O europeisti, convintamente europeisti e non è questione che si risolva a fior di labbra, anzi implica una visione consolidata che non si improvvisa all’occasione, com’è successo a Giorgia Meloni, fulminata sulla via di Palazzo Chigi. Oppure sovranisti, secondo gradazioni che risentono di particolarità locali, accomunate, ad ogni modo, da una tale sorda avversione nei confronti dell’ Europa, da ammettere, in molti casi, un’accondiscendenza, se non addirittura – vedi il Capitano  Salvini- una fascinazione sospetta e pericolosa per Putin.

Non ci sono vie di mezzo o soluzioni compromissorie tra due percorsi che sono antitetici, non si fondano solo su considerazioni che riguardano l’immediata contingenza politica, ma piuttosto tributarie di due concezioni differenti circa il destino dell’ Europa, il compito che le tocca, in virtù della sua storia, nello scacchiere multipolare che si va oggi affermando.

Due settimane abbondanti ci separano dalla seduta del Parlamento europeo chiamato a votare la Presidenza della Commissione è solo una manciata di giorni dal secondo turno delle elezioni transalpine. Un momento che, in ogni caso, mette alla frusta le forze che compongono la maggioranza del governo Meloni e la stessa premier che, dovunque vada a sbattere la testa, a questo punto e’ comunque confinata in un ruolo di comprimario.

L’interesse del Paese vorrebbe che si accodasse a Forza Italia, partner italiano del PPE, e votasse Ursula Von der Leyen collocando l’ Italia, se non altro, nella scia della maggioranza politica che si è formata nel nuovo Parlamento Europeo. Ospite non indesiderata, ma aggiuntiva, non determinante. In tal caso, sarebbe il prestigio oggettivo dell’Italia a dare soccorso alle incerte fortune di Giorgia Meloni quale leader dei conservatori e non viceversa. Va riconosciuto che opererebbe una scelta di campo passibile di evoluzioni da valutare senza acrimonia, ove nel tempo si verificassero.

Per altro verso, se prevalesse il richiamo della foresta, anche nel campo della destra il presunto ruolo di federatore e guida di una costellazione variegata sembra sfumato, a fronte dell’ iniziativa che va assumendo Orbán, per un verso, e del successo, ad ogni modo acclarato di Marine Le Pen, che ha pur sempre un rapporto privilegiato con Salvini. Si tratterebbe di una scelta che rende omaggio all’ opzione politica originaria del suo partito, alla quale, sia pure a scapito dell’ Italia, non si potrebbe non riconoscere una coerenza ideologica.

Insomma, non è l’Italia a cambiare l’Europa com’era negli auspici della Meloni, ma piuttosto l’Europa ad interrogare severamente l’Italia. Né può facilmente trarsi fuori dal guado Forza Italia che non può nascondere le sue contraddizioni nelle pieghe delle difficoltà altrui e neppure nel formale ossequio che ovviamente pur deve alla linea del PPE.

Contro l’aspettativa di molti, Forza Italia – e ne va dato atto alla postura pacata di Tajani che ha, in un certo senso, “normalizzato” il partito – si è confermata “partito” e tutt’ altro che irrilevante. A maggior ragione, è chiamata a dar conto di quella sua originaria vocazione liberal-democratica che, se è tuttora viva, non può sottrarsi dal fare i conti con le pulsioni si stampi autoritario dei suoi alleati nella maggioranza che regge il governo.

Domenico Galbiati

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