La specie umana non è ermafrodita: è un fatto. Per dare origine ad nuovo organismo è necessario l’incontro di un gamete proveniente da un organismo di sesso femminile e uno proveniente da un organismo di sesso maschile: è un fatto. Si può speculare sul perché, ma il fatto rimane.
Perché il nuovo organismo derivante dalla fusione di un gamete maschile e uno femminile possa sopravvivere e svilupparsi, è necessario un organo specifico che è stato chiamato Utero e che è presente solo in un organismo di sesso femminile: e anche questo è un fatto.
All’interno di questo organo, il nuovo essere vivente rimane circa 9 mesi, nella specie umana: durante questo periodo, non solo è protetto, nutrito e accudito nel suo metabolismo, ma nell’organismo dell’essere vivente di sesso femminile che lo ospita si producono numerosissime modificazioni biologiche necessarie a renderne possibile lo sviluppo. Di particolare rilevanza (note da relativamente poco tempo) sono anche gli adattamenti del sistema immunitario dell’organismo che ospita il nuovo essere vivente (biologicamente un “intruso”) per impedirne il cosiddetto “rigetto fisiologico” (come abbiamo imparato a conoscere nel caso dei trapianti di organo). Si ha peraltro il convincimento, sempre più supportato da evidenze scientifiche, che queste modificazioni immunitarie abbiano una qualche influenza anche a livello neuroendocrino che forse persistono, in maniera via via più attenuata, anche dopo il termine del periodo di gestazione che chiamiamo “gravidanza”: e non è da escludersi che il sistema immunitario abbia una qualche influenza anche sul funzionamento dei network cerebrali (ipotesi che stanno appassionando il mondo della ricerca neuroscientifica, in particolare nelle malattie neurodegenerative e neuropsichiche).
Durante la gravidanza è già certo che si sviluppano nell’organismo di sesso femminile ospitante , imponenti trasformazioni biologiche che coinvolgono anche il sistema neuroendocrino della donna: molto probabile che influenzino anche il funzionamento dei network cerebrali della donna.
Con il parto, questi cambiamenti vengono meno improvvisamente e l’organismo della donna gestante si trova in brevissimo tempo nella cogente necessità di ri-adattarsi alla dimensione fisiologica pre-gravidica, con imponenti turbolenze anche sistemiche, che necessitano di qualche tempo per riportare l’organismo allo stato quo ante.
E anche questi sono fatti, peraltro ben sperimentati da ogni donna che partorisce.
Il nuovo essere vivente, una volta espulso dalla cavità uterina, rimane in una condizione di estrema fragilità biologica e necessita – per sopravvivere – delle cure di un altro individuo che lo deve nutrire, pulire, riscaldare, accudire in continuazione.
La specie umana è fragilissima: il nuovo essere vivente necessita per molti mesi di un accudimento continuo e rimane comunque dipendente dall’altro per numerosi anni, pur in maniera progressivamente meno continuativa: in termini biologici, il raggiungimento di una autosufficienza di specie viene raggiunta con la maturità sessuale dopo molti anni dalla nascita. La autosufficienza sociale, attualmente nel mondo occidentale, è anche più tardiva.
Questo fatti, fanno della specie umana una delle più fragili nel mondo animale: per garantirsi la propria sopravvivenza di specie deve accudire la propria prole per un tempo lunghissimo durante i quali è esposta a numerosi rischi di ogni genere.
Fin dagli albori dell’umanità, questo essere vivente si è organizzato in piccoli gruppi, per meglio sopravvivere e – come per altro avviene anche in altre specie animali – per proteggere meglio i nuovi nati e la femmina durante il periodo gravidico e nelle immediate vicinanze del post-partum: istinto di specie.
Da questo impianto biologico-naturale, grazie alla nostra intelligenza e al nostro innato spirito sociale, la specie umana ha strutturato una serie di modelli di vita sociale e gruppale che hanno trovato nel corso dei millenni una specifica dimensione che chiamiamo “famiglia” con caratteristiche anche molto diversificate nei vari contesti storici e culturali: il principio naturalistico di base è sempre stato quello di accudire e difendere il nuovo organismo vivente – il bambino nel linguaggio moderno – e il soggetto dedito alla sua sopravvivenza e cura, ossia l’organismo di sesso femminile che lo aveva generato.
