1. Introduzione

L’universale riconoscimento del  valore e della importanza della sussidiarietà si scontra oggi con una preoccupante caduta delle sue possibilità di attuazione pratica. Sono dell’idea che ciò dipenda, oltre che dal ben noto ritardo della cultura italiana su tale fronte, da una perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio in questione: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica Amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità;  quella circolare su cui mi soffermerò tra breve e che costituisce una forma, ancora inedita nel nostro paese, di condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore del decentramento amministrativo, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile,  suggerendo in tal modo che la sfera del pubblico non  coincide, pari pari, con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici.

Prima di procedere, desidero spendere una parola a proposito della concezione del principio di sussidiarietà elaborata dal gruppo di cattolici (E. Vanoni, P. Saraceno, S. Paronetto, G. Capogrossi, G. La Pira, A. Moro, P.E. Taviani e altri ancora) che si riunirono tra il luglio 1943 e l’aprile 1945 al monastero di Camaldoli, dando poi vita al celebre “Codice di Camaldoli”.  Si tratta di una concezione diversa da quella che si affermerà tra i Padri costituenti all’epoca della stesura della Carta Costituzionale. (1)   Laddove si tratta dei compiti dello Stato, nel Codice si  legge che  compito primario dello Stato deve essere quello di: “a) lasciare a tutte le forze e attività che compongono il mondo sociale la libertà nella loro vita, cioè la possibilità di svolgersi secondo le leggi della propria natura; b) mantenere, perché questa libertà possa esplicarsi, la più esatta eguaglianza degli individui, delle famiglie e dei gruppi dinnanzi alle leggi; e cioè impedire che si stabiliscano e si mantengano privilegi positivi o negativi a favore di alcuni e a danno degli altri”. (2) Come sappiamo, assai poco della ricchezza di idee e di proposte del Codice transiterà poi nella Costituzione del 1948, per quanto si sostenga che quest’ultima risulta fortemente ispirata dal Codice di Camaldoli. Non solamente l’espressione “bene comune” non ricorre una sola volta nella carta costituzionale, nonostante gli sforzi di G. La Pira e di altri costituenti per farcela entrare. Anche termini chiave come mercato e competizione non acquistano diritto di cittadinanza nel dettato costituzionale; mentre di impresa si parla una sola volta e a proposito di esproprio. Soprattutto degno di menzione è l’intervento di G. Dossetti del 9 settembre 1946 alla I Sottocommissione: “La sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia debba soddisfare, è quella che: a) riconosce la precedenza sostanziale della persona umana… rispetto allo Stato…; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose) e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino lo Stato”. (3) Quanto a significare che il solidarismo cristiano è essenzialmente un solidarismo sussidiario.

Come è agevole verificare, gli articoli 2 e 3 della Costituzione sono solo una vaga e generica traduzione delle proposizioni sopra riportate. Un altro banco di prova su cui è possibile misurare lo scarto tra la nozione di sussidiarietà fatta propria dal Codice di Camaldoli e quella che verrà recepita nella Costituzione è quello che concerne la libertà scolastica. Nel paragrafo 40 del Codice si legge: “Lo Stato, quale espressione della volontà dei genitori e quale promotore del bene comune della società deve anzitutto aiutare il sorgere spontaneo di istituzioni educatrici per iniziativa delle famiglie e della Chiesa, creando per loro condizioni favorevoli e concorrendo al loro sostentamento secondo le esigenze della giustizia sociale. Dove questo si renda necessario e l’iniziativa delle famiglie non possa provvedere convenientemente, lo Stato può e deve istituire in numero sufficiente scuole per la formazione dei cittadini”. (4) Chiaramente, il rapporto Stato – corpi intermedi è qui  ben lontano rispetto a quello che risulterà codificato nell’articolo 33 della Costituzione.

