Mentre l’opinione pubblica italiana era concentrata sulla questione della serrata dei benzinai, la realtà internazionale in cui il nostro paese, pur non avendone piena consapevolezza, si trova immerso ha subito una radicale e assai preoccupante trasformazione. Questa viene annunciata e formalizzata “a pezzi” – come direbbe Papa Francesco – proprio in questi giorni, con l’amministrazione Biden che rende ufficiale la decisione di fatto già presa da tempo di
consegnare al governo ucraino un non piccolissimo numero, di carri armati Abrams. Che non cambieranno immediatamente il quadro del conflitto attualmente in corso, anche perché non proverranno dagli arsenali dello US Army, ma dovranno essere ordinati in fabbrica, prodotti e spediti sul campo di battaglia. E quindi è probabile che un anno o anche più sia necessario perché essi diventino operativi. Ma che sono un potente simbolo della dura realtà e radicalità di una decisione che ha grande valore militare, ed importanti conseguenze politiche. E che potrebbe anche essere un passo decisivo su una strada che non consente ritorno.
Gli Stati Uniti erano apparsi finora piuttosto restii a compiere questo passo. Se lo hanno infine fatto è stato sotto la pressione del governo di Berlino; il quale ha contemporaneamente compiuto un’analoga ma più significativa svolta: la decisione del Cancelliere tedesco Scholz di autorizzare la cessione a Kiev un certo numero di carri armati Leopard 2. Non moltissimi, ma abbastanza per dare la stura ad un flusso assai più significativo e pericoloso.
I Leopard 2 sono infatti carri d’assalto di fabbricazione tedesca, e disponibili – per un totale di circa 2000 pezzi – in molti paesi europei occidentali, che però finora non potevano trasferirli all’armata di Zelensky senza il benestare del paese produttore. Un benestare che, come hanno immediatamente minacciato i Russi, finisce per porre i paesi fornitori, e in primo luogo la stessa Germania – nella posizione di belligeranti de facto nella guerra contro Mosca. E di conseguenza, fa compiere al conflitto un nuovo passo nel processo di escalation, e rende assai più probabile una guerra totale; cioè – si esita a dirlo – una guerra nucleare. Una escalation alla quale il governo di Berlino alla fine è stato incapace di dire di no, limitandosi a cercare di condividerne con quello di Washington la responsabilità di fronte al mondo ed alla storia.
Siamo in guerra con la Russia?
La decisione appena assunta dal Parlamento italiano di continuare a fornire per tutto il 2023 quanto aiuto militare possibile al governo di Kiev si inserisce in questo tragico contesto. Vi si inserisce logicamente, dal lato degli Stati Uniti, in virtù della naturale collocazione geopolitica del nostro paese e delle sue caratteristiche istituzionali, così come delle sue storiche ed irrevocabili alleanze successive ala Seconda Guerra mondiale. Cosicché, in una qualche misura anche l’Italia diventa corresponsabile di un passo che – ripetiamo – potrebbe essere senza ritorno.
Il ministro della difesa, Crossetto, sembra rendersene pienamente conto ed ha cercato di sdrammatizzane la portata, quando ha affermato che l’Italia fornisce solo “armi difensive” – in particolare un sistema antimissile – e ha lasciato chiaramente intendere che Roma non si considera in guerra con Mosca.
Il quadro politico italiano sembra però indicare che una così importante decisione venga assunta da parte del nostro paese – nonostante la premura di Tedeschi ed Americani di coinvolgere Giorgia Meloni, anche se tardivamente, nelle conversazioni che hanno portato a questa scelta – senza la piena consapevolezza di come questo ulteriore intervento di Biden e di Scholz a favore dell’Ucraina rischi di spingerci su una posizione assai avanzata in una terrificante spirale di sfide e risposte.
