Le manifestazioni, i disordini, le violenze che si ripetono nei campus americani sono l’espressione di un disagio delle giovani generazioni, cui la guerra israelo-palestinese da’ la stura, ma che ad essa preesiste. Ci si chiede da più parti se si stia avvicinando un altro ‘68, ma, in effetti, almeno fin qui, sembra improbabile che di questo si tratti.

Di quegli anni che hanno segnato una cesura con il mondo del secondo dopoguerra, si può dire bene o si può dire male, ma nessuno può negare che abbiano rappresentato un momento di rivoluzione “antropologica”. Cioè, molto di più che un sommovimento culturale, che pur si mantenga nell’alveo di una concezione dell’uomo e dei rapporti sociali sostanzialmente tradizionale e, comunque, consolidata. In un modo, se vogliamo, approssimativo e confuso, non a caso, almeno talvolta, anche violento – la violenza spesso si scatena quando una forte spinta interiore non trova altre modalità espressive – secondo una declinazione emotiva di pensieri appena abbozzati, pulsioni che pur affiorando alla coscienza faticavano a comporsi, appunto, in un registro razionale ed organico, i giovani di allora avevano qualcosa da dire. Alludevano ad una concezione, a suo modo, alternativa della vita, o almeno accarezzavano l’ aspirazione a costruire un nuovo paradigma, una visione, una auto-comprensione, una consapevolezza nuova dei rapporti sociali, diretta a sfidare il mondo “normalizzato” degli adulti. Oggi – ma solo dal di dentro – si può comprendere la vera natura di tali movimenti. Bisognerebbe avere un’altra volta vent’anni – sembra prevalere un sentimento di stanchezza, una pesantezza, una fatica interiore che si vorrebbe esorcizzare.

Che sia o no un altro ‘68, è forse più appropriato dire come ogni generazione abbia o sogni, in forme differenti, non sempre eclatanti ed immediatamente riconoscibili, il suo ‘68. E’ azzardato dire che, in ultima analisi, è bene che sia così? Capiamoci per il verso giusto: nessuna concessione alle violenze. Considerando, peraltro, che, quando appare , inquina e corrompe le manifestazioni dei giovani, a parte la connaturata irruenza tipica dell’età – e non è un’ attenuante – va tenuto presente che spesso la violenza è l’ultima, o l’unica forma, di linguaggio che concediamo loro.
In contesti civili che sono sì liquidi, per un verso, ed amorfi, apparentemente aperti e plasmabili, ma per altro verso perfino troppo strutturati ed omologanti. Cosicché le giovani generazioni quando trovano uno spiraglio, una fessura da forzare per entrare in rapporto con il mondo in cui sono cascati, ci provano, anche se, giocoforza, la postura da adottare è la contestazione.

Spetterebbe al mondo dei cosiddetti “adulti” distillare da questo rumore di fondo, la parola che vi è sottesa.Parola o appello che viene, al contrario, soffocato e respinto, talvolta criminalizzato o perché, appunto, ci si ferma alle forme esteriori eclatanti di cui si riveste oppure – e peggio – perché, proprio laddove se ne coglie il senso, lo si giudica destabilizzante della normalità scontata che non si vuole mettere in discussione.

Ad ogni tornante del suo perenne divenire, il mondo ha bisogno di questo sguardo ingenuo e disincantato, si potrebbe dire sprovveduto, cioè privo di quelle griglie interpretative che via via costruiamo per dare un senso al corso della storia, ma di cui ci ritroviamo poi, per ragioni di comodo, ad essere prigionieri, quasi senza avvedercene.

Ogni generazione che succede ad un’ altra ha questa capacità di “sradicarci” dalla nostra visione del mondo ed, anzi, da noi stessi. Così da rimettere in moto il corso degli eventi, secondo una prospettiva che sia capace di andare oltre la consuetudine del momento ed immaginare il futuro possibile. A questi giovani dovremmo essere grati. E solo sulla base di questo presupposto, ha senso l’invito che va loro rivolto alla prudenza.

Dovremmo imparare da Leopardi, laddove scrive: “L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente”.

Domenico Galbiati

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