Who rules the world? “Chi comanda il mondo?” è il titolo di un volume mandato alle stampe, quattro o cinque anni fa, da Noam Chomsky.
“Picco” o “scollinamento” del Coronavirus che sia, ci stiamo inerpicando verso un crinale al di là del quale si apre, in ogni senso ed in ogni campo, una terra inesplorata. Prima di giungervi e scoprire se sia o meno – ma non dipende forse anche da noi ? – una terra “promessa” o piuttosto una landa desolata dove non scorrono latte e miele, ma piuttosto aspra e dura da dissodare, dobbiamo attraversare un deserto.
Una nuova terra cui i nostri vecchi deceduti, come tanti Mose’, non hanno potuto e non potranno accedere.
Ma – per tornare a Chomsky – fin qui ed almeno da qualche decennio a questa parte, “chi ha comandato il mondo”?
Gli Stati nazionali? Le loro differenti forme di alleanza o di aggregazione? Le grandi organizzazioni internazionali ?
O non piuttosto le grandi multinazionali ed il potere finanziario?
I “pubblici poteri” nelle loro forme rispondenti alle varie articolazioni territoriali; la politica, nel suo complesso, non sono forse stati spinti ai margini nel quadro delle dinamiche che effettivamente muovono il mondo? E non succede forse anche perché paghiamo il prezzo della democrazia che – necessariamente e giustamente – rende più complessi i processi decisionali, più articolate le catene di comando di quanto non sia nel mondo della finanza internazionale e delle grandi corporazioni che guardano solo al loro brutale ed immediato interesse di mercato, senza dover conciliare mille spinte, mille esigenze di equilibrio, di libertà da garantire, di giustizia sociale da promuovere, di diritti da preservare nella cornice di quell’interesse generale che chiamiamo “bene comune”?
Occorrerebbe, dunque, anzitutto ristabilire, nella nuova “polis” della nuova terra, l’autorevolezza della politica e dei pubblici poteri. Ed ammesso che vi si voglia metter mano davvero, si tratterebbe di un processo talmente radicale, da apparire, ad oggi, proibitivo.
E’ un’utopia oppure un progetto storico praticabile quella che, fin dagli scritti dei suoi anni giovanili, Aldo Moro chiamava la “società del valore umano”? Un contesto civile incentrato e misurato sulle risorse dell’umanesimo piuttosto che su valori e criteri economicistici.
Per quanto ci riguarda e per quanto il nostro Paese potrebbe suggerire, in fondo non dovremmo inventarci nulla.
Si tratterebbe ancora una volta, come nel secondo dopoguerra, di ripartire in radice, in modo semplice, schietto, immediato dai principi elementari e fondativi della nostra Costituzione: la sovranità appartiene al popolo; la Repubblica è fondata sul lavoro, cioè sulla “persona”, sulla fatica, sullo studio, sull’impegno di solidarietà, sull’intelligenza, sulla creatività, sulla capacità di sacrificio e di sopportazione di tante persone, di ogni persona che una con l’altra formano quel popolo che è molto di più della semplice somma dei soggetti che ricomprende.
Principi e valori civili che trovano una straordinaria assonanza con le risorse spirituali e morali che ci propone e ci offre la Dottrina Sociale della Chiesa.
Certo, non si costruisce un nuovo Rinascimento a tavolino, eppure si possono assecondare, sostenere, promuovere alcune tendenza piuttosto che altre, favorire determinate istanze, ostacolare derive pericolose, arginare processi involutivi. In qualche modo, orientare, quasi, fin dove si può, accompagnare per mano una storia, una rincorsa degli eventi che sembrano farsi da sè.
Ovviamente la sovranità, come la intende la Carta fondativa della nostra democrazia, nulla ha a che vedere con il “sovranismo” che è, anzi, il suo esatto contrario. Significa aprirsi a quelle dimensioni territoriali e relativi contesti politici che – a cominciare dall’ Europa – corrispondano alla effettiva portata delle questioni da affrontare e consentano, quindi, governandole, di riportarle, appunto, entro l’orizzonte della sovranità popolare.
La quale fa tutt’uno con i fattori di solidarietà, sussidiarietà, di reciprocità, appartenenza ad un orizzonte comune che generano una vera e propria “comunità di destino”.
In definitiva, dobbiamo essere consapevoli che stiamo passando da una stagione della storia ad un’altra.
E la cosa riguarda tutti e ciascuno. Pure noi, la piccola comunità che si è formata attorno al Manifesto di Politica Insieme e degli amici che, a vario titolo, vi hanno concorso ed aderito. Il percorso che stiamo sviluppando dal Manifesto al programma assume necessariamente un carattere diverso e più stringente.I contenuti attorno cui sono impegnati i “gruppi di lavoro” vanno probabilmente ricollocati in un nuovo ordine logico, ripensati secondo una griglia di priorità che effettivamente interpreti quel processo di “trasformazione” che il Manifesto ha fatto proprio, in un tempo non sospetto, quando un tale indirizzo di poteva intuire, ma ancora senza che fosse imposto all’ evidenza delle cose dalla pandemia.
Forse è la nostra dimensione embrionale, il fatto in sé che non coltiviamo – né potremmo – aspirazioni di potere di alcun genere che può consentirci – nel più vasto aggregato del mondo cattolico – di assumere un compito di verità, di trasformare il nostro Manifesto in un “appello”.
Il Paese deve affrontare uno straordinario sforzo di ricostruzione. Non si rende necessario un impegno comune che, almeno per un tratto di strada, tenga insieme l’intero arco delle forze democratiche e solidali, capaci di accogliere i valori di un nuovo umanesimo così da offrire una risposta di “vita” a questa stagione di morte? Non mancheranno forze che si escludono da un impegno di responsabilità  globale, destinate a chiudersi, dall’ una e dall’altra parte, nei rispettivi armadi ideologici, ma nella dialettica plurale della nostra democrazia la cosa ci può stare e sarà poi il corso degli eventi a trarre un giudizio.
In quanto a noi, cattolici, dovremmo, anzitutto, ascoltare alcune voci che giungono da chi è lontano, eppure ha una visione perfino più puntuale della nostra, in ordine a ciò che la collettività si attende o è in diritto di pretendere da chi crede. Penso, ad esempio, a Francois Jullien, filosofo francese, autore di un libro (“Le risorse del Cristianesimo” – edito da Ponte alle Grazie) che conoscevo già, ma è valsa la pena rileggere a fronte della condizione in cui siamo posti.
Commentando il Vangelo di Giovanni, ne trae come sia il cristianesimo il luogo in cui “Un evento è possibile….Qualcosa di inedito è possibile. Ogni mattino può essere un nuovo mattino del mondo che si spicca dalla notte passata”. Ed ancora: in quanto novità che sorge senza essere prefigurata, inaudita e capace di cambiare tutto, “L’ evento in quanto avvento è vita” e “la vita viva in sé…..la vita sovrabbondante come è sovrabbondante la moltiplicazione dei pani” irrompe attraverso la mediazione di Cristo.
Che ce lo dica un pensatore dichiaratamente ateo rappresenta, a maggior ragione, un ammonimento ed una invocazione di responsabilità per chi ha ricevuto in dono, in uno con la fede, risorse che valgono anche sul piano di una presenza pubblica, capace di farsi carico di una responsabilità politica e civile.
Domenico Galbiati

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