Per fortuna, la specie umana è dotata di una straordinaria intelligenza che nei millenni ha dato origine ad un impianto culturale che lo ha affrancato da moltissimi condizionamenti istintuali e biologici e lo ha reso progressivamente più libero dai vincoli naturalistici e forse ha creato i presupposti per quel concetto di libertà che fa della specie “homo sapiens” qualcosa di molto originale e unico nel mondo degli esseri viventi.
La nostra intelligenza ha reso possibile lo sviluppo di quell’insieme di conoscenze scientifiche e tecnicalità molto sofisticate che chiamiamo “tecno-scienza” di cui siamo orgogliosi e per il cui tramite abbiamo imparato a manipolare molti processi biologici: anche quelli che sottendono la generatività di specie con l’obiettivo di poter mettere anche questo fondamentale processo sotto il nostro completo controllo.
L’albero della Vita è un mito presente anche da prima della Bibbia ed è forse un sogno che ha orientato tutta la esistenza del genere umano.
Ad oggi siamo ancora molto lontani dal poter generare nuovi esseri viventi in “fabbrica” grazie all’ausilio di sofisticatissime apparecchiature (ci stiamo lavorando): peraltro sfugge la “ratio” logica di questo obiettivo, costosissimo e perigliosissimo, se non per l’affermazione gratuita di quella volontà di potenza e di dominio ben descritto da Nietzche nella “Gaia Scienza” : un futuro di una umanità liberata dalle malattie grazie alla capacità di manipolare tutti i geni e assemblarli in modo nuovo e senza “tare genetiche”?
Ottimo argomento per “i piazzisti della immortalità”: argomento totalmente insensato per le conoscenze attuali e per quanto intravediamo negli sviluppi futuri. Nell’attesa, la tecno-scienza si affanna per consentire di poter generare un nuovo essere vivente, anche quando ci sono condizioni biologiche ostative: anomalie, malattie, condizioni esistenziali. Dapprima con tecniche fecondative di aiuto a coppie eterosessuali stabili, la cosiddetta “fecondazione omologa”, poi con la possibilità di ricorrere a gameti prelevati da terzi, la “fecondazione eterologa”.
Nel frattempo, la ancestrale spinta alla gruppalità che aveva dato origine a ciò che chiamiamo famiglia organizzata attorno alla eterosessualità dei suoi componenti, si è “evoluta”, affrancandosi dalla originaria dimensione di necessità, costituendosi sempre più su di una dimensione prevalentemente emotivo-sentimentale, almeno nel mondo occidentale. Si sta assieme perché ci si ama: in termini puramente biologici, una sostanziale follia, perché il cosiddetto “amore” si sviluppa a partire da un sentimento – un mix psico-socio-biologico – assai instabile in tutti gli esseri della specie umana, con il concreto rischio che questo “amore sentimentale” possa venir meno proprio nel momento del bisogno.
E così quella necessità di reciproco aiuto per affrontare i perigli della vita, ancestralmente all’origine di quella particolare organizzazione sociale di piccolo gruppo prima descritta, destabilizzato il clan e la struttura famigliare, accettata come ineluttabile l’instabilità del sentimento d’amore, è stata affidata ad una entità astratta: il welfare state moderno. Teoricamente molto più dotato di risorse di un clan o di una famiglia, ma molto più periglioso e infido perché fondato sulla attività di essere viventi – gli uomini – che anche quando amano sono in grado di compiere nefandezze e negligenze di ogni tipo, figurarsi quando lo fanno per …”dovere”…o per “denaro”.
E per di più, le risorse del welfare sono solo una derivata delle ricchezze degli Stati: attualmente anche loro vincolati dalle leggi finanziarie che regolano il “mercato” , regole incardinate su algoritmi matematici e su assiomi teorici di sistema di “assoluta” (?) veridicità (?).
