Le elezioni americane “di metà mandato”, quelle che si tengono ogni due anni, in cui non si elegge il Presidente, ma si rinnova la Camera dei Rappresentanti ed un terzo dei senatori, non sono in genere molto seguite dagli europei. E ciò sia perché il meccanismo elettorale è piuttosto complicato, sia perché, visto dalla sponda orientale dell’Atlantico, il sistema politico degli Stati Uniti  viene spesso ed erroneamente considerato una specie di monarchia elettiva in cui il Presidente concentrerebbe la maggior parte dei poteri.

L’ attuale congiuntura  politico militare pone invece – per una volta – sotto gli occhi di tutti come ciò non sia vero, e come – anche se il la Presidenza concentra gran parte della visibilità internazionale – un cruciale ruolo istituzionale venga invece svolto dai due rami del Congresso.

Da mesi ormai è infatti evidente che l’inquieta opinione pubblica europea attendeva con impazienza che la data dell’8 novembre liberasse uno dei protagonisti della vicenda ucraina, il presidente americano Biden,  dalla necessità di tener conto,  in ogni suo gesto o sua dichiarazione sulla guerra delle esigenze della campagna elettorale americana.

Il peso dello scacchiere interno

Oggi che questa data è ormai passata, ed il risultato del voto è più o meno acquisito, Biden sarebbe quindi – secondo questa teoria diffusa soprattutto tra i sostenitori di un rapido accordo che faccia tacere le armi – ormai più libero di seguire i sinora inascoltati suggerimenti di quel grandissimo saggio che è Henry Kissinger, di scioglier le mani alla diplomazia, di avviare negoziati con la controparte russa, ed anche di fare delle concessioni.

I risultati della consultazione elettorale tenutasi avant’ieri, 8 Novembre – e  di cui, anche se provvisori, sono piene le pagine dei  giornali – sarebbero perciò sostanzialmente irrilevanti. Quello che, ai fini della risoluzione del conflitto, avrebbe maggiore importanza sarebbe in realtà il fatto che sia giunta a termine la campagna elettorale. Perché questa avrebbe sinora spinto l’inquilino della Casa Bianca a regolare i propri comportamenti sulla questione ucraina secondo l’impatto indiretto che questi comportamenti potevano avere sullo scacchiere politico interno agli Stati Uniti, cioè sulle scelte dell’elettorato americano, anziché tenendo conto degli effetti possibili a livello internazionale, e relativi alle prospettive di un negoziato e di un accordo di pace.

Questa data essendo ormai trascorsa, senza che si verificasse la prevista “onda rossa”, cioè un sostanziale trasferimento del potere parlamentare dalla mano dei Democratici a quella dei Repubblicani, l’ora sarebbe ormai venuta per sedersi al tavolo delle trattative. Il campo sarebbe dunque sgombro per un’ipotetica svolta nell’atteggiamento diplomatico di Biden nel senso che sarebbe gradito alle folle che negli scorsi giorni hanno manifestato a Roma e a Milano per una rapida conclusione del conflitto.

Non è ovviamente possibile prevedere se così sarà. Ma vanno anche registrati come elementi positivi tanto il fatto che i timori di un forte revival repubblicano si siano dimostrati eccessivi, quanto quello che il voto destinato ad esprimere una scelta a favore di Trump abbia ottenuto risultati non lusinghieri.

Un nuovo Biden?

In assenza di un tale cambiamento, a riapparire domani sulla scena politica internazionale non sarà il Biden contraddittorio e fortemente condizionato da fattori estranei al conflitto in Ucraina che abbiamo conosciuto sinora; e non sarà neanche un Biden condizionato dalle nuove quote di potere che egli temeva potessero essere conquistate dai Repubblicani in seguito alle elezioni. Ci troveremo probabilmente di fronte di fronte allo stesso gaffeur e contraddittorio che conosciamo, ma forse di fronte ad un Biden liberato dall’ossessione di “fare la faccia feroce” per non sembrare soft on Russia agli occhi dell’elettorato degli Stati Uniti, che è molto ostile all’attuale ospite del Cremlino e al suo paese. I quali vengono l’uno e l’altro considerati come naturali alleati della potenza, la Cina, che sembra a medio-lungo termine minacciare il primato dell’America e tutto l’ordine mondiale.

Tutto risolto, dunque? Una volta passata la festa delle elezioni di midterm, e gabbato il santo della propaganda elettorale, sarebbe dunque aperta la via ad un’iniziativa della diplomazia degli Stati Uniti che miri a far deporre le armi da entrambi i contendenti ? C’è da sperarlo, anche se non è completamente detto, e non solo perché – allo stato dello scrutinio – sembra possibile o addirittura probabile che un supplemento del rito elettorale debba tenersi in Georgia tra circa un mese, il che riporterebbe in primo piano le necessità della propaganda elettorale.  Bensì anche – e forse soprattutto – perché il conflitto si è molto incancrenito non solo sul sanguinoso terreno nella guerra guerreggiata, ma anche al livello dei rapporti diplomatici tra potenze che si fronteggiano sullo sfortunato suolo ucraino.

Non manca tuttavia un’occasione per invertire la rotta, e migliorare questi decisivi rapporti. Quali saranno i prossimi sviluppi nella tragedia ucraina potrebbe infatti diventare chiaro già tra una decina di giorni, al vertice del cosiddetto G20. Dove le due potenze contrapposte potrebbero trovarsi sotto la pressione congiunta degli altri paesi, che più hanno da temere dal lungo periodo di contrapposizione politica, di discriminazione economica, e di guerre che la presente situazione ci promette per il futuro.

Giuseppe Sacco

Giuseppe Sacco

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