Intervista pubblica su www.interris.it a firma di Giacomo Galeazzi
“Un bambino che cresce vedendo solo bombe e sangue rischia di non credere più che la vita sia un dono buono- afferma padre Ibrahim Faltas- Molti hanno paura che quello che sta accadendo a Gaza, può accadere anche a loro. Per questo nelle nostre scuole insistiamo sul dare continuità educativa, anche nei momenti più difficili: offrire un’aula, un insegnante, un libro diventa un atto di resistenza alla violenza. Aiutare i ragazzi a custodire la speranza significa difendere il futuro di un popolo”. E aggiunge: “Difendere la vita non è un’opzione, è un dovere morale. Quando un popolo viene privato di cibo, acqua, cure e casa, non bastano le parole: servono gesti coraggiosi; corridoi umanitari, cessate il fuoco, protezione dei civili. Ogni ora di silenzio politico costa vite innocenti”.
Gaza da ricostruire
Padre Ibrahim Faltas, lei ha ricoperto incarichi di vertice alla Custodia di Terra Santa fino ad esserne oggi direttore delle 18 scuole in Terra Santa. Quali ferite lascia sui bambini e sui ragazzi un massacro come quello in corso a Gaza?
“Le ferite sui bambini sono le più profonde e dolorose. Non si tratta solo delle conseguenze visibili, bambini amputati, traumi che si porteranno per tutta vita, case distrutte, scuole cancellate, famiglie spezzate, ma soprattutto di quelle invisibili che rimangono nel cuore: la paura, il trauma, il senso di smarrimento. Anche i bambini di Gerusalemme e di tutta la Cisgiordania vivono questa paura. Ci sono bambini, nella mia scuola, che ogni mezz’ora chiedono di sentire la voce dei loro genitori, ci sono ragazzi che non mangiano nella pausa, perche’ pensano ai ragazzi di Gaza che non hanno cibo, e scelgono di essere vicini così”.
Il piano Trump per Gaza ha possibilità di successo?
“Un piano di pace, per avere possibilità, deve nascere dall’ascolto dei popoli, non dalla logica degli interessi o da calcoli geopolitici. Il piano Trump non ha dato voce alla gente di Gaza, alle famiglie, ai bambini che sono i primi a pagare il prezzo di ogni conflitto. In questo momento e’ arrivata la buona notizia che Hamas ha accettato! Che liberera’ tutti gli ostaggi israeliani, e che si dovrebbe porre fine alla guerra. Dopo due lunghi anni! Ma poi bisognera’ riaprire la via del dialogo, tra tutte le parti, di nuove trattative perche’ non possiamo parlare di sviluppo economico senza giustizia, di investimenti senza libertà, è come costruire case sulla sabbia. La pace non è un decreto che arriva dall’alto, ma il frutto di processi pazienti, fatti di dialogo, riconciliazione e verità. Per questo non basta un progetto scritto: servono gesti concreti che rispettino la dignità di ogni uomo e di ogni popolo e del diritto di vivere nella propria terra”.
La Flotilla ha richiamato l’attenzione del mondo sul massacro nella Striscia. È servito?
“È stato certamente un gesto coraggioso decidere di portare personalmente degli aiuti, mettendo a rischio la propria vita per ricordare che il popolo di Gaza non può essere lasciato solo. La Flotilla ha fatto parlare di sé, ha acceso i riflettori su una tragedia che molti preferiscono ignorare. Ma poi ci si deve chiedere: dove sono finiti quegli aiuti? Siamo rimasti tutti monopolizzati a seguire le vicende della Flotilla, mentre la gente di Gaza continua ad aver bisogno ogni giorno di acqua, cibo, medicine, di tutto ciò che serve per vivere. Non possiamo misurare il valore solo dai risultati politici, ma dal segno che lascia nelle coscienze. È servito a ricordare che non si può voltare lo sguardo: ogni gesto di solidarietà autentica resta un seme che chiama giustizia”.
Due milioni di persone lasciate sole, senza aiuti, con morti, feriti e campi profughi bombardati: cosa fanno l’Europa e l’Onu?