Che dire della versione circolare della sussidiarietà? Si tratta di un principio la cui prima elaborazione risale alla fine del XIII secolo e che deve molto al pensiero di Bonaventura da Bagnoregio (5) e di altri importanti autori della Scuola Francescana. Come ho mostrato in S. Zamagni, (“Tracce di economia civile nel pensiero francescano della prima modernità”, in P. Delcorno, a cura di, Politiche di misericordia tra teoria e prassi, Bologna, Il Mulino, 2018), si è soliti attribuire il merito della “scoperta” della sussidiarietà al celebre giurista Ugo Grozio (1583-1645) e al filosofo Johannes Althusius (1557-1663) che nel 1615 ne coniarono il termine. Ciò è bensì vero, ma il concetto e soprattutto la pratica della sussidiarietà risalgono ad oltre tre secoli prima, quando in terra di Toscana e di Umbria sorgono le famose confraternite (si pensi alle Misericordie, tuttora in attività) e le corporazioni di arti e mestieri.

Al solo scopo di fissare l’idea, si pensi ad un triangolo, ai cui vertici si collocano l’ente pubblico, la comunità degli affari, cioè il mondo delle imprese, e il variegato mondo degli enti di Terzo Settore, espressione della società civile organizzata. I tre soggetti devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico, sulla base di predefiniti protocolli operativi per decidere sia le priorità degli interventi da realizzare sia le modalità di esecuzione degli stessi. In altro modo, è questa una specifica forma di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi, il cui fine ultimo è la rigenerazione della comunità.  A ben considerare, si tratta di un modo di impegno politico complementare (non alternativo) a quello tradizionale basato sui partiti – un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe altrimenti udita, di contribuire ad allargare lo spazio dell’inclusione sia sociale sia economica. Quella dell’organizzazione della comunità (“community organizing”) è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto è una strategia la cui mira è quella di articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità. (Ho introdotto per la prima volta l’espressione sussidiarietà circolare nel saggio “Mercato, Stato, Società Civile”; Rivista di Teologia Morale, 22, 1991, pp.301-312 e poi in saggi successivi).

E’ in ciò il senso ultimo della sussidiarietà circolare: consentire di passare dal modello bipolare di ordine sociale basato su Stato e Mercato a quello tripolare che accanto al pubblico e al privato pone, con pari dignità, il civile. La sentenza 131 del 26 giugno 2020 della Corte Costituzionale ha, per così dire, costituzionalizzato tale principio, chiarendo che l’interpretazione degli articoli 118 e 111 introdotti nella Carta nel 2001 (come noto, la Carta del 1948 neppure menzionava il termine sussidiarietà!) va intesa come comprensiva delle tre versioni del principio e non solamente delle versioni verticale e orizzontale, come purtroppo si continua a sostenere.  Giova sottolineare che mentre le pratiche di sussidiarietà verticale e orizzontale hanno natura additiva e ciò nel senso che si aggiungono alle pratiche già in esistenza attuate da Stato e mercato, subendone pertanto un doppio isomorfismo, le pratiche di sussidiarietà circolare hanno natura emergentista: l’entrata in campo del pilastro della Comunità va a modificare, col tempo, anche i rapporti preesistenti tra Stato e mercato, oltre che al loro stesso interno. La grande virtù nascosta della reciprocità – che è un dare senza perdere e un prendere senza togliere – è la sua capacità di mutare sia la logica del comando, dell’obbligazione (Stato) sia la logica dello scambio di equivalenti (mercato).

  1. Del fondamento filosofico della sussidiarietà

Si pone la domanda: dove rintracciare il fondamento filosofico-politico della sussidiarietà? Per rispondere, si consideri che due sono gli elementi costitutivi della società civile: il principio sociale e l’orientamento universalista. Se fosse all’opera unicamente il primo elemento, la società civile non oltrepasserebbe i confini della sfera privata. Il principio sociale, infatti, è essenzialmente un principio di auto-organizzazione che, proprio perché tale, non ha la forza per tradurre nella pratica il rispetto di criteri universalistici.  Si rammenti, infatti, che la socialità, (a differenza della socializzazione) intesa come tendenza al vivere insieme, non è tipica dell’essere umano, essendo essa comune anche all’animale. Pertanto, ciò che dà valenza pubblica alla società civile è il secondo elemento, quello universalista. Secondo una concezione del genere, la società civile in quanto una delle due parti costitutive della sfera pubblica – l’altra parte essendo costituita dalla società politica – concorre non solo ad arricchire la dinamica sociale, ma anche a scongiurare l’occorrenza di due rischi pericolosi tra loro opposti quanto alle conseguenze, ma simili quanto al fondamento. Da un lato, il rischio del privatismo sociale (il bene del singolo è visto in opposizione o in modo slegato dal bene degli altri), e dall’altro, quello dello statalismo–totalista, (lo Stato cerca di proteggersi dai corpi intermedi della società  in nome dell’interesse nazionale o collettivo). Nel nostro paese, fin dall’Unità è il secondo il rischio che sempre è stato prevalente. (S. Zamagni, Prosperità inclusiva, Roma, Studium, 2021).

