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Vivere l’educazione. Tra banalizzazione e ricerca di senso – di Gianfranco Ricci

Pedagogisti, formatori, educatori, animatori, mentori, precettori: tanti nomi a cui aggiungere tantissime aggettivazioni qualificative, tante sottolineature, tanti significati diversi. Soprattutto dal punto di vista istituzionale queste parole hanno comportato e comportano tutt’ora discussioni, alcune serie ed alcune capziose, alcune correttamente impostate ed altre tendenti a privilegiare caste, orti e orticelli, competenze ed ambiti operativi.

Servizi di cura versus prendersi cura

Lo so bene non solo perché lettore del dizionario dei sinonimi e dei contrari, ma anche perché, dopo qualche anno di docenza di pedagogia speciale e di educazione interculturale e di formatore di insegnanti elementari e di personale educativo all’interno dei servizi di cura, di assistenza e di riabilitazione, capisco le differenze, ma anche le contiguità, le contaminazioni degli ambiti disciplinari, le competenze dei singoli e le esigenze dell’utenza. Figure oggi sempre più richieste in ambito sociale dove il disagio, la disabilità, l’emarginazione, la vulnerabilità e la fragilità sono sempre più invasive nel contesto socio-culturale della contemporaneità. Queste difficoltà del vivere umano hanno sì necessità di interventi di cura, ma caratterizzati e sostenuti dalla dimensione del prendersi cura. Se l’operatore, qualunque esso sia dai più titolati a quelli meno, dimentica, tralascia, sottovaluta il valore del rapporto relazionale con l’utente, riduce, isterilendolo, il proprio intervento a mera assistenza ed assistenzialismo.  Il minutaggio degli interventi, indispensabile per individuare, coordinare ed organizzare il lavoro, comporta, se non ben gestito, l’imbarbarimento delle procedure e la perdita di efficacia dell’intervento stesso. L’operatività, quando ridotta a semplice intervento da cronometrare per inserirla nel controllo della produttività, genera stanchezza, disaffezione in chi opera ed assuefazione e stanca e debilitante sopportazione in chi subisce la procedura. Ricordo sempre un allievo, in un corso di specializzazione per tecnici di radiologia, che tanto sinceramente quanto ingenuamente sosteneva di non potersi dedicare al cliente, alle sue paure e al suo stato di sofferenza perché il minutaggio parlava di un numero di minuti stabilito per intervento e quindi di non potersi dedicare più di tanto al cliente nella sua situazione esistenziale, visto il contesto ospedaliero. Di fronte alle perplessità ed agli sfottò dei colleghi corsisti ed alle osservazioni del sottoscritto come docente di pedagogia speciale (eravamo alla prima lezione e subito ebbi chiaro il perché tale disciplina fosse stata prevista dal piano di studi della specializzazione) aveva concluso che noi avevamo un bel dire quando lui doveva difendere le proprie quote di interventi giornalieri, pena il demansionamento. Il personaggio in questione, senza colpevolizzarlo più di tanto, non sapeva la differenza tra il curare ed il prendersi cura, non aveva ancora colto che i pazienti sono numeri in un cronogramma, ma anche persone da rispettare. Può anche succedere che l’accoglienza di un cliente non veda codificato un atteggiamento di riguardo, ma l’accoglienza va al di là ed al di sopra di ogni protocollo di intervento.

Qui desidero ricordare un altro passaggio di tipo esperienziale-autobiografico. Anni fa, mi stavo recando in macchina ad Imperia ad un Corso di formazione per insegnanti di sostegno. Pioggia, careggiata scivolosa, fase di sorpasso, brusca frenata dell’autoarticolato che mi precedeva; con l’auto “sono finito contro”, anzi in parte sotto, la coda del mezzo. In serata, ormai messo in sicurezza in Ospedale ad Albenga, iniziavo un processo di cura durato un paio di mesi. Quella sera nel letto accanto al mio un degente anziano in situazione molto critica, semi incosciente continuava a chiamare, seppure con voce flebile, la mamma. Ad un certo momento entra in camera un infermiere: io per curiosità, pur se dolorante, ho fatto finta di dormire ed approfittando delle fioche luci notturne cercavo di vedere immaginando che i protocolli di intervento prevedessero la somministrazione di qualche calmante. L’infermiere, non più giovanissimo, si avvicina al paziente e in dialetto e con voce falsata, imitava una ipotetica mamma, prometteva al suo piccolo di portarlo all’indomani ai giardinetti nel dire questa dolce bugia due carezze con il conseguente addormentamento del vecchietto. L’infermiere, sicuro di non essere stato visto da nessuno si allontanò. Questa non è una favola sulle buone maniere, è un racconto di come in silenzio e con discrezione ci si possa prendere cura e non solo curare il malato. Il malato in questione sarebbe stato curato forse con una fiala di antidolorifico nella flebo a cui era attaccato, invece è stata sufficiente una relazione verbale semplice. C’era empatia tra voce dell’operatore sanitario e l’udito del paziente, altro che effetto placebo. Questo episodio per me è stato determinante per continuare ad approfondire il rapporto tra medicina e pazienti secondo la logica del prendersi cura in un’ottica educativa.. Tanto lavoro condotto a Genova all’interno del Centro Universitario Interdipartimentale di Medical education e a Savona, e non solo, all’interno di Reparti Ospedalieri Pediatrici con studenti, collaboratori e colleghi sul tema dell’alleanza sanitaria-educativa tra personale medico, paramedico, pedagogisti ed educatori e pazienti in corsia, ho tratto, da quel piccolo episodio di vita in corsia, un motivatore essenziale

