrati, è sottoposta al limiti del rispetto delle Direttive Europee e la eccepita violazione è affidata ora non solo ed esclusivamente all’Autorità Giudiziaria nazionale ma anche alle Corti Europee. Invero, partendo dal costituzionalismo delle origini, siamo giunti ad una lettura più evoluta della democrazia costituzionale che, in base dall’art 11 della nostra Costituzione, oggi consente restrizioni della Sovranità nazionale in favore delle Organizza zioni sovranazionali il cui scopo primario è, com’é noto, quello di preservare “la Pace e la Giustizia fra le Nazioni”.

Tale impostazione di principio ha aperto, quindi, un nuovo capitolo legato proprio alla capacità di far valere, prima di tutto sul piano internazionale, regole che coinvolgano direttamente gli Stati e le Autorità politiche che li rappresentano. Pertanto, l’assunzione di impegni tra gli Stati obbliga i Giudici nazionali a tenere conto della norma sovranazionale come pure delle norme interne di derivazione internazionale che, una volta introdotte nell’Ordinamento statale, trovano piena applicazione da parte dell’Autorità giudiziaria nei confronti di chiunque sia obbliga to al loro rispetto. In questo si sostanzia il significato profondo ed imprescindibile dell’attuale demo crazia costituzionale, nella quale l’esercizio della funzione giurisdizionale(e non più un Potere come veniva definito dal Montesquieu in altre epoche)spetta ad altre Autorità pubbliche, distinte e separate dagli Organi istituzionali politici, e me garantisce l’effettiva indipendenza.

A sostegno di tale assetto decisionale, merita di essere ricordato che, di recente, in materia di Immigrazione i Giudici Italiani hanno fato ricorso a “pareri” delle Corti Europee ritenendo violato il Diritto Europeo da norme interne limitative emanate dall’Esecutivo. Si potrebbe, quindi, apportare al testo della Riforma, con un po’di buon senso da  parte dei Giuristi impegnati nella stesura, una utile quanto dirimente dei contrasti insorti, precisazione della norma costituzionale secondo la quale “I Giudici sono soggetti soltanto alla Legge”(art.101,c.2,Cost.),aggiungendo la modifica seguente “ed alle nome emanate dalla Unione Europea”.

Il Giusto processo e l’importanza del contraddittorio

Tuttavia va, comunque, ricordato, che, come afferma la  Dottrina da anni, “la condizione di terzietà del Giudice è un elemento necessario ma non sufficiente per avere la certezza che possa assolvere la sua funzione con neutrale obbiettività” nonostante quanto sancito dall’l’art.111 della Carta Costituzionale, modificata con la Riforma del 1999, per conseguire nei Tribunali la piena attuazione del cosiddetto Giusto Processo, ancora inattuato per assicurare la parità delle Parti.

Come affermato, sul punto, nei commenti alla Riforma in maniera condivisibile ”Giudicare é un compito necessario e impossibile a un tempo. Necessario, soprattutto quando si tratta di fatti di reato, perché una Società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità, ovvero, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita”.

Qualunque persona, investita del gravoso compito del giudicare, si approccia al processo con un proprio vissuto, un proprio bagaglio culturale e un assetto emotivo che fatalmente ne influenzano le capacità di percepire, di valutare e di decidere il caso sottoposto al suo esame.

In Dottrina è pacifico il principio che “tra le tante verità possibili quella espressa dal processo costituisce la migliore verità che una Comunità è in grado di darsi nel rispetto dei diritti dei suoi consociati sebbene vi siano limiti alla ricerca della verità come i limiti cosiddetti ”valoriali” poiché l’Ordinamento ripudia il ricorso a metodi che lesive della dignità umana, anche ove siano utili all’accertamento della verità e limiti connaturati alla fallibilità dei nostri strumenti di conoscenza” .