Con quale argomento si cerca di razionalizzarlo? Con uno schema di ragionamento del seguente tipo. Primo, lo Stato contemporaneo non è più in grado di soddisfare, per una pluralità di ragioni ormai ben note, le richieste di benessere dei cittadini, né è più in grado di risolvere problemi cruciali quali la disoccupazione, le nuove povertà, l’esclusione sociale, le nuove forme di conflitto sociale. Secondo, una volta preso atto di ciò, i cittadini si rivolgono alla società civile organizzata, cioè alle varie categorie di associazione, per chiedere e trovare in essa una qualche soluzione ai loro problemi.  Senonché – e questo è il terzo punto dell’argomento – i corpi intermedi non riescono a mantenere ciò che da essi i cittadini si attendono a causa di tre specifiche lacune strutturali: ineguaglianza (i vari gruppi che compongono la società civile mentre si occupano di tutelare gli  interessi dei soggetti che ne fanno parte, trascurano gli interessi di coloro che ne stanno al di fuori); frammentazione (le formazioni sociali, essendo per loro natura particolaristiche anche quando difendono un credo universale, generano frammentazione e divisione, a differenza dello Stato che si configura invece come società universale); discontinuità (la società civile è il luogo dell’occasionale e del provvisorio). La conclusione allora – quarto e ultimo punto – è che solamente un governo centralistico e decisionista può giungere in soccorso dei cittadini, fornendo loro le risposte alle loro domande.

Cosa non va in questa argomentazione all’apparenza suadente? L’aporia si nasconde nelle pieghe del punto tre; non certo nei primi due punti che hanno natura meramente fattuale e dunque sono incontrovertibili. Lo stratagemma adottato è efficace, anche se facile da svelare. Dapprima si assume, senza fornirne giustificazione alcuna, che la società civile dovrebbe possedere le stesse caratteristiche strutturali e le medesime modalità di funzionamento dello Stato. Si verifica poi che essa non è in grado di funzionare in quel modo – non assicura l’eguaglianza di trattamento di tutti gli individui; non garantisce che i diritti di cittadinanza siano da tutti fruibili; né garantisce interventi duraturi nel tempo. Per concludere, infine, che la società civile ha bisogno, per esistere o per “fiorire” dell’intervento dello Stato.  Come si comprende uno schema di ragionamento del genere finisce per negare il problema che esso pretenderebbe di risolvere. Il fatto è che quelle che tanti definiscono lacune strutturali sono, a ben considerare, altrettanti punti di forza della società civile. Vediamo di chiarire.

L’asserita ineguaglianza che contraddistinguerebbe il variegato mondo delle formazioni sociali è in realtà la conseguenza del fatto che il principio regolativo all’opera in tale mondo è il principio di reciprocità; né il principio dello scambio di equivalenti né il comando trovano applicazione ai corpi intermedi. La “frammentazione”, pure, è una caratteristica che parla a favore della società civile e ciò nella misura in cui essa assicura il pluralismo associativo e dunque consente l’appartenenza multipla: potendo aderire a più associazioni simultaneamente, gli individui sono indotti a praticare la tolleranza, anzi il rispetto, e soprattutto ad alimentare il confronto libero e aperto delle posizioni. In assenza di questo tipo di frammentazione, l’ordine sociale si reggerebbe unicamente su singoli individui e Stato, proprio come era stato predicato dal progetto giacobino. Infine, la discontinuità o l’incostanza. Innanzitutto, ciò non è sempre vero. Si pensi alla storia del movimento sindacale, per citare un solo esempio. Ma anche a prescindere dalle tante storie di successo, resta vero che è proprio questa caratteristica di discontinuità a fare della società civile una risorsa di importanza strategica per l’intera collettività. Il giorno in cui si istituzionalizzasse il modus agendi delle formazioni sociali, la società civile perderebbe ogni ragione d’esistere, per diventare un “sostituto privatistico delle agenzie pubblico-statuali”. (S. Zamagni, “Catholic Social Thought, Civil Economy, and the Spirit of Capitalism”, in D. Finn, a cura di, The True Wealth of Nations, Oxford, OUP, 2010).

