Come su queste pagine si è ripetutamente sostenuto, a dispetto del superficiale e stupido “nuovismo” da troppi coltivato, le culture politiche – quelle che risalgono al secolo scorso e, addirittura, hanno le loro prime radici in quello ancora precedente – sono dure a morire. Vale per tutte. Per quelle in cui ci si riconosce e per quelle che si avversano.
Fortunatamente è così. Per le une e per le altre. Evitano che la storia si sgretoli in una pluralità indistinta e confusa di istanze del momento, di spinte e pulsioni approssimative, appariscenti all’ istante quanto prive di fondamento.

Non sono necessariamente una prigione mentale, purché mettano in campo i principi cui si rifanno, le categorie interpretative che adottano senza pretendere di dare loro uno stantio ossequio ideologico. Ma assumendole nei loro tratti essenziali, come un ideale canovaccio su cui misurare, testare, verificare i pensieri nuovi che pur ci vogliono per non soccombere all’ incanto di visioni ossificate, da cui si deve, piuttosto, saper estrarre quella cifra peculiare che, piaccia o meno, connota ciascuna di esse. Insomma, le culture politiche, quelle vere che hanno alle spalle un pensiero, durano nel tempo e sono spesso “resilienti”. Anche quando si vorrebbe, laddove non siano condivise, che non sia così.

Talvolta, infatti, si deformano ad un impatto rude e frontale con la storia, che le condanna. Eppure tentano o addirittura riescono a tornare alla loro forma originaria, sia pure declinandola nel tempo storico nuovo che e’ dato vivere. E’ così, in buona, larga misura, anche per quella concezione del potere che, nel secolo scorso, fu fascista e ripercuote e ripropone, fino ai giorni nostri, se non altro il privilegio per quel principio d’ autorità, d’ ordine, di disciplina coatta, che, senza formalmente negarlo – né lo potrebbe – di fatto viene preferito rispetto al principio democratico che sorregge la Costituzione repubblicana.

Se ne trova traccia nel plebiscito cui aspira “Meloni Giorgia detta Giorgia”, adottando un marchingegno che ha, se non altro, il difetto di una forzatura pretestuosa ed inelegante. Lo schema di riferimento è la dicotomia “amico-nemico”, che, già di per sé riduttiva e pericolosa, nel nostro caso specifico presenta, a maggior ragione, due gravi inconvenienti. Impone una sorta di “aut-aut” simil-referendario che distorce e snatura una consultazione “proporzionale” e ne tradisce lo spirito. Diretto, a maggior ragione in un passaggio elettorale di carattere sovra-nazionale, ad aprire e dispiegare, soprattutto in una fase rilevante come l’attuale, l’intero ventaglio delle opzioni politiche e dei relativi retroterra culturali chiamati a disegnare la fisionomia della nuova Europa.

In riferimento, poi, al nostro Paese, svilisce un momento di confronto politico, finalmente libero dalla coazione a ripetere del maggioritario, ad una sorta di braccio di ferro da saga paesana, cui si sacrifica, chiudendoci nel nostro “ridotto” nazionale, il respiro europeo del momento. Per un verso si enfatizza e si spinge alla sua dimensione estrema la polarizzazione del sistema politico, rafforzando, se mai ce ne fosse bisogno, la radicalizzazione dello scontro.
Per altro verso, si confondono ed intorpidano le acque in ambedue i poli. Dove le articolazione interne che pur ci sono e rilevanti, sia in ordine al momento prettamente politico-strategico, sia relative ai contenuti programmatici, vengono oscurate e, di fatto, riassorbite nella logica cieca e pregiudiziale della contrapposizione a prescindere che conosciamo. Senza avvertire che la coartazione che impoverisce il momento dialettico del discorso pubblico interno al nostro Paese, ne fiacca anche la fisionomia e l’ autorevolezza a livello europeo.

Domenico Galbiati

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