Mentre gli ultimi giorni dell’estate hanno visto l’Italia dividersi, interrogarsi o inveire per il dramma dei profughi eritrei a bordo della nave ‘Diciotti’, con l’autunno i nodi economici e finanziari verranno al pettine e il governo si troverà, volente o nolente, di fronte a un bivio. Da una parte, restare nel percorso segnato dai paletti indicati dal ministro dell’Economia e delle Finanze Tria che ha indicato la via di una lenta, ma progressiva, realizzazione del ‘contratto di governo’ in uno scenario di rapporto debito/Pil comunque decrescente. Dall’altra la tentazione di andare oltre questi paletti facendo crescere i rapporti deficit/Pil e debito/Pil oltre i limiti attesi dall’Europa e dai mercati senza preoccuparsi dell’inevitabile scontro. Il ‘caso Diciotti’, seppure su un altro fronte, è un segnale che il governo è attratto da questa seconda opzione. I segnali che il bivio si avvicina sono chiarissimi. Se costruiamo una relazione tra spread dei debiti sovrani dei vari Paesi e rating assegnato al debito dalle varie agenzie internazionali scopriamo che la condizione dell’Italia è un valore fuori linea. In sostanza il nostro spread (l’inverso della fiducia che ci danno i mercati, ovvero i risparmiatori italiani ed esteri) è molto superiore a quello medio di Paesi che hanno il nostro stesso livello di rating. Ciò significa che le (cattive) agenzie di rating in realtà sinora ci stanno graziando non allineando il loro rating ai livelli di rischio percepiti dai mercati. Non a caso hanno Moody’s ha deciso di posporre la revisione del giudizio a dopo la presentazione della manovra finanziaria. Fatto sta che i valori dello spread sui mercati finanziari sono compatibili con un downgrade, un declassamento. Come è noto ormai a tanti, siamo appena due gradini sopra il livello di rating spazzatura sotto il quale si scatenerebbero vendite automatiche da parte di investitori istituzionali. Per un effetto domino, però, già il trovarci, all’indomani di un possibile downgrade, un solo gradino sopra il livello spazzatura potrebbe mettere in moto un ingente flusso di vendite di operatori istituzionali per evitare il rischio di restare con il cerino in mano e scottarsi poi successivamente.

La crescita dello spread d’altronde ha un’origine ben precisa. Da metà maggio quando si è capito dal ‘contratto di governo’ della possibilità (poi ritirata) di una Eurexit italiana, lo spread che viaggiava in precedenza su una media di 130 punti è passato a una di 250, con punte intorno ai 300. È questo quanto i mercati ‘prezzano’ il (per ora moderato) rischio sovranista di uscita dall’euro. Il conto lo stiamo già pagando, perché 100 punti di spread sul nostro debito pubblico vogliono dire se la variazione è permanente 20 miliardi in 7 anni. Quello che tutti cerchiamo di capire è cosa succederebbe una volta superato il bivio e presa la prima o la seconda direzione. Nel primo caso il governo potrebbe (più o meno) tranquillamente arrivare a fine legislatura e provare a realizzare nell’arco del quinquennio i diversi punti del ‘contratto’ mettendo assieme, gradualmente, flat tax e reddito di cittadinanza. Ad esempio, iniziando il primo anno ad aumentare le risorse destinate al reddito d’inclusione e allargando la platea dei liberi professionisti e partite Iva soggetti all’imposta forfettaria del 15%. Nel secondo caso l’orizzonte si farebbe ben poco chiaro per il semplice fatto che ci ritroveremmo, ancora una volta, come ai tempi dell’ultima crisi dello spread, in una grave crisi finanziaria con il Paese addirittura a rischio fallimento. Le previsioni si farebbero in quel caso difficili perché vivremmo, ancora una volta, momenti drammatici nei quali spesso chi deve decidere è sotto pressione e non sempre si comporta in modo razionale.

In questo secondo drammatico scenario, due sembrano comunque gli ulteriori sentieri possibili. Nel primo, si forma una maggioranza parlamentare diversa che sostiene un governo (tecnico o diverso dall’attuale) che vuole rispettare quei paletti come male minore rispetto alla prospettiva del fallimento del Paese. Nel secondo, il Governo Conte inasprisce la prova di forza, fomentando l’opinione pubblica contro il nemico esterno e indicendo nuove elezioni dove spera d’intascare un dividendo elettorale. Ci muoveremmo in questo caso su un terreno molto arduo e sul ciglio di un burrone con elevata probabilità di uscita dall’euro prima o dopo le elezioni. Quello che sappiamo è che l’attuale Governo euroscettico di Atene, trovandosi in quelle stesse condizioni, alla fine decise che sarebbe stato meglio non saltare il fosso dell’uscita dalla moneta unica, ma seguire una durissima (e probabilmente esageratamente crudele) terapia di austerità da cui la Grecia è uscita solo ora con gravi costi economici e sociali per il Paese.

È del tutto evidente, almeno per chi scrive queste note, che scegliere al bivio la prima strada rappresenta la soluzione (forse meno affascinante), ma di certo più ragionevole e sicura. Ed è questo quello che pensa la quasi totalità degli esperti in materia. Ma, e sta proprio qui il punto, viviamo la stagione della ‘rivoluzione contro le competenze’ nella quale i non addetti ai lavori (che sono la maggioranza degli elettori) si sono ribellati e non hanno più fiducia negli esperti in vari campi. I politici oggi al governo possono decidere se assecondarli o no. Sapendo, però, che non ‘vaccinare’ l’Italia contro una possibile crisi finanziaria sarebbe a quel punto un errore che potrebbero pagare molto caro sia gli italiani che l’attuale compagine di governo.

( Pubblicato su Avvenire il  30 agosto 2018 )

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