“Purtroppo, troppo spesso, guardano da lontano. Vediamo risoluzioni, dichiarazioni, parole di condanna, ma poche azioni reali. Il dramma è che mentre si discute nelle sale delle istituzioni, la gente muore sotto le macerie. L’Europa e l’Onu rischiano di diventare complici con la loro impotenza, perche’ l’indifferenza e’ una forma di colpa”.
Lei come definisce ciò che accade nella Striscia?
“Io vedo un popolo colpito nella sua dignità, cancellato nella sua quotidianità e nel suo futuro. Gaza è un cumulo di macerie: ospedali, scuole, moschee, case, cimiteri, tutto distrutto. È un inferno dove intere famiglie vagano senza sapere dove andare, bambini diventano orfani senza avere nemmeno latte per sopravvivere, madri che non hanno più lacrime per piangere. È disumanità allo stato puro. Eppure in questo abisso esiste ancora un briciolo di umanità: sconosciuti che portano sulle spalle feriti sconosciuti, bambini che accudiscono altri bambini. Forse un giorno, con l’aiuto di Dio, saranno proprio loro a trasformare questo scenario apocalittico in una nuova terra”.
Può farci un esempio?
“Il 3 febbraio 2025 ho incontrato e ho visto i piccoli curati in Italia, siamo stati ricevuti da Papa Francesco, e con grande stupore di tutti, avevano imparato a parlare in italiano, solo in poche settimane! Anche nei giorni scorsi sono arrivati in Italia 38 studenti universitari da Gaza, per laurearsi e sognano di tornare nella loro terra per ricostruirla. Gaza è lo specchio della crudeltà umana di questo nostro tempo, ma anche il grembo fragile di una speranza che non muore”.
Domenica si è celebrato il Giubileo dei migranti e dei 140 milioni di rifugiati e profughi. Come viene visto dalla Terra Santa?
“Il Giubileo ricorda che ogni migrante non è un numero, ma un volto, una storia, una famiglia. In Terra Santa questo assume una forza particolare, perché vediamo ogni giorno i volti dei rifugiati e degli sfollati. Gaza ci rimanda al cuore di questa celebrazione: milioni di persone che fuggono non per scelta, ma per sopravvivere. Mentre l’Europa alza muri e restringe il diritto d’asilo, qui si alza una domanda forte: dove troveranno casa i poveri della terra? Il Giubileo è segno di speranza, ma anche richiamo a un dovere: accogliere, difendere, promuovere e integrare”.
Leone XIV ha detto no alle punizioni collettive e alla rimozione forzata di un popolo. Come si vive in fuga dalla propria terra?
“Ringrazio Papa Leone, per i suoi accorati appelli e per la vicinanza alla Terra Santa e alla Parrocchia di Gaza. Anche Papa Francesco aveva un particolare legame con la parrocchia di Gaza, che chiamava tutti i giorni, incoraggiando Padre Romanelli e i suoi parrocchiani che da due anni circa vivono nei locali della parrocchia. Chi fugge dalla propria terra porta dentro di sé una ferita che non si rimargina facilmente. Non si perde solo la casa o il lavoro, ma le radici, la lingua, la memoria. È come vivere in un esilio permanente, sentendosi straniero ovunque. Le parole di Leone XIII restano attuali: non si può togliere a un popolo la possibilità di vivere nella propria terra senza commettere un’ingiustizia profonda. Qui in Terra Santa vediamo famiglie intere vivere nella nostalgia di ciò che hanno perso. Piu’ di 200 famiglie sono emigrate da Betlemme e per noi cristiani è una grande ferita. I cristiani della Cigiordania sono senza lavoro da due anni, e vivono nella paura delle restrizioni e chiusi nelle loro città senza possibilità di uscire. Noi rimaniamo vicini alle tante persone che non hanno più niente ma hanno la forza di resistere e di tenere viva la speranza: perché la terra promessa, in fondo, è quella dove ogni uomo può vivere in pace”.