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Il declino della partecipazione democratica si cura con una “trasfusione” di democrazia- di Alessandro Risso

Ero un bambino che non sapeva nulla di politica ed enti locali nel 1970 quando si votò per il rinnovo delle amministrazioni comunali. A Torino – quella Torino che stava vivendo l’apice della tumultuosa immigrazione dal Sud contando oltre un milione e 100mila abitanti – si recò alle urne il 93% degli aventi diritto. Altri tempi? Certo, ma trent’anni dopo, nel 2001 – spazzati via i partiti della Prima Repubblica e non ancor bene valutati quelli della Seconda – i votanti furono comunque l’82%. Passati altri vent’anni rileviamo che nel capoluogo subalpino il 4 e 5 ottobre, al primo turno delle comunali, ha votato il 48% dei torinesi. Cinque anni fa si era recato alle urne il 57%, nel 2011 il 66%. Meno 18 per cento in dieci anni…

La disaffezione dei cittadini è però un dato che riguarda l’intera penisola, visto che il trend torinese non è sostanzialmente diverso da quello delle altre grandi città che sono appena andate al voto: poco meno a Napoli e Milano, poco più a Roma e Bologna, unica ad aver superato il 50% dei votanti. Anche nei Comuni medi e piccoli l’astensionismo è cresciuto a dismisura, ma il dato complessivo dell’affluenza in Italia, il 54,7%, dice che dove la dimensione civica è più forte e autentica, la disaffezione verso il sistema dei partiti è un po’ meno marcata.

Qualunque cittadino che ha a cuore la democrazia dovrebbe essere molto preoccupato di questa deriva. L’alto astensionismo è il sintomo di una democrazia malata (piena sintonia con Giancarlo Infante, CLICCA QUI), anche se il pensiero dominante nel teatrino della politica e sui media che lo assecondano tende a sottovalutare il fenomeno, se non a metterlo sotto silenzio. Volete un esempio? Enrico Mentana conduce abitualmente il TG delle 20 su La7. Ogni lunedì illustra il sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani: con enfasi sottolinea ogni 0,2 in più o in meno ottenuto dai singoli partiti come un significativo segnale politico. Solo un dato, l’ultimo in fondo alla tabella fornita da SWG, non viene mai considerato dal popolare giornalista: quello sul “non sa, non risponde” – in cui si cela chi poi si asterrà – che non merita una parola neppure quando aumenta del 3% da una settimana all’altra, sotto la spinta di qualche giravolta politica o ennesima cronaca di malaffare. Forse non fa audience parlare di astensionismo, argomento ignorato in TV da Vespa, dalla Gruber, da Formigli ecc., e da tutti i giornaloni legati in un modo o nell’altro alla politica politicante.

Il declino della partecipazione democratica con la preoccupante ascesa dell’astensionismo è quindi il dato essenziale delle fresche elezioni comunali. Se poi guardiamo alla tenzone tra i protagonisti del teatrino politico, si possono fare alcune osservazioni.

La destra

I sondaggi prospettavano un risultato nettamente migliore della destra, che oggi viene considerata la sconfitta dal voto. A dire il vero Fratelli d’Italia è l’unico partito che ha aumentato ovunque – come ben segnala D’Alimonte (CLICCA QUI) – i precedenti risultati, confermando il trend in crescita per il partito della Meloni. Ma meno del prevedibile, insieme a un forte ridimensionamento della Lega e al permanere dello stato comatoso di Forza Italia (eccetto in Calabria, ma lì è un mondo a parte…).

Il motivo del mancato sfondamento della destra è duplice: da un lato una classe politica locale scadente e spesso imbarazzante, con in più il ritardo nell’individuare credibili candidati a sindaco; dall’altro gli ultimi scandali nazionali. Non tanto la vicenda dei fascisti nelle liste milanesi della Meloni, cosa di cui si possono stupire solo gli ingenui (negli ultimi mesi avete più sentito parlare di Forza Nuova e Casa Pound? Si sono forse dissolti?…), quanto aver scoperto che il più stretto collaboratore di Matteo Salvini si dilettava con festini gay e abuso di droghe. Potrebbe anche essere considerato un fatto marginale, che non tocca il “Capitano” (termine inventato proprio da Morisi), ma in un certo elettorato di “sani principi” della Lega, plaudente quando il leader agita i rosari in piazza e proclama “prima gli Italiani!”, non deve essere passata senza ferire una vicenda di droga e prostituti maschi (e stranieri, per giunta…). A Torino i due partiti sovranisti, che i sondaggi accreditavano intorno al 15%, si sono attestati sul 10%: una parte di elettorato si è affidata alla lista civica di Damilano, che ha ottenuto un insperato 12%, ma un po’ di torinesi che avrebbero votato a destra hanno preferito restare a casa.

Il PD

Sull’altro fronte esulta il Partito Democratico, che effettivamente ha vinto al primo colpo Milano Bologna e Napoli, e ha fondate speranze di vincere i ballottaggi a Roma e Torino. Il PD resta il partito meglio strutturato sul territorio, almeno quello metropolitano. Ma è comunque una vittoria al ribasso. Esemplifico con i dati di Torino: nel 2016 Piero Fassino, candidato sindaco, ebbe al primo turno 160mila voti, pari al 41%; ora Stefano Lo Russo ha ottenuto il 44% ma con 140mila voti. Ventimila in meno, tutti sul groppone dei Dem, dato che la lista PD è scesa da 106mila voti a 85mila, in una china che parte da lontano e che era già stata anticipata dalla bassissima partecipazione alle primarie. A tenere nel centrosinistra sono i vari “satelliti”, civici e no, che in caso di vittoria del candidato PD al ballottaggio riusciranno ad ottenere rappresentanza.