Nell’ultimo secolo, la organizzazione sociale della famiglia occidentale si era già evoluta verso una “dimensione mononucleare” e negli ultimi decenni in una realtà meglio descritta dal termine “coppia”, spesso senza figli: la acquisita capacità di controllare la generatività, ha tolto di mezzo quella “scomoda necessità” di dover sacrificare alcuni anni della propria vita, specie negli organismi di sesso femminile, a servizio della riproduttività della specie.
Una coppia senza figli, cementata solo dall’amore e libera da ogni responsabilità/dovere di accudimento di necessità, è potuta meglio evolvere verso una dimensione anche di tipo omosessuale (forse prima negata, anche per ragioni di necessità e non solo di opportunità). E l’amore, ossia il sentimento emotivo-affettivo, può scaturire anche in una dimensione omosessuale.
Rimane il “pasticcio” della generatività: è un istinto come quello della sessualità? Non lo sappiamo: probabilmente no, o almeno non è così potente come l’istinto sessuale. E’ però un grosso problema di specie: senza generatività la specie è destinata a soccombere e estinguersi: è solo questione di tempo (che sia questo il vero armageddon dell’umanità, con buona pace dei neomalthusiani?). Siamo molto lontani – per fortuna – da simili rischi: stiamo però scivolando su questioni più spicce e financo triviali, in merito alla questione “generatività” e “accudimento della prole”.
La generatività è biologicamente possibile solo attraverso la eterosessualità: nel caso di impedimenti biologici in uno dei partner – di qualsiasi natura – è necessario ricorrere obbligatoriamente ad un terzo, che funge da donatore del gamete mancante o non funzionante. La gestazione non è possibile se non in un organismo di sesso femminile: e questo è al momento un vincolo fattuale non superato.
Tecnicamente, pur senza garanzia del risultato, è possibile prelevare gameti maschili e femminili da due soggetti distinti, non necessariamente legati da alcun legame affettivo, anche sconosciuti l’uno all’altro, governarne la fecondazione, e impiantarli in un utero di un altro soggetto di sesso femminile, pure sconosciuto agli uni e agli altri.
Sfugge la logica razionale di questo strano e complicato risiko generativo. O meglio, una logica è chiarissima ed è quella economica: la tecnologia costa ed essendo questo un esercizio “voluttuario” – ossia non determinato da uno stato di necessità – è il mercato che fa il prezzo: ed è un bel business.
Queste nuove tecnicalità portano con prepotenza allo scoperto un altro problema, anche più complicato perché non risolvibile nemmeno con un algoritmo di intelligenza artificiale: il nuovo essere vivente – il bambino – di chi è figlio? Essere figlio, per la specie umana dotata di intelligenza sociale, viene ancora prima di “essere accudito” che può essere una conseguenza – peraltro non obbligata – dell’essere figlio.
In un concepimento naturale, atteso che chi lo ha generato può disconoscerlo, il “di chi è figlio” è domanda retorica e anche sciocca: semmai la domanda dovrebbe essere “chi si assume la responsabilità di far diventare proprio un figlio”, ossia un essere vivente non riconosciuto alla nascita dalla madre biologica? E sono state costruite norme e prassi, per tutelare questo essere vivente e dare anche a lui, disconosciuto e reietto senza colpa alcuna, una possibilità di sopravvivenza e una tutela perché la sua fragilità e dipendenza lo mettono in una condizione di estrema vulnerabilità: le norme che regolano le adozioni e i processi di adozione.
Anche all’interno di una generatività naturale e di una famiglia costituita secondo una prassi millenaria sono possibili gravi negligenze e maltrattamenti e financo il brutale sfruttamento: a maggior ragione quando il legame biologico non esiste e tutto è affidato alla volontà dei genitori adottivi, le prassi di selezione e la legislazione è giustamente rigorosa e cauta.