Come dimostrano alcune controverse o erronee sentenze, tali limiti generano decisioni, a volte assurde ovvero erronee, che cagionano danni irreparabili ai malcapitati destinatari oltre che al Bilancio dello Stato, costretto a rimediare. In conseguenza, per superare tali limiti, occorre ricorrere al contraddittorio che costituisce lo strumento meno imperfetto “per la ricerca della verità”.

Da quanto innanzi emerge una accresciuta attenzione al contraddittorio nella formazione della prova, come pure nella emissione dei provvedimenti cautelari, poiché esso trova la sua massima espressione quando sono assicurate l’oralità e la contestualità del confronto delle Parti in udienza ovvero  nella fase istruttoria che la precede. Ne costituisce riprova il recente affidamento a tre giudici della emanazione dei provvedimenti cautelari richiesti dal PM, il divieto di pubblicazione integrale delle Ordinanze di custodia e l’interrogatorio preventivo dell’imputato.

A tanto aggiungasi che il principio della ragionevole durata del processo costituisce un diritto dell’imputato ma anche la garanzia di un processo “Giusto” che si fondi su tali principi ma, soprattutto, sulla parità delle Parti, benché vi siano ancora molte difficoltà per assicurare tale equiparazione tra accusa e difesa.

A differenza di quanto accade nel processo civile, in cui i contendenti disputano per l’affermazione dei propri speculari interessi, nel processo penale vi sono un soggetto privato che difende la sua libertà e la sua reputazione e un soggetto pubblico ,che non ha interessi propri, ma che deve accertare, con obiettività, l’esistenza di un fatto penalmente rilevante e individuarne il responsabile da punire.

La pratica professionale nelle Aule di Giustizia, peraltro, ci insegna quanto i tempi lunghi dei dibattimenti finiscano per mettere in crisi questi sani principi.

Quando i Giudici (togati e popolari)si ritirano in Camera di Consiglio per la decisione, a conclusione di un dibattimento durato mesi, se non anni, il ricordo dell’assunzione orale della prova è soppiantato dalla rilettura del verbale di quella udienza che, di fatto, fa perdere di vista la verità contenuta nella deposizione resa dinanzi ai Giudici.

La svolta, rispetto all’obsoleto assetto normativo precedente, venne introdotta con il Codice di procedura penale del 1989, laddove si sostenne che ”Il tempo del ‘più informazioni si hanno, meglio si decide, lasciava il posto ad un ‘meglio si decide, quando le informazioni sono assunte con un metodo che ne garantisca l’affidabilità’ ”, ossia la cosiddetta Cross Examination delle Corti americane.. Dieci anni dopo, sia pure con molte resistenze, le regole del cosiddetto Giusto Processo vennero fissate con la riscrittura dell’articolo 111 Costituzione privilegiando la difesa dell’imputato ma non quella della Vittima.

Ne è scaturito un acceso dibattito che ha dato origine, anche in questo caso, ad un Disegno di Legge Costituzionale, ancora all’esame del Parlamento, dopo l’approvazione al Senato che ha collocato la tutela processuale della Vittima sotto l’art.24 della Costituzione, che sancisce il diritto di difesa in generale, e non già della, più opportuna, modifica dell’art.111,che non soddisfa le legittime ragioni ed aspettative risarcitorie delle  Vittime e la loro partecipazione  al giudizio alla stregua delle altre Parti coinvolte. Nondimeno, sempre in Dottrina, si ritiene che “Il contraddittorio costituisce uno strumento, ancor oggi il meno imperfetto, per la ricerca della verità o meglio per ridurre il più possibile lo scarto fra verità giudiziale e verità storica” poiché “Il processo penale costituisce l’ambito giurisdizionale in cui il contraddittorio risulta di più necessario, ma anche di più difficile realizzazione ”laddove lo stesso si svolga nella “parità delle Parti” tra accusa e difesa”.