Infatti,  è la soggettività dell’individuo il fondamento del rapporto sociale, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e perciò  liberi di scegliere. Non può essere dunque una pretesa di eticità avanzata da un qualche macrosoggetto – sia esso la classe, la comunità, lo Stato o altro ancora – nei confronti della persona a fondare la socialità. Il principio sociale che, come si è ricordato, è uno dei due elementi basilari della nozione di società civile qui accolta, presuppone allora la libertà di scelta. Non basta la libertà dal bisogno, come pensano coloro che si riconoscono nella tradizione di pensiero marxista – si rammenti che, per tale tradizione, il singolo è libero nella misura in cui si identifica col collettivo, dato che è quest’ultimo ad assicurare la libertà dal bisogno.

Al tempo stesso, però, la libertà non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, cioè il “free to choose” di cui parla Milton Friedman. Tale concezione è troppo gracile perché essa possa sorreggere la dimensione della socialità. Se il patto o contratto sociale è per il soggetto che lo sottoscrive nulla più che pura strumentalità; se cioè il mio stare in rapporto con l’altro trae ragione solamente da considerazioni di convenienza – per ottenere consenso o potere o vantaggi vari – non uscirò mai da quella “insocievole socievolezza” di cui ha parlato Kant. Ha scritto Dahrendorf in un saggio di qualche anno fa: “La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile. La caratteristica essenziale della società aperta è che la nostre vite si svolgono in ‘associazioni’, intese in senso lato, che stanno al di fuori della portata dello Stato”. (Moralità, istituzioni e società civile, Torino, Fondazione Agnelli, 1992, p.18). Chiaramente, se libertà fosse solo libertà di scelta più rappresentanza politica, che bisogno ci sarebbe della società civile? Un mercato ben regolato e una democrazia rappresentativa ben ordinata basterebbero, e ad abundantiam, per la bisogna. Invece, è proprio perché non ci rassegniamo alla versione debole di libertà che avvertiamo – come insiste Dahrendorf – di dover far ricorso alla società civile alla quale chiediamo quegli spazi di azione che né il mercato né lo Stato sono in grado di assicurarci.

L’argomento ora articolato può essere generalizzato considerando le due visioni, oggi prevalenti nel dibattito di filosofia politica del modo di concepire il rapporto tra società politica e società civile. Si badi che, in origine, le due espressioni di società politica e si società civile erano sinonimi. La Koinonìa politiké di Aristotele corrispondeva, infatti, alla civilis societas di cui parla Cicerone nel De Repubblica. E’ solo dal XVII secolo che si registra la separazione dei significati, tuttora in uso. Due le visioni che da tale separazione sono derivate. Rifacendomi alla ormai celebre distinzione del politologo americano Michael Oakeshot, la scelta è tra politica come “enterprise association” e politica come “civil association” (La condotta umana. Il Mulino, Bologna, 1985). La prima concezione, che ha in Thomas Hobbes il suo capostipite e che presuppone  una concezione  della società di stampo organicistico, vede la politica come l’attività cui spetta di guidare la società in una direzione determinata. Con il che la sfera del politico viene a coincidere, senza scarto, con la sfera del pubblico e questa con lo Stato-Leviatano. Per tale concezione, i partiti sono assimilabili al management di una grande impresa che deve sforzarsi di rendere compatibili le richieste delle varie classi di stakeholder. La società civile, d’altro canto, è il luogo degli interessi particolari che possano bensì esprimersi liberamente, ma a condizione che  non intralcino il lavoro e di non porre in discussione il ruolo guida del governo, espressione massima dell’universale. L’altra concezione, invece, che si rifà all’ideale liberal-democratico della politica, e che ha in John Locke un suo primo efficace sistematizzatore, non accetta che lo spazio pubblico sia tutto occupato, senza scarti, dai partiti, i quali sono bensì attori necessari, ma non unici, su un palcoscenico nel quale recitano anche altri attori sociali. Non accetta, cioè, che questi ultimi siano sussunti nei primi. E ciò per la fondamentale ragione che, nella visione del personalismo liberale, gli uomini sono capaci di socialità prima ancora di arrivare a sottoscrivere il contratto sociale.