Di fatto il PD si sta sempre più riducendo a un apparato di potere che mantiene una rendita di posizione tale da consentirgli di primeggiare nella crisi generale dei partiti. Enrico Letta ha appena festeggiato la sua elezione in Parlamento alle elezioni suppletive nel collegio di Siena, vinto con quasi il 50% di consensi, come riportato da tutti i media, su carta e online. È stato più difficile trovare la percentuale di quanti sono andati a votare, in un feudo della sinistra: il 35%…

Ma oggi al PD basta vincere, non si cura – né comunque lo fanno altri – della crisi della democrazia nella Seconda Repubblica, dei guasti arrecati da bipolarismo e maggioritario, da partiti del capo e “nominati”. Adesso l’alleanza con il Movimento 5 Stelle, che ha favorito i larghi successi a Bologna e Napoli, dà ulteriore respiro alla vocazione bipolare del PD e alla strategia del suo segretario, chiara da tempo (CLICCA QUI). Adesso l’ha ribattezzata “nuovo Ulivo”, dovrebbe comprendere tutti i partiti da Renzi a Fratoianni, passando per Calenda, Conte, Speranza e comprimari vari, in una ennesima riproposizione del bipolarismo all’italiana in cui il PD, essenziale nel polo di centrosinistra, esercita la sua rendita di posizione. Nihil sub sole novi.

Il Movimento 5 Stelle

Sul Movimento 5 Stelle non vale la pena di infierire. Lasciamo perdere Milano, dove non ha mai battuto chiodo e dove ora si ritrova ad avere un mortificante 2,7%. Guardiamo alle due città in cui ha ottenuto i clamorosi successi nel 2016: dopo soli 60 mesi al comando, ecco un misero 8% a Torino per gli eredi di Chiara Appendino, capace 5 anni fa di prendere al primo turno il 31% con 118mila voti, ridotti adesso a 24mila. Poveri di idee, di esperienza e di classe politica, ricchi solo di presunzione e di vuoti slogan: questo hanno dimostrato i grillini a Torino, come altrove. A Roma, almeno, la Raggi (19%) merita l’onore delle armi per alcune scelte coraggiose (penso al sequestro e all’abbattimento delle ville abusive dei Casamonica, che in tanti, prima, hanno fatto finta di non vedere…) anche se i troppi sbagli nella scelta dei collaboratori e l’incompetenza di fondo le hanno ben presto fatto perdere credibilità. E dire che sarebbe bastato poco per avere la meglio sui modesti candidati messi in campo da destra (30%) e sinistra (27%), coalizioni logore e indebolite ulteriormente dalla candidatura di Carlo Calenda.

Calenda

Il suo risultato merita un’attenta valutazione. Contrariamente a quanto successo a Torino, dove il bipolarismo ha calamitato tutte le forze politiche esclusi grillini, comunisti vari e gruppi no-qualcosa, la sua candidatura nella Capitale pareva significare l’esistenza di un polo alternativo messo al centro dello schieramento. Dopo il lusinghiero 19,7% riportato dal leader di Azione, adesso sta ripartendo il film di un rassemblement liberal-democratico – vagheggiato e promosso dal giornale online Linkiesta – capace di raccogliere Calenda e Renzi, la Bonino e Beppe Sala, Brunetta e la Carfagna “per offrire una sponda antipopulista al PD rimasto orfano dei Cinquestelle e dare rappresentanza politica all’agenda Draghi”. Strategia rispettabile, ma su cui ci permettiamo due osservazioni.

La prima è che – come detto prima – il PD di Enrico Letta punta a ricostruire il polo di sinistra partendo dall’intesa con M5S e Giuseppe Conte, visti come fumo negli occhi dal trio Calenda-Renzi-Brunetta, e le vittorie a Napoli e Bologna rafforzano la strategia del segretario Dem. Che al limite userà la politica dei “due forni” se non riuscirà ad infilare tutti nel suo “nuovo Ulivo”.

La seconda sta nei crudi numeri. Calenda ha preso sì il 19%, ma è andato a votare il 49% dei romani. Una percentuale analoga alle altre città al voto, tutte prive di un “polo di centro”. Calenda non ha quindi “aggiunto” voti, ma ha partecipato alla redistribuzione di quelli rimasti: ne deduciamo che anche lui è percepito come uno dei protagonisti del teatrino, e infiamma qualche cuore solo di chi segue ancora la screditata politica della Seconda Repubblica. Va ricordato che il tenace Carlo per molte settimane ha inseguito l’obiettivo di farsi incoronare candidato sindaco del centrosinistra, e con questa malaccorta strategia non è più stato credibile quando si è proposto come candidato “autonomo”.

Per concludere, ribadisco la convinzione che la democrazia malata si può curare solo con una trasfusione di democrazia: partiti nuovi, sistema proporzionale e preferenze multiple per restituire a chi vota il potere di scelta dei propri rappresentanti. Il fatto che oltre metà dei cittadini non vada a scegliere il proprio sindaco certifica quanto profonda sia la crisi del sistema attuale, che va rovesciato e arricchito di nuovi protagonisti per recuperare credibilità e partecipazione.

I protagonisti del teatrino difendono le loro posizioni di vantaggio politico e mediatico, e fanno finta di nulla. Sono un’oligarchia di furbacchioni, ma ricordano un po’ l’orchestrina che continuava imperterrita a suonare mentre il Titanic cominciava ad affondare.

Alessandro Risso

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