WE CARE- Vale a dire come dar vita ad una vera società della cura e uscire dall’ incubo COVID

Nel suo discorso del 5 maggio 2021 sullo Stato dell’ Unione, la presidente della Commissione europea,  Ursula von der Leyen, ha citato Don Milani e la scuola di Barbiana per proporre un motto per l’ Europa. Per l’esattezza ha detto:

“Durante quest’anno di pandemia- ed anche oltre- questo deve essere il motto anche dell’ Europa:  I care, we care. E’ la più importante lezione che io spero possiamo trarre dalla crisi. E’ una lezione sull’ Europa. Noi ci prendiamo cura dei più deboli tra noi, ci prendiamo cura dei vicini, ci prendiamo cura del pianeta e delle generazioni future”.

Oggi piace un po’ a tanti usare il termine “società della cura”. Ed anche il motto di Don Milani è accettabile per ambiti culturali più ampi che nel passato. Ma prendersi cura degli altri, a partire dagli ultimi, o dall’ambiente, è davvero un motto credibile per l’ Europa o è semplice retorica per anime belle, magari funzionale a coprire, col linguaggio cristiano,  realtà certo meno entusiasmanti e rassicuranti o anche  più mediocri e meno confessabili ?

Che la cura delle persone sia una esigenza e una emergenza assolutamente primaria- primaria persino rispetto alla tenuta dei conti pubblici o all’economia o all’ordine pubblico- è – incredibile a dirsi !- un fatto nuovo, una scoperta che abbiamo fatto grazie alla pandemia.  Abbiamo persino scoperto l’esistenza di un debito pubblico  buono! Chi lo avrebbe detto ai tempi della crisi del debito greco e del governo italiano del “rigore”?

Sabino Cassese   ha indirettamente dimostrato trattarsi di una “scoperta”, almeno in riferimento all’ Italia, con una osservazione semplicissima, ma profonda, avanzata qualche giorno fa in un articolo sul Corriere della Sera ( I tre punti deboli di un Paese, 19 luglio 2021),  indicando i  tre punti deboli dell’apparato statale, quelli  che hanno ceduto durante la pandemia : sanità, scuola, giustizia , cioè, guarda caso, proprio  i tre settori pubblici  afferenti direttamente alla cura della persona, nella sua integrità fisica, nella sua crescita umana, intellettiva e morale, nella sua tutela civile entro il corpo sociale ( e quindi  agli artt. 2,3, 4, 32, 24, 32, 33, 34 e molti altri della Costituzione). Ecco la “cartina di tornasole” per individuare i settori sotto-investiti e dimenticati in Italia e forse non solo in Italia. Discorso analogo non vale infatti per le forze dell’ordine, la difesa, il vertice dell’apparato esecutivo, la pubblica amministrazione italiane. Esse hanno retto allo “stress-test” della prova pandemica. Non erano state affatto trascurate, o erano in condizioni almeno più decenti. Non ce ne eravamo accorti. Ora lo sappiamo. La “cura delle persone” era forse pensata da molti come un compito esclusivo o prevalente del volontariato, non un compito dello Stato.

Grazie a quei cedimenti ( provvidenziali?) dell’apparato statale abbiamo capito varie cose importanti. L’educazione vera non si può fare a distanza, non si può fare educazione per via telematica, essa  sarebbe solo una educazione per poveri e cittadini di serie B.  La tutela della salute non si può realizzare col computer e con la sanità on demand – e con gli ospedali per “acuti”-  ma va fatta prima di tutto con la prevenzione e soprattutto con la cura centrata sul paziente , non bastano parametri di efficienza, protocolli rispettati o numero di prestazioni effettuate. Anche vaccinare contro il COVID è certo necessario, ma  non basta, bisogna colpirne ed eliminarne  le cause alla radice. E qui  non bastano evidentemente l’esercito,  un generale, o le strutture amministrative esistenti e nemmeno gli investimenti in vaccini. La tutela della convivenza civile, infine, non si può fare con la pura minaccia della sanzione penale  o con la semplificazione e la velocizzazione dei procedimenti giudiziari, penali e civili. Si fa, prima di tutto, con  l’umanizzazione della giustizia e della pena. La velocizzazione che i mercati, la concorrenza e l’ “Europa” richiedono non è tutto, e comunque, è necessaria per garantire la convivenza civile, prima che per garantire l’economia. Un sistema giudiziario  efficace  non serve ( ma bisogna anche ribadirlo?) ad aprire i mercati agli investimenti esteri, ma a fare in modo che “tutti possano agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”( art. 24 Costituzione), “tutti” inclusi i “non abbienti” , con una legge che determina condizioni e modi, anche “per la riparazione degli errori giudiziari” ( non essendo per ora i giudici esseri infallibili, ma solo comuni mortali soggetti all’errore).

