Compiangere e ricordare la vittima. Condannare e non abbandonare al suo destino il carnefice.
Quando una ragazzina, quasi ancora bambina, viene sacrificata al vuoto abissale che abita l’anima di un adolescente, allo sdegno si accompagna lo sconforto.
Qui non sono in gioco singole storie, vicende personali contorte, frustranti di adulti, tra cui rovistare alla ricerca di una dinamica che non giustifichi il delitto, ma, in qualche modo, dia conto dei vicoli ciechi che abitano il labirinto interiore di ognuno. È, piuttosto, come se fosse messo in discussione l’ “umano”, il valore incondizionato, irriducibile e fondativo di ciò che è più autenticamente tale, assunto nella sua immediatezza originaria, eppure già compromesso da un turbamento oscuro che si da da sé.
Non possiamo ammettere che sia così, altrimenti dovremmo cessare di credere nell’umanità e confidare nel suo destino.
Dobbiamo, quindi, capire più a fondo come possano accadere delitti così efferati, bestiali, vere e proprie esecuzioni, fredde condanne a morte lucidamente programmate ed inflitte, ad un palmo l’uno dall’altra, a colpi di pietra sulla testa ed il sangue schizza dal corpo della ragazza che credevi di amare.
Non si tratta, beninteso, di evocare una generica ed indistinta responsabilità Sociale. La colpa di un delitto è sempre personale e, come tale, con la fermezza necessaria va perseguita. Eppure, neppure si può, con la giusta e sacrosanta esecrazione di un tale delitto, pagare l’obolo che tacita la nostra cattiva coscienza e fa del “mostro” il capro espiatorio che porta via con sé ogni sentimento di responsabilità e rende limpida ed illibata la nostra innocenza.
Cosa facciamo a questi ragazzi? Cosa ne fa la “civiltà” in cui siamo immersi e della quale siamo pure orgogliosi? Promette, promette e non mantiene. Sollecita il desiderio – già connaturato e, di per sé, privo di ombre negli adolescenti e nei giovani-adulti – lo sospinge, fin dall’età infantile, lo enfatizza, lo gonfia di attese e poi ne tradisce la speranza.
Siamo un muro di gomma impenetrabile.
I giovani ci sbattono contro e vengono rimbalzati all’ indietro. La famiglia deve interrogarsi ed affrontare il tema della fragilità affettiva che la rende così spesso precaria, sofferta, insicura Deve interrogarsi la scuola. Altro che il “merito”.
Quanti sono oggi i ragazzi che, al termine della scuola seconda superiore, conservano nella loro memoria – e per tutta la vita – la figura di un professore, tra gli altri, che li ha affascinati, ha spalancato loro orizzonti inauditi, cosicché sia diventato un maestro di vita?
Devono interrogarsi gli aggregati sociali, di ogni ordine e grado, in cui dovrebbe prender forma la identità personale dei più giovani. Anche – anzi, soprattutto – deve interrogarsi e fare ammenda la politica. Sulle sue responsabilità è tempo di aprire, a largo raggio, un confronto cui vorremmo dare, se ne saremo capaci, anche il concorso di INSIEME.
Domenico Galbiati