Che senso ha un mondo che da un lato enfatizza l’ attesa – ancora una volta – di “magnifici e progressivi destini”,  nel segno di un progresso illimitato affidato agli automatismi di tecniche sempre più raffinate e, per altro verso, cammina su strade lastricate di cadaveri della povera gente?

Anche per quel che ci riguarda, se non ascoltassimo almeno il sentimento di indignazione che sorge spontaneo, perfino le nostre riflessioni di questi giorni non sembrerebbero forse ricami in punta di fioretto?

Eppure, la minor pressione quantitativa degli sbarchi e la reiterazione del copione della chiusura dei porti rischiano di produrre quel tanto di assuefazione che prima o poi – e forse piuttosto prima che poi, soprattutto in vista del “generale agosto” – finisce per distrarre l’opinione pubblica fino ad attenuare progressivamente la percezione della gravità di quel che avviene per cui si rientra un po’ alla volta, in un immaginario collettivo che perde la capacità di sanzionare moralmente fatti incresciosi.

Questa sarebbe la vittoria definitiva di Salvini, nel segno di un ottundimento della coscienza civile e di una involuzione della “cifra” caratteriale di un popolo che storicamente ha sempre dato prova di grande umanità.

Diventa, dunque, almeno necessario cercare di cogliere l’effettiva natura, la dimensione, la proiezione temporale attesa del fenomeno delle migrazioni cui assistiamo; cosa ben diversa, come sottilmente osservava Umberto Eco, in una sua nota che risale, se non sbaglio, al 2012, dalle semplici “immigrazioni”.

L’impressione è che, in ultima analisi, stiamo tutti – anche chi se ne fa o vorrebbe farsene carico in modo accorato – sottovalutando un fenomeno che segnala, al contrario, un passaggio ( un progresso? ) che dire storico ed “epocale” è dire poco.

Certo, non si tratta di fare analisi accademiche o disegnare a tavolino scenari futuribili, bensì di governare, qui ed ora, un processo che continuerà a trovarci disarmati finché non entreremo nell’ordine di idee che vi è tra Europa ed Africa una reciprocità necessaria, storicamente fondata, per cui si tratta di ragionare secondo la logica di una sorta di aggregato “euro-africano”.

L’Europa è nata da migrazioni imponenti, eppure oggi ne ha paura; appare stanca come se non sapesse più che cosa valga davvero, per cosa valga la pena di vivere oppure di morire.

Appare come fosse appesantita dalla sua stessa storia; come se la sentisse come un ceppo ai piedi, piuttosto che una formidabile spinta ad esplorare nuovi orizzonti.

La crisi demografica è un brutto segno.

L’Europa rischia di trasformarsi in una sorta di “parco delle rimembranze”, dove popolazioni di altra etnia passeggeranno ammirando le straordinarie vestigia di una civiltà splendente eppure dimentica di sé.

Avrebbe bisogno di un soprassalto di vita, ma non sa dove trovare le risorse necessarie.

Non lo sa ad Ovest, oberata dalla pinguedine di un benessere, peraltro diseguale e a rischio di evaporare.

Non lo sa ad Est, dove reca ancora le profonde ferite – perfino la Polonia, pur intrisa così profondamente di sentimento cattolico – della desertificazione morale e civile subita nei decenni dell’impero sovietico.

Se ci chiedessimo finché pensiamo possa prolungarsi nel tempo il fenomeno delle migrazioni, ce la sentiremmo di escludere che – sia pure a fasi alterne, qui più e là meno – possa prendersi per intero almeno il secolo in corso?

Quel che possiamo dare per certo – del resto, secondo la logica della globalizzazione – è l’irreversibilità, per quanti muri, blocchi navali o quant’altri artifici costrittivi si possano immaginare, del cammino ormai intrapreso verso società multietniche, multiculturali, multireligiose, con tutto quel che ne consegue in termini non certo di omologazione e neppure di integrazione, ma piuttosto di complementarietà.

E’ come se l’umanità si stesse preparando ad uno di quei salti evolutivi – pochi, ma dirimenti, dalla scopetta del fuoco alla comparsa del linguaggio – che ne hanno plasmato la fisionomia.

Prima lo sappiamo, meglio è.

Domenico Galbiati

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