Sopravvivono coloro che uccidono. In assoluto, i meno “adatti” alla vita sociale. Muoiono le loro vittime, le donne, le ragazze che, invece, alla vita sociale sarebbero state in grado di donare il conforto di una tonalità affettiva matura e costruttiva. E’ come se la legge darwiniana della selezione naturale, secondo la quale è il più adatto al contesto ambientale a sopravvivere, vada oggi rovesciandosi nel suo contrario. Non è un buon segno per il nostro tempo.
Quasi che una legge di decadenza, ispirata all’ esperienza della morte, subentrasse alla legge di creatività, di libertà, di consapevolezza di sé che ha, fin qui, fatto avanzare la vita.

Caino non è un mostro. Si dibatte frastornato, senza via d’uscita, nella gabbia del suo vuoto interiore. Il suo delitto viene da lontano. E’ l’approdo di un lungo, tortuoso , tormentoso, sofferto cammino, impossibile da ricostruire, eppure dotato di una consequenzialità drammatica, paradossalmente “coerente” come tale è il delirio dell’ alienato mentale che risponde ad una logica intrinseca totalmente “altra”, eppure quanto più folle, tanto più inattaccabile. E’ come se un parassita crescesse nel cuore di Caino e gli rubasse l’ anima. Vive una frustrazione che avvilisce e genera smarrimento, inquietudine profonda, il turbamento di una solitudine disperata che, via via, si trasforma in rabbia.

Caino ha paura. Non odia Abele. Odia sé stesso. E poiché questo sentimento è intollerabile ed esiziale, per poter sopravvivere lo deve proiettare fuori di sé. Ed è così che la violenza, tramite di questa “esternalizzazione”, diventa la condizione “necessaria” perché possa continuare a vivere. Insomma, un sentimento di violenza, sottile, pervasivo, ottuso lo induce a credere che il sangue del fratello possa essere un balsamo per le sue ferite.

La vita e la morte trapassano l’una nell’ altra ben più di quanto non pensiamo. E Caino uccide Abele come se volesse trattenerlo per sempre con sé e la sua vita, dissolversi in quella del fratello e, ad un tempo, nutrirsene. La violenza corrompe il suo pensiero, fino a dare parvenza logica ed ineluttabile ad un disegno premeditato e perverso oppure, si rovescia, come se una diga d’ improvviso tracimasse, in una cascata emotiva terribile di cui Caino è, ad un tempo, attore e vittima.

Viviamo tutti, chi più chi meno, in uno stato di eretismo permanente, come se la stessa stoffa bio-psichica di cui siamo fatti fosse oggi talmente tesa da lacerarsi nei suoi punti più deboli, incapace di reggere la fatica di comporre e riportare ad una sintesi dotata di senso le mille e mille sollecitazioni, le stimolazioni contraddittorie che ogni giorno attraversano e trafiggono ognuno.

Viviamo drammaticamente una fragilità affettiva preoccupante, distribuita, in modo pressoché uniforme, in tutte le classi d’ età ed in tutti i ceti sociali. Un malessere endemico da studiare a fondo, come se oggi fosse la vita stessa a far male.

Domenico Galbiati

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