Trasformare radicalmente sanità , scuola e giustizia ( non “riformarle” semplicemente per adeguarle alla domanda) significherebbe certo costruire davvero una società della cura.  Ma questo è probabilmente oggi solo un pio desiderio. La società  attuale – nelle sue articolazioni politiche esistenti- è strutturalmente incapace di prendersi cura davvero delle persone. Bisogna prenderne atto se si vuole intervenire sulla realtà.

Vi sono tre potenti fattori che impediscono oggi in Italia questa trasformazione. Ed è su questi che occorrerebbe intervenire.

  • Primo fattore. Un fattore culturale. Si è negato, si è anzi distrutto il concetto di società in senso pubblicistico come “persona morale”. Solo gli individui esistono. Non la società. La globalizzazione  quanto più unisce tanto più divide.  Già ben prima del virus si era prodotto un invisibile distanziamento morale e sociale, che ancora non si materializzava con mascherine, lock-down e chiusure dei locali pubblici. E la distruzione della “prossimità sociale” ( la “morte del prossimo”) è la premessa dell’annullamento della responsabilità morale. Secondo Bauman essa è stata una delle precondizioni indispensabili per l Olocausto.  In questa foggia psicologica e antropologica il COVID 19, come la peste di Camus, è qualcosa che ciascuno porta dentro di sé e che distrugge coesione sociale e solidarietà umana, al di là di ogni retorica.  E’ la negazione della società ( la “morte del prossimo” secondo Zoja)
  • Secondo fattore. Un fattore tecnologico. Negato il concetto di società, si è affermata invece l’idea di progresso fondato sullo pseudo-principio di innovazione ( solo ciò che è nuovo è bello, tutto ciò che è tecnicamente possibile va realizzato), che nega in radice ogni principio di precauzione, in realtà uno pseudo-principio che alimenta una smisurata hybris umana. E’ un progresso che tutto mira a trasformare in merce a partire dalla natura e dalla biosfera umana, per finire coi pubblici servizi più essenziali ( inclusa la tutela della salute, con gli effetti evidenziati dalla pandemia) ed addirittura per trasformare in merce persino il “rischio”, che diventa una opzione finanziaria da giocare nel mercato dei derivati. Un progresso automatico, che è senza limiti e senza fine ed anche senza fini che lo indirizzino a una meta precisa. E’ ciò che genera la società del rischio e dell’incertezza che è poi la società dell’infelicità inevitabile e della paura del futuro. Tutelare l’ ecosistema con questa idea è un altro pio desiderio.
  • Terzo fattore. Un fattore attinente la cultura civile e politica. Questa idea di progresso ha scatenato un individualismo libertario e liquido che fa a meno di ogni forma di fede nell’altro ( basta avere  per ogni comportamento sociale “pericoloso o dannoso” una tutela penale e civile immediata e giudici infallibili, sempre puniti quando sbagliano !) e di ogni forma di  affidamento, un “progresso” che surroga ogni fiducia di fondo necessaria alla vita umana. Di qui nasce un post-umanesimo che idolatra la potenza dell’ Ego  ed il potenziamento tecnologico immediato, che finisce con l’essere scambiato come il vero perfezionamento umano, con il cyborg al vertice dei valori e con una cultura di “diritti” sempre più irresponsabili, accoppiata mostruosamente ad una cultura dei “doveri” identificata esclusivamente con l’area coperta dalla sanzione penale . Un accoppiamento che unisce incredibilmente ( ma in realtà razionalmente) destra autoritaria e libertarismo radicale.

A questi fattori si aggiunge un nuovo rischio, legato paradossalmente ai mezzi per uscire dalla pandemia. I “soldi dell’ Europa” potrebbero essere il problema. Non dovremmo fare dell’investimento un feticcio. Si dice: ci sono le risorse economiche che non abbiamo mai avuto, quindi c’è tutto. Digitalizziamo tutto, prepariamo la transizione energetica e risolveremo i problemi ! Si dimentica il problema della destinazione degli investimenti.  Se, per fare un esempio, nel campo sanitario, gli investimenti andassero nella cosiddetta telemedicina, nel rafforzamento quantitativo della medicina territoriale,  senza costruire un vero sistema di strutture di sorveglianza e promozione della salute, senza eliminare le file per l’accesso alle cure specialistiche ed agli interventi di alto livello che creano- con una perniciosa ibridazione di pubblico privato- una sanità di serie  A e una di serie B- non credo che risolveremmo i problemi della sanità .