Quali conseguenze discendono dalle due concezioni della politica ai fini del presente discorso? In primo luogo, un diverso modo di interpretare il principio di sussidiarietà. Mentre la politica come “enterprise association” privilegia la sussidiarietà negativa, che consiste nel divieto di sottrazione (“mai privare dell’autonomia le unità sociali inferiori”), la politica come “civil association” enfatizza piuttosto la sussidiarietà positiva, che implica che la sfera del sociale venga posta al servizio della persona. Nel primo caso, la sussidiarietà diviene  una tecnica di governo nel secondo caso, essa è piuttosto un principio di ordine sociale. Una seconda conseguenza importante concerne l’accettabilità o meno  di porre in atto pratiche di democrazia deliberativa. Sono tali le pratiche ancorate al principio in base al quale si deve arrivare alle decisioni di una certa rilevanza – si pensi al governo del territorio, al modello di welfare, alla rigenerazione  dell’ambiente – coinvolgendo tutte le parti in causa o i loro rappresentanti sulla base di un’adeguata informazione e in un contesto dialogico.  (È bene tenere presente che la democrazia deliberativa non va confusa con la democrazia partecipativa e tanto meno con la democrazia decidente).

Chiaramente, solo una politica intesa come “civil association” è capace di dare ali a tutti quegli istituti che rappresentano la condizione necessaria della partecipazione popolare di tipo deliberativo. La concezione della politica come “enterprise association” può, tutt’al più, assicurare la partecipazione consultativa e quella petizionaria – come accade ad esempio con i referendum – ma è evidente che essa non riesce a scongiurare il rischio della demofobia. Come sappiamo, tanti sono i modi per declinare il concetto di demofobia. Il più antico è quello oligarchico tradizionale, oggi non più di moda. Il modo più raffinato, nelle nostre società odierne, è quello del modello elitistico-competitivo di J. Schumpeter, secondo cui è alle elite competenti che va affidata la decisione politica, perché solo esse sarebbero  in grado di assicurare risultati di efficienza.  Di qui l’insistenza su leggi elettorali di tipo maggioritario che sanciscono la distinzione tra voto utile e voto inutile e, sull’opportunità che i corpi  intermedi  della società non siano posti nella condizione di porre a repentaglio la governabilità. È certamente d’interesse richiamare alla mente le parole profetiche che J. Maritain adopera nel suo celebre L’uomo e lo Stato per chiarire la distinzione tra società politica e società civile: “Il popolo è la moltitudine delle persone umane che riunite da una reciproca amicizia per il bene comune … costituiscono una società politica o un corpo politico… Il popolo è al di sopra dello Stato; il popolo non è per lo Stato, ma lo Stato invece è per il popolo.” (p.29, Genova, Marietti, 2003). La distinzione di cui sopra è necessaria, per Maritain, al fine di scongiurare il rischio della degenerazione demofobica.

Di una terza conseguenza, infine, mette conto dire. È certamente vero che per contare e farsi rispettare sulla scena internazionale  un paese deve dotarsi di un governo autorevole sostenuto da una maggioranza politica coesa. Ciò però non basta per guadagnarsi rispettabilità e consenso. Quel che in più occorre è un sistema di rappresentanza sociale degli interessi legittimi capace di formulare progetti indirizzati al bene comune. In altri termini, al buon government occorre affiancare la buona governance. Ebbene, la sottovalutazione dei corpi intermedi della società che la visione della politica come “enterprise association” sempre determina, finirebbe col favorire un corporativismo sociale di tipo anarchico, sostitutivo del metodo concertativo, espressione di responsabilità collettiva. La frammentazione delle rappresentanze sociali porterebbe alla pratica di un modello di relazioni fra politica e interessi fondato sullo scambio. La buona governance, invece, ha necessità di aggreganti coalizioni di interesse che si legittimano proprio per la loro capacità di proporre soluzioni generali a problematiche particolari. È questa la funzione insostituibile dei corpi intermedi: partecipare al processo di ideazione ed elaborazione delle policies, cioè al processo di costruzione della governance– fermo restando che alla politics deve comunque restare il compito della decisione ultima. (8)