Una volta affermata la necessità di assicurare per Legge tale parità con l’impar zialità istituzionale del Pubblico Ministero,occorre ricordare quanto, tuttavia,operi la c.d.“legge psicologica dell’inerzia”,come ha affermato Cesare Musatti.poiché “l’Organo inquirente formula un’ipotesi per cercare la verità, ma sovente finisce per cercare la verità della sua ipotesi” ed “avrebbe un’attenzione selettiva,una visione monoculare quanto parziale della realtà”(!!).

Pertanto, nella Riforma in cantiere.“Il legislatore ordinario è chiamato ad un compito molto difficile:non deve puntare ad un’impossibile uguaglianza delle Parti,attesa la congenita asimmetria strutturale del rito penale, ma deve costruire un sistema in cui l’accusa e la difesa abbiano equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale e i sull’esito finale del processo”.

La Separazione delle carriere

Nonostante quanto innanzi esposto, a sostegno di una soluzione alternativa al conflitto in corso, si ritiene che il vero punto controverso della Riforma all’esame del Parlamento riguardi, unicamente, la separazione delle carriere tra Pubblici ministeri e Giudici, ma anche

  • l’istituzione di due organi di autogoverno distinti: un Consiglio Superiore della magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente;
  • la composizione dei due organismi con una parte dei componenti estratta a sorte;
  • l’istituzione di una Alta Corte disciplinare con giurisdizione su tutti i magistrati, sia giudicanti che requirenti;
  • lo svolgimento di concorsi separati.

Alcuni commentatori ritengono che si tratti di una battaglia di civiltà che può segnare uno spartiacque tra l’assetto normativo precedente e quello successivo che può definire nuovi lineamenti nell’Organizzazione dello Stato e che non è soltanto la battaglia condotta dai Magistrati, ma da quanti hanno una visione dinamica dei principi della  libera convivenza civile.

Da quello che emerge sulla proposta di Riforma della Giustizia non sembra che si siano fatti grandi passi in avanti sulla  separazione delle carriere tra funzione giudicante e funzione inquirente, anzi la proposta dell’Esecutivo appare ad alcuni come una svolta fondamentale, mentre altri la considerano inutile o addirittura pericolosa per il timore che essa apra un varco alla ricorrente tentazione di incrinare l’indipendenza della Magistratura dagli Organismi politici.

Per individuare le effettive ragioni della necessità di un necessario cambiamento della disciplina attuale in materia, vale la pena di ricordare il contenuto del Dossier predisposto dai Servizi Studi delle Camere sul Disegno di legge di Riforma, secondo il quale:

a)Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti – e viceversa – è disciplinato dal decreto legislativo n. 160 del 2006, come modificato da ultimo, dalla legge 17 giugno 2022, n. 71.

b)Ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 160 del 2006, viene innanzitutto sancito come principio generale che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, importi un cambiamento di sede. Infatti, il mutamento di funzioni, ai sensi del comma 3 del citato art. 13, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né infine con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, avuto riguardo al distretto nel quale il magistrato presta servizio al momento della richiesta.

c)In particolare, il comma 3 dell’articolo 13 prevede che il magistrato possa chiedere il cambio delle funzioni:

– una sola volta nel corso della carriera;

– entro il termine di 6 anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 dell’ordinamento giudiziario.

d)L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine è di 3 anni.

e)Trascorso tale periodo, il passaggio di funzioni è ancora consentito, per una sola volta se si tratta:

– del passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l’interes sato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;

– del passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.

– Il passaggio è consentito solo previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.

Tuttavia illudere i Cittadini che, con la separazione delle carriere, non ci saranno più storture, i processi dureranno qualche mese, nonostante la recente introduzione di nuove regole nel Codice di Rito con la cosiddetta Riforma Cartabia, non appare affatto sostenibile.

Per citare, ad esempio, quanto ha scritto di recente il Prof. Luigi Gatta, autorevole processualista penale, “Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori?

A tal fine, secondo l’illustre giurista, un’utile proposta potrebbe essere quella di rivalutare piuttosto il ruolo del difensore poiché appare dubbio “che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con un’unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi”.

