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Vivere l’educazione. Tra banalizzazione e ricerca di senso ( 2 ) – di Gianfranco Ricci

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I diritti di tutti e per tutti: la IX Sinfonia di L. Beethoven

Sono convinto che si debba impostare l’intervento secondo la categoria dei diritti. Se è mio diritto che gli altri rispettino il mio essere persona, è loro diritto essere rispettati pure loro come persona poiché spero gli altri facciano altrettanto. Pertanto il rispetto della persona pretende, auspica, per essere compiutamente tale, reciprocità. Il dovere è obbligante ed al massimo può auspicare tolleranza, che a ben vedere è come dire sopportazione, fardello di cui farsi carico. Il diritto è rispetto, è libertà non libertarismo, è allegria non sguaiatezza, è speranza di futuro non accontentarsi al ribasso dell’oggi, è puntare in alto perché è il puntare in alto che ci permette di fare cammini sicuri, come ci ricordavano i vecchi naviganti secondo cui più si va avanti e, puntando all’orizzonte, più si va oltre. Non si arriva mai alla fine, ma il fine dello sviluppo, dell’accoglienza, della sobrietà e della temperanza è a portata di mano, di cuore. Il diritto di cui cerco di parlare non è di natura soggettivistica, individualistica o collettivistica, non è il diritto dell’individuo, che ritenendo di bastare a se stesso, lo interpreta come esigenza della realizzazione di sé, o dell’aderente al un collettivo dove il diritto degli aderenti al gruppo è diritto assoluto per cui termina, si conclude nella difesa degli aderenti e di chi aderisce via via agli stessi obbiettivi. Il diritto di pochi o di tanti ha valore solo se inserito nella sinfonia del vivere umano, dove nessuno ha il diritto di privilegiare il proprio sé a scapito degli altri. Se Beethoven nella “Nona sinfonia”, ed in particolare nel movimento intitolato Inno alla Gioia (il compositore tedesco in un primo momento aveva intitolato quella sublime pagina “Inno alla libertà”; se ce lo ricordassimo ogni qualvolta lo ascoltiamo, penseremmo forse con più considerazione ai “padri fondatori” della nostra ormai vecchia e stanca Unione Europea) non avesse messo magistralmente insieme tanti suonatori, tanti coristi, tanta capacità personale di scrivere musica, se non avesse svolto anche la regia di tutto, mai avremmo avuto il dono di quella musica, l’emozione di quelle parole, la vertigine di quelle alte cime che Beethoven ci fa raggiungere ogni qualvolta sentiamo quelle note, quei respiri, quelle volute e arabeschi musicali che ci ricordano come l’unità e l’armonia siano la nostra forza e che l’unità armonica si realizza  nell’ordinare in modo discreto e equilibrato la presenza di tante professionalità, di tanti uomini e donne, tutti in cammino insieme per andare avanti.

Sono convinto che le varie agenzie educative formali ed informali debbano investire in diritti non a favore di qualcuno o qualcun altro, come se ci trovassimo a difendere degli horti conclausi, dei ghetti, dei perimetri di territori vissuti da personaggi in estinzione. E’ indispensabile un salto di qualità, caratterizzato da obiettivi precisi, progettazioni ardite, ma non ardimentose (da ligure in questo momento penso a Genova, alla tragedia del Ponte Morandi e alle tante vie di comunicazione messe in crisi dalla sciaguratezza di chi non ha saputo prendersi cura del territorio, al tanto e troppo  che si è detto e che si continua a dire, ma anche al tantissimo che si fa per ricostruire e ridare fiducia a Genova, ai Genovesi e alla Liguria tutta), progettazioni che tengano presente la persona umana nelle sue caratteristiche proprie dell’età dello sviluppo e quindi è necessario costruire un sistema scuola, un sistema formazione in relazione non tanto alla società che si ha nell’hic et nunc, ma in funzione del  progetto di umanesimo a cui si vuol tendere, al di fuori di slogan e luoghi comuni.