  1. Sussidiarietà e welfare di comunità

Un modo spedito di saggiare la robustezza pratica del principio di sussidiarietà è quello di metterlo alla prova su un banco specifico: quello del nuovo modello di welfare verso il quale, con grande stento, si cerca di avanzare – un modello che ha nel concetto di co-produzione il suo pilastro portante. Se si analizza l’evoluzione delle politiche di fornitura dei servizi di welfare (assistenza, sanità, educazione, previdenza) è possibile individuare, dal dopoguerra ad oggi, tre distinte fasi. (S. Zamagni, “L’evoluzione dell’idea di welfare”, in R. Livraghi e A. Baroni, a cura di, Welfare e Occupazione, Milano, F. Angeli, 2015).

La prima ha avuto inizio a partire dagli anni ’50 ed è nota in letteratura come “Old Public Administration”. L’obiettivo era quello di aumentare i livelli di efficienza delle organizzazioni pubbliche (dando maggiore autonomia ai dirigenti, responsabilizzandone il comportamento). Questo modello si basa su tre pilastri: regole, controllo e, soprattutto, gerarchia. La burocrazia è l’elemento chiave che tiene assieme i tre pilastri e quella verticale è l’unica versione della sussidiarietà che è ammessa. In questo modello prevale la concezione del fruitore dei servizi come utente, ovvero come  un soggetto che, secondo la ben nota distinzione di Albert Hirschman, può esercitare esclusivamente l’opzione “voice” (letteralmente “protesta”). In altri termini, l’utente che ha accesso ai servizi ma non è soddisfatto può solo protestare, manifestando in un modo o nell’altro il proprio dissenso. Oggi, la concezione del fruitore-utente è respinta perché  non più all’altezza delle nuove sfide.

La seconda fase inizia negli anni ’70 ed è nota come “New Public Management”. L’idea che ne è alla base è quella di inserire all’interno delle organizzazioni pubbliche elementi di mercato, nella forma dei quasi-mercati, ovvero mercati in cui la proprietà rimane pubblica ma la gestione è di tipo privatistico. Questa seconda fase ha dato importanti risultati sul fronte del recupero dei livelli di produttività e di efficienza (privatizzazioni, sistema del contracting out e devoluzioni sono stati gli strumenti più utilizzati in esplicita applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale). Tale modello, inoltre, postula l’idea di un fruitore di servizi percepito non più come utente ma come cliente. Il cliente, a differenza dell’utente, può esercitare l’opzione “exit” (letteralmente “uscita”): il cliente se non è soddisfatto smette di usufruire del servizio e si rivolge ad altri fornitori.

Infine, con l’inizio del nuovo secolo si apre una terza fase della co-produzione (anche se per l’Italia bisogna aspettare gli anni 2005-2006 prima che se ne iniziasse a parlare). In letteratura questo terzo modello  è noto come “New Governance Model”. L’idea alla base di  tale modello è quella di considerare il fruitore come un portatore di bisogni che non può essere spogliato degli attributi di cittadino. Il fruitore-cittadino è un soggetto che può esprimere il suo punto di vista circa il servizio e coopera per l’individuazione delle soluzioni migliori. Come sopra si è scritto, è in ciò il nucleo duro della sussidiarietà circolare. Va sottolineato che mentre il passaggio dal primo al secondo modello non è stato quasi avvertito, ed è avvenuto in modo piuttosto indolore, il passaggio alla terza fase della co-produzione va incontrando diverse sacche di resistenza. Parecchie sono le ragioni che si possono suggerire. Certamente, una di queste è il ritardo culturale dovuto alla persistenza presso gli operatori sociali di antiche e ormai obsolete mappe cognitive. Un’altra ragione è di tipo ideologico. Il fatto è che nel modello di welfare di comunità l’interazione fra i diversi stakeholder interviene in tutte e quattro le fasi del ciclo di produzione dei servizi di welfare: programmazione, progettazione, erogazione e valutazione. E, come si può intuire, non tutti riescono ad accettare le implicazioni concrete di tale modo di procedere.