Educatore risorsa umana su cui investire e investimento di sé

Questi aneddoti, legati alla mia vita professionale, mi servono per introdurre un tema a me caro e che oggi è sempre più all’ordine del giorno: la necessità di parlare di educazione, di fare educazione, di educare. Sono convinto che tutti abbiamo bisogno di questo “supplemento” di educazione, tutti, nessuno escluso. Gli operatori al servizio della persona, a qualunque livello di mansione, non possono fare a meno di essere soggetti ed oggetti di educazione continua. In molte occasioni da “osservatore esterno” ed “amico critico” ho seguito la formulazione, la progettazione e l’elaborazione di proposte formative allo scopo di favorire il miglioramento delle relazioni tra i soggetti del Terzo Settore quali le organizzazioni di volontariato, gli enti di promozione sociale, gli organismi locali, nazionali e sovranazionali della cooperazione, le cooperative sociali, le fondazioni, gli enti di patronati, ecc., con il mondo della scuola, delle amministrazioni pubbliche e del privati. Non mi è mai mancata occasione di vedere come le sigle di appartenenza siano ben poca cosa rispetto alle persone che ne fanno parte.

Sono convinto che non si possa fare a meno di coinvolgere il maggior numero possibile di istituzioni e di persone nella loro unicità (volontari, operatori sociali, insegnanti, educatori e gente comune) nel costituire trame e reti che meritano di essere potenziate e rese sempre più sofisticate, di servizi a favore dei tanti, che sembrerebbero sempre di più, in situazione di disagio, di difficoltà, di disabilità, di diversabilità, di atipicità sociale, di marginalità.

Sono convinto che per poter operare in tal senso sia necessario puntare sulla prevenzione con la consapevolezza che quanto si spende in prevenzione non risulta essere una spesa, un costo, bensì un investimento e, alla lunga, un guadagno con una resa dal valore altissimo, quelle dell’essere bene, del miglioramento della qualità della vita. E’ si un problema di investimenti, di costi, è sì un problema di beni e di servizi da mettere in atto, rendendoli disponibili alle persone, ma, proprio perché finalizzati alla persona, diventano occasione di bene, del bene da far convergere sui territori. E’ quel bene che dà sicurezza, serenità, fiducia, desiderio di fare e di fare bene in relazione alle capacità e peculiarità personali e quindi fare bene per essere bene nel posto in cui ci si viene a trovare al momento. E’ quel bene che possiamo identificare con il bene comune, con “un bene condiviso tra i membri di una specifica comunità”, che preferiamo identificare con il bene di tutti, cioè con il diritto di tutti ad essere considerati ugualmente beni da proteggere e promuovere in relazione al loro bene.

Sono convinto che sia sì un problema di costi e di investimenti, ma sia anche, e soprattutto, un problema di persone da coinvolgere, formandole e attrezzandole culturalmente, direi civilmente, secondo criteri condivisi e condivisibili di impegno civile, laico o religioso. Ecco perché la pars construens ha bisogno di finanziamenti, ma, se questi sono indispensabili, diventano irrinunciabili, direi prioritarie, le risorse umane, intese come insegnanti, educatori, animatori, operatori socio-sanitari. Questi professionisti, esperti di interventi secondo l’etica della cura, necessitano di competenze che  consentano loro di fare un salto di qualità, diventare giunti di trasmissione per innervare nel sociale i tanti giovani che vogliono, ma non sanno come, operare nel mondo del volontariato a favore dei tanti, troppi giovani che non sono in grado di utilizzare la bussola che permetta loro di addentrarsi nel vivere responsabilmente la loro età e comprendere responsabilmente le età degli altri. Non è questione di navigatori sempre più perfezionati, ma di acquisire le capacità umane di interpretare correttamente le indicazioni degli operatori, delle mappe, delle bussole, dei navigatori e quant’altro.

Sono convinto che quest’opera di innesto per innervare, per dare spazio ai valori dell’accoglienza, dell’accettazione, dell’inclusione, debba essere condotta verso tutti, nessuno escluso. Sarebbe troppo facile chiamare a raccolta i giovani perché si aiutino tra loro, quasi fossero una community esclusiva, quella della giovinezza: è indispensabile attivarsi tutti per questo progetto. Viviamo accanto a straordinarie iniziative di volontariato: persone che, indipendentemente dall’età, dallo status sociale, ecc. sentono il dovere di intervenire nei confronti di tutti quelli che vivono in situazioni di atipicità sociali vuoi temporanee, vuoi permanenti, vuoi degenerative.

Sono convinto che sia sbagliato parlare di educare secondo norme stereotipate per cui sembrerebbe che il dovere sia tutto. Non dobbiamo prenderci cura dell’altro come fosse un dovere il curare, l’assistere, l’educare, il promuovere, l’intervenire con servizi adeguati nei confronti del bisogno, delle diseguaglianze. ( Segue )

Gianfranco Ricci

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