I dubbi aumentano quando si accenna a prossimi passi in direzione della sottrazione alle Procure dell’attuale ruolo di direzione della Polizia giudiziaria A tanto aggiungasi le critiche al provvedimento contenute nell’Ordinanza n.5992/ 2025 delle S.U. civili  della Cassazione che ha affermato che “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giudicabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da una norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale”(!!).

La Giustizia Riparativa 

A parere di chi scrive e non solo, si ritiene che la soluzione alle lentezze dello attuale processo penale potrebbe essere fornita dalla piena applicazione della Giustizia Riparativa, introdotta con la citata Riforma Cartabia del 2022,che sottrae la decisione dei reati minori alla Giustizia Ordinaria ed affida alle Parti coinvolte la definizione bonaria delle controversie oggetto di querela, peraltro ampliate con la Riforma introdotta con l’ausilio dei Mediatori Penali formati a tale scopo.

Come ha affermato in questi giorni Enrico Marignani, Presidente dell’Unione dei Giuristi Cattolici, “Il vero scopo della giustizia non è punire, ma sanare le ferite e ricostruire relazioni”

A due anni dall’entrata in vigore del nuovo assetto giudiziario- per l’Illustre  Giurista- la novità più rilevante è costituita dalla definizione della nuova Giustizia  contenuta nella sentenza n.6595 del Febbraio 2024,con cui, per la prima volta, la Suprema Corte afferma che essa porta con sé l’idea che “la Giustizia non è solo la risposta al male con la inflizione di un altro male, la punizione appunto, ma si preoccupa anche di ristabilire il benessere con la cura della ferita causata dal reato”.

Per comprendere la portata rivoluzionaria di una tale definizione della Giustizia va sottolineato che l’innovazione introdotta nel rito penale offre uno spazio di dialogo in cui le parti possono confrontarsi, riconoscere il danno subito e lavorare insieme per ripararlo, sia a livello materiale che emotivo a differenza del passato..

In questo procedimento, il focus si sposta dalla punizione alla cura e alla ricostruzione delle relazioni sociali che è resa possibile con la Giustizia di Comunità che si fonda su una società multietnica e trasversale, libera da pregiudizi di vincoli sociali, religiosi o di censo.

I valori di riferimento della Giustizia di Comunità sono l’ascolto, il non giudizio e la volontarietà della partecipazione alla vita comunitaria che promuove una visione della Giustizia basata sul dialogo e la coesione sociale, in cui ogni individuo è parte attiva di un processo volto a stabilire relazioni più solide e consapevoli.

L’attuale sistema punitivo ha essenzialmente lo scopo di dare un senso di sicurezza e ordine, mentre quello relazionale può trovare spazio come risposta alle limitazioni della giustizia tradizionale, soprattutto nei casi in cui il reato ha gene rato ferite profonde che la sola punizione non può sanare. Pertanto, con l’introduzione della Giustizia di Comunità si verifica una evoluzione necessaria della coscienza sociale con cui si riconosce che essa promuove un assetto relazionale, che non è solo un’aggiunta al sistema punitivo, ma costituisce una sua trasformazione più profonda che comporta un implicito un senso di responsabilità e di riparazione che ingloba, in una forma più umana e inclusiva, il concetto di Giustizia retributiva.

I vero scopo della Giustizia non può essere, quindi, solo quello di punire ma anche quello di  ristabilire un nuovo equilibrio sociale fondato su un sistema giuridico che  trova nuova linfa in quello relazionale.

Questa evoluzione richiederà tempo, coraggio e un profondo cambiamento cultura le ma il percorso è già stato tracciato.

Conclude il Presidente Marignani: ”ogni passo verso una Giustizia più riparativa è un passo verso una società più consapevole e coesa, capace di riconoscere che, nell’assunzione di responsabilità e nella ricostruzione delle relazioni, si trova la vera essenza della Giustizia”.

Mario Pavone

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