Dalla mitica California, bella, ricca e simbolo del sogno americano torna lo spettro delle banche in crisi.

La Silicon Valley californiana era l’immagine vitale delle nuove tecnologie, dell’innovazione, dei nuovi media che hanno modificato il nostro modo di comunicare. Non è un caso che Apple, Google, Facebook e cento altre sono nate e vivono li.

La banca più importante era la Silicon Valley Bank che, pur essendo specializzata nel finanziamento delle imprese innovative, la scorsa settimana è crollata per errori deleteri nella gestione. E subito dopo problemi seri per altre banche americane: First Republic, Signature Bank, Western Alliance.

La Svizzera era da sempre ritenuta l’emblema della sicurezza, della riservatezza dei suoi banchieri, del rigore inflessibile nella gestione del danaro.

Una delle banche più rilevanti per dimensioni e per storia era Credit Suisse, crollata in pochi giorni, dopo qualche mese di sospetti occhiuti dei mercati, seminando il panico e costringendo le pur severe autorità elvetiche a decisioni tanto rapide quanto devastanti per la banca. Per evitare il fallimento è stata costruita una acquisizione con UBS nel giro di poche ore, seguita dal massiccio intervento finanziario da cento miliardi di franchi da parte della banca centrale svizzera. Non a caso uno gnomo di Zurigo ha parlato di “vergogna nazionale” e di “scandalo storico”.

E che dire della strapotente Germania, con il tonfo nelle borse mondiali di due tra le principali banche, Deutsche Bank e Commerz Bank, già protette per anni quindi salvate dalla Merkel, ora di nuovo in difficoltà, quasi il tanto temuto contagio sia di fatto già iniziato?

Stiamo assistendo, dopo il coinvolgimento di rilevanti istituti di credito, a “una nuova forma di crisi bancarie” come definisce questi default il Wall Street Journal. Così nuove, da non escludere il sorgere di altri focolai di crisi specialmente per gli istituti medio piccoli.

Nella gestione della crisi del colosso svizzero, almeno sino ad oggi, è emersa una peculiarità: si salvano gli azionisti e si penalizzano i creditori, in particolare i portatori di obbligazioni (le subordinate At1). Non si era mai visto nei dissesti bancari e nelle leggi dei Paesi che regolano il fallimento e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese.

Secondo la normativa europea, che deve essere ancora completata con l’unione bancaria (dopo l’unione dei mercati e della moneta) i primi chiamati a pagare sono sempre gli azionisti. Come è successo anche nel Regno Unito, dove il ramo europeo della Silicon Valley Bank (UK) è stato venduto per una sterlina con il capitale azzerato. Invece gli gnomi di Zurigo hanno salvato il capitale e penalizzato tutti gli altri.

E così, dopo il drammatico anno ventidue (Covid, guerra, ecc), già si ripresentano eventi eccezionali. Questa volta sono in crisi anche miti che sembravano incrollabili.

Le autorità monetarie si affannano in queste ore a dichiarare che non esistono rischi di contagio. Ma sarà bene ricordare che buona parte del debito pubblico è in mano alle banche; che il capitale nominale dei titoli che lo rappresentano resta invariato, ma il loro valore si riduce con l’aumento dei tassi di interesse. E riducendosi il valore dei titoli si riduce l’attivo.

Torna attuale quanto considerava Thomas Cromwell già nel ‘Cinquecento, ricordato nella trilogia dei romanzi di Hilary Mantel: questo non è più tempo di cavalieri, i banchieri parlano solo con i banchieri, e i re sono i loro vassalli.

Guido Puccio

 

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