“….se si riflette, in politica il potere non è solo forza e comando, ma soprattutto pensiero, parola, capacità di persuasione e di decisione a favore del bene pubblico….”. “….non resisto alla curiosità ed alla ricerca delle ragioni delle cose e degli eventi della società e del nostro tempo . Solo così non si scade nel luogo comune, ma si scopre un orizzonte, si ipotizza un percorso, si intravede una soluzione”.

In queste due citazioni, tratte da un’intervista che concesse parecchi anni fa, c’è, per intero, la “cifra” della visione di Ciriaco De Mita, la concezione che coltivava di cosa fosse, di cosa dovesse essere la politica. E è un modo di intenderla assolutamente attuale, adatto, anzi necessario, soprattutto per questo nostro tempo che non sapendo meglio come definire, consegniamo alle parole aleatorie della “complessità” e del “post-moderno”. Una visione che evoca la politica secondo quella dimensione del “pensare politicamente” che stava a cuore anche a Giuseppe Lazzati e la coglie non come qualcosa che “si fa”, ma piuttosto che “si vive”. Dunque, tanto più vera quanto più mossa da una “passione”, cioè da un orientamento interiore che non ha spiegazione, se non la sua irriducibile originarietà. Se si potesse dire – ed, in effetti, si può – che, per taluni, la politica non e’ una scelta, ma un “destino”, penso che De Mita sarebbe da inscrivere tra costoro.

Cosicché le cariche politiche o istituzionali che si ricoprono, altro non sono che contingenti variazioni su un tema di fondo che mantiene inalterata, per la vita intera, una intonazione, verrebbe da dire una musicalità che non può essere rimossa da alcunché e tanto meno dismessa. E’ – in questa attitudine, si direbbe connaturata – che si tocca forse il punto di più alta composizione tra l’ispirazione religiosa dell’impegno politico e la laicità della sua vocazione all’interesse generale del Paese. Composizione così rilevante nel De Mita, cattolico-democratico che attinge e cerca di portare a sintesi, nel suo impegno di rinnovamento “popolare” ed insieme colto della Democrazia Cristiana, le lezioni di Sturzo, di De Gasperi, del Presidente Moro.

Per quelli della mia generazione – vent’anni più giovani di lui – che si affacciavano, nella “sinistra politica” della corrente di Base, all’ impegno politico in quei primi anni ‘60, gli anni del Concilio, in cui già ribollivano le premesse del’68, De Mita è stato un punto di riferimento per più aspetti. Ci ha insegnato che la politica ha un lessico, una grammatica ed una sintassi. E’ un linguaggio che è bene apprendere da giovani, addirittura da ragazzi se si vuole saperne cogliere tutte le sfumature. Ha regole da rispettare perché ne nasca un discorso che sia capace di dar conto della “processualità” dei fenomeni sociali che la politica è chiamata a leggere, interpretare e governare.
Non una “narrazione” che, talvolta, allude alla chiacchera, come si preferisce oggi, ma, appunto, un “ragionamento”, come amava dire Ciriaco. Ci ha fatto comprendere che la politica non si esaurisce nel suo accadere quotidiano che pure ne rappresenta la perenne novità, bensì esige una fondazione ideale, una cultura di riferimento, un substrato storico che le garantiscano una presa sugli eventi che non sia occasionale ed evanescente.

Infine, una politica che non sia timida, ma, al contrario, così consapevole della nobiltà che originariamente le compete, da rivendicarla con convinzione e con forza. E che, dunque, non si accontenti di assecondare gli eventi nel loro spontaneo accadere, come per trarne marginali opportunità, ma pretenda, almeno fin dove possibile, di orientarne il corso verso traguardi di libertà, di giustizia e di bene comune che spetta alle istituzioni – costante preoccupazione di De Mita – statuire e garantire nel tempo.

Domenico Galbiati

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