Sono convinto che sempre più spesso in educazione-istruzione si compiano errori talmente grossolani da impedire all’impalcatura sociale della scuola di rispondere alle urgenze del momento. Le tante urgenze hanno fatto perdere di vista l’ansia e l’opportunità del riformare; dobbiamo andare indietro  negli anni per vedere una riforma scolastica che si sia sviluppata partendo dalla scuola dell’infanzia, allora detta ancora asilo infantile, per arrivare alle scuole di grado superiore. Invece della globalità della scuola si è preferita la parcellizzazione dei gradi ed ordini. Ora siamo ridotti ad interventi di smagliatura e rimagliatura degli esami di fine corso studi, quelli che un tempo erano chiamati esami di stato e/o di maturità; questi interventi di facciata non riescono ad innovare, caso mai ogni volta che si pone mano al tessuto scuola appare sempre più la sua inconsistenza, si riesce sempre meno a riaggiustare, costruire, ricostruire tessuti ormai lisi, stanchi, irreparabilmente innagiustabili. Ne sanno qualcosa i fautori ed i detrattori del Sistema di Valutazione Nazionale (INVALSI).

Sono convinto che a fronte di questa “mala scuola” ci siano insegnanti che, perché educatori, si spendono oltre ogni ragionevole impegno e dedizione, che fanno del loro lavoro, come si diceva un tempo, la loro missione. Quest’ultima parola forte segnala caratura ultra terrena, non perché fuori del mondo, ma perché ultra mondana. L’insegnante di una scuola-pluriclasse (rarissime eccezioni), di una scuola di montagna (sempre più sparute, con gli scuola-bus.. che hanno costituito forse un’ulteriore occasione per desertificare le nostre contrade alpine o quanto meno geograficamente isolate ed appartate), di un quartiere romano periferico, di un quartiere borghese di Torino o come di qualunque altro quartiere di una qualunque altra città (posti diversi, realtà diverse, ma con storie e preoccupazioni simili: famiglie sane e serene, sfilacciate e ferite, borghesi ed operaie) risulta essere in lotta contro la burocrazia e la conseguente buro-lingua, con famiglie che vedono sempre più negli insegnanti dei nemici e non certo dei componenti di quella alleanza educativa che mi trova così naturalmente vicino da tanti anni. E questi problemi sono presenti già nella scuola dell’infanzia per arrivare poi alla secondaria inferiore ed a quella superiore. Quando penso a straordinari docenti di scuole d’ogni ordine e grado, non posso non pensare viceversa ai tanti insegnanti che vuoi sfiduciati, stanchi, disorientati, privi della cassetta degli attrezzi perché hanno manuali ormai scoloriti ed ingialliti, strumenti inservibili, polverosi dopo anni di uso, di abuso (termine che io utilizzo nel suo significato proprio di soverchio uso e non di cattivo e violento uso,  non di uso a sfavore dei bambini, fanciulli, pre-adolescenti ed adolescenti), e di  disuso, fino alla ripetizione mnemonica e routinaria di pratiche didattiche stancamente ripetute.