Tutto questo ci dice che abbiamo dimenticato l’ Europa, o, a dir meglio, abbiamo rinnegato l’ Europa e le sue stesse radici. Abbiamo dimenticato chi siamo. Ci siamo dissociati da noi stessi.

Le parole della von der Leyen hanno toccato un punto centrale ed una carenza assoluta dell’ UE di oggi. Prendersi cura degli altri è infatti il fondamento su cui è nata l’ Europa nel lunghissimo periodo di superamento dell’antichità che siamo soliti chiamare Medioevo.  Il motto I CARE ben può riassumere mille e più anni di storia.

Noi, oggi, quando usiamo il termine Europa,  pensiamo troppo spesso all’ Europa del XIX e del XX secolo, all’ Europa dilaniata dalle guerre totali e dai totalitarismi. Non ci poniamo il problema se questa sia stata l’ Europa o l’anti-Europa , l’apogeo dell’ Europa o l’eclisse dell’ Europa. Bisogna per questo ripartire dalle nostre più profonde radici.

E quali sono queste radici? La società europea non è peggiore o migliore di altre. E’ diversa dalle altre: essa si  è strutturata, in un lunghissimo arco di tempo,  a partire dalla costruzione di una rete di rapporti umani, attraverso la realizzazione di un’arte del vivere insieme non imposta dall’alto, ma costruita dal basso, non intesa come subordinazione a progetti di ordinamento alieni ed estranei agli uomini storicamente esistenti. La rete europea delle città nate ( o talvolta rinate) nel Medioevo, città molto diverse da quelle antiche, lo mostra con chiarezza. Queste città non sono la proiezione  di un’autorità politica centralizzata, come nel mondo antico, ma soggetti individuali animati, dotati di una responsabilità che si esprime anche in una legge comune autodeterminata ( lo statuto) e sono dotate di una vitalità che le  proietta entro uno scenario continentale e comunque di respiro mondiale. Questa realtà di piccoli scenari di respiro mondiale poteva nascere solo dal dinamismo di comunità coese e solidali al loro interno, e dotate di forte senso identitario, in cui ciò che era pubblico era ben legato e compenetrato col privato ( non ad esso contrapposto) ed in cui la gestione della convivenza era ben calibrata sull’organizzazione dello spazio e dei mezzi necessari all’ottimizzazione della convivenza. Questa rete di comunità – che è poi l’ Europa-  si era storicamente costituita a partire dall’istituto dell’ospitalità, cioè a partire dal fatto che ogni soggetto per acquisire conoscenza della propria identità e per svilupparla ha sempre bisogno di essere accolto da altri sog­getti “altri” con cui deve entrare in una relazione di conoscenza, di “cura”, di “presa in carico”, non può contentarsi di un puro rapporto di scambio regolato dal mercato. L’ Europa è nata con l’ hospitalitas introdotta dai monasteri benedettini, ed assunta poi da Carlo Magno tra i doveri del sovrano. Non si mirava più esclusivamente all’imposizione di un potere, come era stato nella civiltà romana e antica. Certo la lotta per il potere e in genere le lotte politiche continuano ancora nella logica antica, ma nasce un denominatore comune che orienta i nuovi governanti ( a partire dalle comunità urbane da cui nasce l’ Europa) verso la “cura” delle persone e delle cose, verso la capacità di conformare la realtà, imperfetta e conflittuale dell’uomo,  materiale e non materiale, ad un ordine ideale  – l’ ordo amoris– considerato come il sostrato invisibile del reale. Il paesaggio europeo, le cattedrali, l’arte, la musica, il teatro, le città a misura d’uomo, le istituzioni sociali ( ospedali e istituti di assistenza), persino il suo slancio espansivo-  che pure ha generato anche ingiustizie e guerre-  ne  sono state la manifestazione unificante, al di là delle tragedie e dei drammi che hanno segnato il percorso storico di questo continente.

Di qui è nata l’ Europa. Il motto WE CARE rimanda dunque alle radici che dobbiamo di nuovo valorizzare sbarazzandoci da tutti quei fattori di falso progresso che ci tengono inchiodati entro un lock down mentale, fermi e succubi di fronte all’incubo COVID.

Umberto Baldocchi

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