La nuova condizione venutasi a creare con lo sviluppo tecno-scientifico guidato dal business, è molto diversa: non siamo di fronte ad un disconoscimento di un essere generato magari casualmente o per subita violenza, cui trovare “nuovi genitori”, ma ad una volontaria scelta di mettere a disposizione il proprio corpo per assemblare una nuova vita costituita da fattori provenienti da differenti soggetti, per volontà di terzi che hanno commissionato il nuovo essere vivente. Perché mai si deve poter commissionare un nuovo essere vivente? Per farne che? Per poterlo amare, risposta ovvia e scontata,
Un nuovo essere vivente a mia disposizione per soddisfare il mio desiderio di amare? Quando un essere vivente ha la funzione di soddisfare il mio desiderio, anche se nobile? In passato – ma forse anche oggi – questa condizione si chiamava schiavitù o, in casi più lievi, sfruttamento.
Lo schiavo è a servizio dell’altro: l’altro – il padrone – può essere terribile fino a farlo morire, ma può essere dotato anche di benevolenza: lo usa solo perché gli serve e sta pure attento che “duri a lungo” e un tempo lo poteva pure “affrancare”, ossia liberare. Non c’è mai garanzia che il padrone sia benevolo o malvagio verso il suo schiavo: può anche mutare opinione nel tempo. Un nuovo essere vivente può quindi “essere commissionato” per “amore” , ma anche per poterlo usare, magari a pezzi: inorridiamo solo al pensiero, ma la malvagità dell’uomo è abissale: la storia ce lo ha insegnato.
La letteratura è piena di racconti su condizioni di schiavitù o sfruttamento generate anche da sentimenti d’amore. Per fortuna siamo essere intelligenti e sociali: dobbiamo saper usare la nostra intelligenza per porre un limite alla nostra “gaia scienza” per evitare che distrugga il pianeta (e lo vediamo con lo sconquasso ambientale) e anche la nostra specie umana (non solo la nostra singola vita).
La fecondazione eterologa perché deve essere ammissibile? Perché una coppia deve poter programmare un bambino ricorrrendo ad un terzo? Un tempo i figli erano una benedizione divina, ma non sono un diritto esigibile (che in questo caso sarebbe meglio chiamare “desiderio”: i desideri – tutti – sono tali perché hanno i limiti, molto spesso invalicabili: e generare una nuova vita per puro desiderio deve appartenere alla categoria dei desideri invalicabili)
A maggior ragione, perché una coppia deve commissionare un essere vivente, usando non solo i gameti, ma anche l’organo di una altra persona per poterlo far nascere? Un figlio non lo si commissiona: altrimenti è uno schiavo, anche se si dice che lo si commissiona per amore: di chi? L’umanità ha lottato millenni per abolire la schiavitù.
Definito dunque che questa prassi del “figlio su commissione” è fuori dall’interesse naturale della nostra specie e introdurrebbe pure un possibile reato – la schiavitù (quando uno è a servizio obbligato, senza possibilità di alternativa, del desiderio altrui, con che altro termine si potrebbe chiamare questa condizione? Nessun essere vivente ha mai chiesto di nascere: prende vita e da lì in poi “chiede” implicitamente all’altro di essere accudito fino alla propria indipendenza: in questo caso invece è la volontà precisa – per desiderio, magari nobile, o per interesse, sempre ignobile – di uno o due individui, supportati dalla tecno-scienza a “obbligare alla vita” un essere vivente), è necessario regolare una tale condizione quando, trasgredendo alle regole, un nuovo essere vivente comunque viene fatto nascere.
Non credo ci sia altra soluzione se non quella che si è costruita per regolare le adozioni: scrupolo, discernimento, preparazione al complesso ruolo di essere genitori adottivi. E credo che commissionare un figlio sia una condizione che debba escludere, salvo specifiche eccezioni, la possibilità di essere genitori adottivi, specie di “quel figlio”: non è questione di sesso, ma non ci sono le garanzie che quel nuovo essere sia davvero tutelato.
E il principio di precauzione specie a tutela dei più fragili, è la regola aurea di ogni legislazione.
Massimo Molteni