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Superare il modello centralistico per migliorare la Pubblica amministrazione- di Dario Ciccarelli

L’Italia deve cambiare il modello centralistico, scelta dal Regno di Sardegna nel 1861, e puntare al decentramento, più adatto alla sua struttura Il 4 agosto, al Quirinale, in occasione del 50esimo anniversario della istituzione delle
Regioni, il presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha donato al Presidente della Repubblica una cartina dell’Italia pre-unitaria risalente alla geografia istituzionale della penisola del 1758.

Il gesto si propone come simbolo potente dell’Italia della differenziazione, in superamento di quella orientata all’uniformità. Soprattutto: dopo decenni di vaghi propositi, il colpo di scena del 4 agosto dice che l’opera di trasformazione in senso post-burocratico della Repubblica italiana ha forse trovato precisi centri di responsabilità e credibili interpreti: le Regioni e le Province autonome. Le quali, nell’evocare le diversità culturali dei territori dell’Italia pre-burocratica, hanno scelto, tutte insieme, senza distinzione di latitudine o colore politico, di assumere su di sé, per conto di tutti gli italiani (la popolazione presente nelle regioni è la popolazione italiana), il solenne impegno a utilizzare le leve che l’ordinamento predispone per trasformare l’Italia nella Repubblica delle diversità culturali e per porre definitivamente fine al progetto normalizzatore del Regno di Sardegna.

“Nel 1861 gli eredi di Cavour scelsero come è noto la continuità con la tradizione amministrativa sabauda, riproducendo in particolare nell’organizzazione amministrativa del nuovo Stato unitario le scelte di fondo che avevano ispirato nel 1853 la riforma cavouriana del Regno di Sardegna … disegnando un’organizzazione basata sui principi chiave dell’uniformità e della centralizzazione, di prossima derivazione napoleonica” (Guido Melis, La nascita dell’Amministrazione nell’Italia Unita, 2009).

Già prima della proclamazione del Regno d’Italia, così scriveva Luigi Carlo Farini, ministro degli Interni del I Governo Cavour (1860- 1861), a sostegno delle identità territoriali: “Se vogliamo compiere un’efficace opera di decentramento e dare alla nostra Patria gl’istituti che più le si convengono bisogna, a parer mio, rispettare le membrature naturali dell’Italia. Se volessimo creato l’artificioso dipartimento francese riusciremmo a spegnere le vive forze locali, spostando e distruggendo i centri locali e turbando l’antico organismo pel quale esse si mantengono e si manifestano”. La prospettiva proposta da Farini non trovò accoglimento e nell’élite piemontese prevalse l’approccio centralistico, chiamato a correggere i presunti “errori” presenti nei costumi, nelle culture e nei comportamenti degli italiani, attraverso l’arma del panlegalismo.

“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”: questo il proposito dello Stato italiano, dai suoi albori fino al 3 agosto scorso. Nonostante le novità introdotte dal diritto positivo (si veda il testo del nuovo articolo 118 della Costituzione, introdotto nel 2001 e imperniato sui princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza), i paradigmi fondanti dell’apparato della Repubblica, in assenza di credibili promotori politico-istituzionali del cambiamento, sono rimasti essenzialmente inalterati. Modello francese, orientato al centralismo, all’uniformità e alla primazia dell’apparato formale, della legge e del magistrato? Oppure modello anglosassone, orientato alla sussidiarietà, alla differenziazione e alla primazia dei corpi sociali e dei manager pubblici?

Tra i più autorevoli critici della scelta a favore del modello francese, don Luigi Sturzo: “Questo processo dinamico della realtà economica e amministrativa dovrebbe essere lasciato all’adattamento locale: come avviene in Inghilterra, come in parte era nella vecchia Austria, come, per il sistema federativo di un tempo, aveva il suo naturale fondamento anche nella Germania di ieri. Invece l’Italia prese per modello la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia repubblicana, dove la vita centralistica di Parigi assorbe e polarizza tutta la Francia, e dove la tradizione storica e l’ampio respiro economico assorbono le energie di provincia e spesso le annullano.

L’Italia non poteva trovare una misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua lunga linea dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare l’Inghilterra, non la Francia, e dare il dinamismo legislativo alle sue forze varie, non la forza statica dei suoi regolamenti” (“Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno”, Napoli, 18 gennaio 1923). Più recentemente, merita di essere citato il prof. Paolo Grossi: “C’è una dimensione squisitamente culturale (cioè di cultura giuridica) che la globalizzazione investe, e di cui non si deve tacere. Concerne una ragguardevole immissione di valori culturali propri del mondo di common law nel nostro mondo di civil law … Da un punto di vista culturale, il vecchio legalismo
formalista massicciamente osservato e accuratamente mitizzato nel pianeta di civil law riceve dal contatto coi filoni globalizzatori un respiro più aperto e uno stimolo a parecchi ripensamenti essenziali” (“Globalizzazione, diritto, scienza giuridica”, 7 marzo 2002, Paolo Grossi, presidente della Corte costituzionale dal 24 febbraio 2016 al 23 febbraio 2018).

Con la “cartina” – manifesto del 4 agosto 2020, la squadra delle Regioni e delle Province Autonome dichiara di voler rigiocare la partita originaria. Cosa accadrà ora, in concreto? Quali uova potranno schiudersi? Una pista coerente e realistica potrebbe portare alla nascita, da Palermo a Vicenza, di una vera dirigenza pubblica, sia nelle Amministrazioni centrali che in quelle territoriali. Una dirigenza che diriga e non sia più diretta; che orienti al contesto locale e alla “ragionevolezza” l’azione degli uffici pubblici (1) . A favore di un sistema pubblico che, senza più rinnegare la vera Italia, si ponga finalmente al suo servizio.

Dario Ciccarelli

 

(1) L’autore di questo articolo, a quel tempo nelle vesti di direttore della Filiale Inps dell’Area nolana, intraprese, nel marzo
2012, una collaborazione con i Carabinieri del territorio, a seguito della quale l’azione di vigilanza ispettiva Inps cominciò
ad avere luogo insieme all’azione delle Forze dell’ordine. Da quella collaborazione discese il modello dei “blitz congiunti”
– condotti dagli ispettori dell’Inps insieme ai Carabinieri, e poi anche insieme alla Polizia, alla Guardia di finanza e agli
ispettori del ministero del Lavoro – che cominciarono a coinvolgere anche gli opifici, sconosciuti agli uffici centrali e in
passato mai oggetto di ispezione, nei quali aveva luogo immigrazione irregolare, smaltimento illegale di rifiuti tossici e
lavoro sommerso

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