Ricorre oggi – 29 gennaio – il trentesimo anniversario dello scioglimento della Democrazia Cristiana, il partito che ha assicurato al popolo italiano quell’ esperienza pluridecennale di vera libertà, di vita democratica, di autentico esercizio, per ognuno, di personale responsabilità civile, che, mai, aveva conosciuto prima.

La DC è stata una “singolarità” della storia, nel senso in cui questo termine ricorre anche nel linguaggio scientifico.
Cioè, un evento unico ed irripetibile. Frutto della contestualità di condizioni storiche talmente particolari da non essere replicabili, tutte assieme, in altro contesto spazio-temporale. La sua nascita, lo sviluppo della sua parabola politica, la sua aderenza al “momento” che le è stato dato vivere ha fatto dell’ Italia del secondo dopoguerra uno straordinario “laboratorio politico” e solo uno studio ponderato, una riflessione pacata e matura non potranno fare a meno di rilevarlo, quando le passioni ancora vive cederanno il passo ad un esame oggettivo di quella fase storica.

Per quanto sia intervenuta entro la cornice di “tangentopoli”, la ragione vera che ha condotto alla conclusione del ciclo vitale della Democrazia Cristiana, è data dal fatto che la DC ha condotto in porto il suo compito storico. Le coordinate fondamentali che tuttora reggono sia l’ ordinamento democratico del nostro Paese, sia il quadro della sua collocazione internazionale – cioè i capisaldi che presiedono alla convivenza civile del popolo italiano – risalgono ai primi atti della sua iniziativa politico-istituzionale.

Al concorso, tuttora irrevocabile, che la cultura liberal-democratica e popolare del movimento politico dei cattolici ha offerto alla redazione della Carta Costituzionale ed alla sua ispirazione “personalista” e solidale. Alla scelta “euro-atlantica” che la Democrazia Cristiana ha saputo imporre in un contesto di radicale, durissima contrapposizione da parte di coloro che, in questi riferimenti, hanno poi dovuto ammettere di trovare rifugio e la protezione necessaria a liberarsi dai viluppi e dai lacci soffocanti dell’ ideologia in cui erano irretiti.

La Democrazia Cristiana ha guidato la ricostruzione materiale dell’ Italia, ma soprattutto ha condotto il popolo italiano alla riconquista morale ed alla piena, rinnovata consapevolezza di quei sentimenti di umanità, di reciprocità solidale, di profondo rispetto della persona, della famiglia, del lavoro, della pace e della vita che appartengono alla sua consolidata, millenaria esperienza storica.

Un Paese umiliato dalla dittatura fascista, piegato dal conflitto mondiale e dalla susseguente guerra civile, moralmente schiacciato sotto il peso delle leggi razziali e della corresponsabilità con il crimine nazista, ha ritrovato la sua anima, anzitutto nella lotta di resistenza che ha cementato i valori tradotti nelle norme costituzionali che tuttora siamo chiamati a preservare e poi in quel nuovo sentimento di speranza e di fiducia che ha innervato la sua straordinaria ripresa economica e produttiva.

Anni in cui il valore autentico della ”nazione”, del tutto diversamente da quanto succede oggi, è stato testimoniato e messo alla prova della tessitura nel Mediterraneo, in Europa, nella complessiva dimensione internazionale, di una rete di relazioni che hanno reso onore al nostro Paese, anziché isolarlo ed intristirlo nella palude del sovranismo demagogico e populista.

La Democrazia Cristiana ha impedito che, nell’immediato dopoguerra, in un Paese collocato su frontiere impervie, proiettato nel Mediterraneo ed esposto al confine della “cortina di ferro”, caratterizzato dalla presenza del più forte partito comunista dell’ intero Occidente, ambienti e ceti sociali, comprese talune frange integriste del mondo cattolico, mosse da un intento conservatore, scivolassero verso l’ opzione reazionaria di un “blocco d’ ordine”, che avrebbe letteralmente spaccato in due il Paese e messo a rischio la tenuta dell’ ordinamento democratico.

Non solo ha impedito tale possibile deriva, ma, addirittura, coinvolgendole in una strategia orientata all’ interesse generale dell’ Italia, ispirata ad una comune vocazione popolare, ha impegnato tali forze in una competizione con la sinistra, che ha mostrato come la postura “moderata” dei cattolici abbia saputo interpretare una autentica istanza di reale progresso.

Lo sanno anche i comunisti, che – diversamente da quanto avvenuto, ad esempio, in Francia ed in Spagna – nel nostro Paese sono andati incontro ad una maturazione democratica, che non era nei presupposti dell’ideologia marxista e non hanno conosciuto altrove, dove è mancato il confronto serrato, che, qui da noi, per forza di cose, hanno dovuto sostenere con la cultura politica del cattolicesimo liberal-democratico e popolare. Va rovesciato nel suo contrario il comodo cliché della cosiddetta “conventio ad excludendum”.

Dalla “coalizione centrista” che ha fatto seguito al 18 aprile ‘48 – quando la Dc poteva essere tentata di indulgere e crogiolarsi, si potrebbe dire, nell’ autosufficienza della “vocazione maggioritaria” di quel tempo – al “centro-sinistra”, alla politica di “solidarietà nazionale”, l’intera vicenda della Democrazia Cristiana si è ispirata, piuttosto, ad una autentica “conventio ad includendum”, alla costante e progressiva ricerca di un allargamento delle basi democratiche dello Stato. Ne fa fede la stessa istituzioni delle Regioni, attuata nel momento in cui, sull’ onda della contestazione studentesca e dell’ autunno caldo, vecchi equilibri andavano archiviati per costruirne di nuovi e la Democrazia Cristiana, anziché arroccarsi in una difesa ossessiva ed autoreferenziale del potere, ha accettato la sfida di un confronto aperto e leale con un PCI, che sapeva benissimo sarebbe prevalso in Regioni vitali del Paese.

La DC non è stata, si potrebbe dire, il “Mose” della politica italiana, cioè una “diga anticomunista” in senso statico, meramente meccanico. Ha contenuto il comunismo costringendolo ad un esercizio di pedagogia democratica e – questo va riconosciuto – di reciproca fecondazione sociale. Solo Occhetto che, evidentemente, di questa alta funzione storica della Democrazia Cristiana, non ha capito nulla, a metà degli anni ‘90, è caduto nell’abbaglio di ritenere che, scomparsa la DC, il Paese sarebbe naturalmente, inevitabilmente caduto, come una pera matura, nelle mani della “gioiosa macchina da guerra”.

Come si sa, le cose sono andate diversamente e siamo all’oggi, a riconsegnare, ad ottant’anni anni data, il Paese agli epigono della cultura autoritaria del ventennio. Ora è tempo, conclusa – conclusa davvero ed una volta per tutte – la preziosa e ricchissima vicenda della Democrazia Cristiana, che la cultura politica del cattolicesimo democratico e popolare, senza nostalgie, senza rimpianti, senza recriminazioni, senza ripensamenti, secondo nuove forme, adatte al tempo che oggi ci è dato, riprenda il suo cammino.

Domenico Galbiati

About Author