Né sembra esserci vera nozione del peso e delle conseguenze che, per l’Italia, potrebbe avere una tale decisione, e mentre – come già detto – tutta l’attenzione dei media e del pubblico è rivolta a questioni di minore momento. Una caratteristica tutta italiana, che mostra la profondità della crisi che il paese attraversa da trent’anni a questa parte, e che rende in definitiva comprensibile la richiesta di quel campione degli applausi strappati al loggione che è Zelensky di poter far udire la propria voce al festival di Sanremo.
Non che nel paese e nelle forze politiche manchi il consenso alla linea seguita dal governo Meloni sui grandi temi internazionali. Al contrario. Si tratta di un consenso molto esteso, e la cui solidità è ben visibile nel fatto che è condiviso anche da quella che pretende di essere l’opposizione. E’ palese infatti come non solo il principale partito estraneo alla coalizione di governo, il PD, ma anche il cosiddetto Terzo Polo, siano – su questa questione – supinamente allineati sulla stessa linea della coalizione di centro-destra, e che le voci di dissenso restino molto minoritarie, contraddittorie e confuse. Esse trovano espressione solo presso i cosiddetti “grillini”. I quali però non sono una forza politica, ma un coacervo di impulsi protestatari, spesso anche molto nobili nelle loro motivazioni, ma che talora finiscono per dar spazio e voce – oltre che al funambolico Conte – anche a qualche personaggio tanto ottuso ed ignorante sulle questioni socio-politiche quanto abile e furbastro nei suoi personali interessi.
Una finta opposizione
Non che non esistano in Italia gruppi o singole personalità intellettuali che dissentono per ragioni politico ideologiche dalla decisione occidentale di sostenere costi quel che costi l’Ucraina di Zelensky. Tutto ciò esiste, anche se misura assai minoritaria, e costituisce una componente dell’elettorato che sostiene il movimento in cui Giuseppe Conte ha negli ultimi tempi tentato – e tuttora tenta – di trasformare le sgangherate folle che seguirono Beppe Grillo ed i ridicoli pupazzi da lui stesso insigniti del titolo di Leader. Ed esistono peraltro anche nel PD. Basta pensare, per averne conferma, che persino in questo gruppo parlamentare alla Camera dei deputati c’è stato un voto contrario al sostegno militare italiano a Zelensky, quello dell’esponente del gruppo “Demos”, Paolo Ciani.
Nel complesso, però, il corpo elettorale italiano, e l’opinione pubblica generale, non crede possibile un ordine mondiale veramente multipolare, e nemmeno un sistema-mondo ruotante attorno ad una potenza diversa negli Stati Uniti, Non crede sia possibile realizzare attorno ad una potenza diversa dall’America un ordinato raggruppamento di paesi del mondo in cui quelli non-egemoni possano non solo godere di un forte grado di libertà interna e nazionale,
ma possano anche in qualche misura influire sulle decisioni del paese leader.
L’America, come è stato scritto, contiene “un po’ del buono e del cattivo di ogni paese”. Tutti, o quasi, i cittadini degli USA sono hyphenated Americans, americani col trattino: Irish-American, Italian-American, German-American, African-American. E questa caratteristica, che nei secoli scorsi ha dato a questo singolare paese sensibilità alle esigenze dei vari popoli europei, lo rende – oggi che il crogiuolo è alimentato da flussi che vengono da tutti i continenti del pianeta – certo molto più caotico e difficile da governare che in passato, ma più che mai adatto – anzi di fatto insostituibile – a tenere il ruolo di centro e di governo del sistema internazionale. O “globale” come ancora si diceva appena un anno fa.
A condizione tuttavia che usi con accortezza la propria proiezione ed influenza nel resto dei paesi. E a condizione che mantenga una certa misura di non “entanglement”. Cioè che non si lasci invischiare troppo nei loro litigi, e non esageri nel parteggiare per uno o per l’altro dei paesi coinvolti in guerre fratricide come quella tra Ucraini e Russi. E soprattutto che non faccia passi in direzioni che non consentono ritorno.
Giuseppe Sacco