Sono convinto che a fronte di cattivi ed insufficienti “mal servizi”, perché fatti in modo rabberciato o peggio ancora con retro pensieri di guadagni eccezionali da parte di malvagi imprenditori, ci sono nel sociale (ho presente centri diurni socio-psico-riabilitativi, case famiglia, comunità alloggio, servizi residenziali per il “dopo di noi”, comunità e centri diurni per il recupero da dipendenze) educatori, animatori, operatori, infermieri, personale inserito a vari livelli che sentono con forza il significato del loro lavoro ed il particolare valore che ogni utente esprime. Un lavoro che prende con forza, che ti chiede tanto impegno emotivo e professionale. Si impara quale stretto rapporto ci sia tra emozione e distacco professionale: l’emozione di fronte ad un sorriso e ad uno sguardo lontano, inespressivo, ad un gesto ripetuto infinite volte nell’arco della giornata, ad una carezza data e ricevuta, ad un processo di cura (igiene intima, momento del pranzo); queste anche se operazioni banali vengono intrepretate come necessarie e significative. Mentre lavori, mentre fai una data “manovra”, anche la più banale o la più delicata,  ti senti importante perché sei consapevole che il tuo agire è un momento del prenderti cura dell’utente (parola che difficilmente pensi perché quelli che hai accanto hanno un nome, un volto, una storia, non sono numeri o cartelle cliniche tutto sommato anonime). Mentre scrivo queste riflessioni ho presente il lavoro quotidiano in una delle tante iniziative messe in atto dalla Cooperativa Sociale “Il Granello” di Varazze, di cui ben conosco e stimo il Presidente, lo staff dirigente ed operativo ed il mondo degli utenti che, ormai anch’io, sento così fraternamente vicini, prossimi. Sia come educatore sia come operatore con altre mansioni, ma con la consapevolezza che la dignità della persona disabile sia sempre salvaguardata, difesa e promossa questo lavoro appare sempre di più come un lavoro socialmente importante perché qualitativamente ed intensamente sentito con il desiderio di farne diuturnamente un capolavoro. Non voglio cadere in una retorica lavoratorialistica di stampo deamicisiano; sono convinto che il lavoro nel comparto dei servizi alla persona sia una delle professioni che più qualifichino il personale che opera in questi ambiti di lavoro. Se opero bene facilmente ci sarà la soddisfazione degli utenti e di conseguenza anche dell’operatore. Se opero male perché sfiduciato, con scarsa professionalità e scarsa attenzione nei confronti dei “ragazzi” (continuamente così li vedo anche se ormai adulti avanti negli anni), allora meglio un’aspettativa o un prepensionamento. Se non si è capaci di porsi in una relazione corretta di fronte a chi ci urla, pur muto e proprio perché muto, la propria incapacità a fare da solo (che dono del cielo per noi l’autonomia, al punto che non ce ne rendiamo conto) è bene farsi da parte senza indugi.

Alleanza educativa per divertirsi lavorando

Ci si arricchisce svolgendo questo lavoro, altrimenti ci si arricchisce quando si perde di vista il valore del lavoro stesso e particolarmente del soggetto di cui ci si prende cura. E poi nel lavoro del prendersi cura mai si lavora da soli, si è sempre in una situazione di lavoro di gruppo. La squadra, composta dalle professionalità più diverse, non può fare a meno di lavorare insieme indipendentemente dai vari diari di bordo, dai vari protocolli e conseguenti registrazioni degli interventi messi in atto a favore dei singoli utenti. Se manca la capacità del lavoro di squadra, della condivisione degli obiettivi, delle strategie e degli interventi, la fatica del lavoro aumenta, annichilendo le persone sia nei rapporti dei lavoratori tra loro sia  con gli ospiti delle strutture stesse. La leadership si conquista sul campo, anche se sono necessari passaggi burocratici amministrativi. Sono strutture dove è possibile trovare leader carismatici e leader burocratici: fortunata la struttura che riesce a vivere, riuscendo così a vivere bene, con un leader che sia insieme carismatico e burocratico. Sono affezionato ad un pensiero di Kennet Blanchard quando si augurava che nel lavoro di gruppo ogni singolo membro potesse sempre dire “1) sapevo che cosa dovevo fare e gli obiettivi del gruppo erano chiari; 2) ciascun membro si assunse responsabilità di guida; 3) ciascuno partecipava attivamente; 4) mi sentivo supportato ed aiutato dagli altri; 5) i membri del gruppo mi ascoltavano quando parlavo; 6) opinioni divergenti erano rispettate; 7) ci piaceva lavorare e ci divertivamo”. Quando si perde di vista il “lavorare divertendoci”, si cambi lavoro o quanto meno si cerchi un buon psicologo esperto di dinamiche lavorative: il demone di Burnout è arrivato!

Sono convinto che sia difficile trovare la realizzazione compiuta di questo eptalogo, ma che valga la pena provare e riprovare a metterlo in atto: mi auguro che ci sia qualche ormai lontano studente universitario, corsista in qualche corso di formazione, di aggiornamento e di specializzazione, qualche ormai lontano collaboratore che ricordi e che senta il desiderio di mettere in atto quelle parole. Si badi insisto tanto e da tanto tempo perché sono parole non mie, non faccio altro che l’altoparlante, il diffusore, vorrei continuare a fare l’influencer di questo stile di vita, di questa visione, forse anche visionaria e fanciullesca, ma lasciatemi pensare in grande, lasciatemi sognare! ( Segue )

Gianfranco Ricci

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