Tuttavia, è la crisi sistemica – non meramente congiunturale – del welfare state a dare ragione dell’interesse crescente che da qualche tempo viene rivolto al welfare di comunità. In quest’ultimo, è l’intera società, e non solo lo Stato, che deve farsi carico del benessere di coloro che la abitano. Se è la società nel suo complesso che deve prendersi cura di tutti coloro che in essa vivono senza esclusioni di sorta, è evidente che occorre mettere in relazione i tre vertici del triangolo sociale: la sfera degli enti pubblici (stato, regioni, comuni, enti parastatali, ecc.), la sfera delle imprese, ovvero la business community, e la sfera della società civile organizzata (associazioni di vario genere, cooperative sociali, organizzazioni non governative, fondazioni): la sussidiarietà circolare appunto.

Un primo guadagno del welfare di comunità è quello di favorire il reperimento delle  risorse necessarie al suo funzionamento dal momento che il soggetto portatore di bisogni è anche un portatore di risorse – monetarie e non. Quando si dice “mancano le risorse” ci si  riferisce a quelle pubbliche, non certo a quelle private. D’altro canto, l’alternativa al welfare di comunità sarebbe solo una:  l’avvicinamento al modello del welfare capitalism, un modello inaugurato negli USA nel 1919, che affida, in modo affatto discrezionale, alla sensibilità sociale delle imprese il soddisfacimento dei bisogni dei loro dipendenti e collaboratori. Ecco perché è urgente porre in atto un welfare nel quale imprese, enti pubblici e cittadini con le loro organizzazioni concorrono, in proporzione alle rispettive capacità, a definire protocolli di partenariato per la programmazione e gestione degli interventi.

Le ragioni finora addotte nel nostro paese per ostacolare la realizzazione del welfare di comunità sono quelle ormai familiari: insufficienza di risorse monetarie; inadeguata capacità dell’apparato burocratico-amministrativo di far fronte a nuovi compiti; eccessiva eterogeneità dei punti di partenza tra le diverse regioni italiane; ecc. C’è certamente del vero in tutto ciò; ma questo non basta a spiegare il fin de non recevoir nei confronti dell’accettazione della sussidiarietà circolare. La ragione vera, piuttosto, è la difficoltà, di natura basicamente culturale, di far comprendere ai cittadini che l’abbandono del modello neo-statalista di welfare, (nel quale lo stato conserva il monopolio della committenza), non significa affatto cadere nelle braccia del modello neoliberista di welfare (il welfare capitalism). Destatizzare non implica necessariamente privatizzare, perché resta sempre aperta la via della socializzazione. In altro modo, depubblicizzare socializzando e non privatizzando: è questa la cifra del welfare di comunità. Può essere d’interesse citare un brano del saggio Il pauperismo che A. de Tocqueville scrisse nel 1835 sul tema della povertà. “Esistono due tipi di beneficenza: la prima induce ciascun individuo ad alleviare, a misura delle sue possibilità, il male che trova alla sua portata. Essa è antica come il mondo […]. La seconda, meno istintiva, più ragionata, contraddistinta da minore passione ma più efficace, indica la società civile stessa ad occuparsi delle avversità dei suoi membri e a provvedere in modo sistematico all’attenuazione delle loro sofferenze”. (1998, p.115). Come si comprende, è qui anticipato l’argomento secondo cui è l’intera società civile che deve organizzarsi in modo opportuno per “attenuare le sofferenze” dei cittadini; non basta l’azione individuale, pur lodevolmente motivata.

  1. Anziché una conclusione

Quale elemento dell’infrastrutturazione concettuale in economia deve cambiare perché la via della soluzione civile al problema del welfare possa risultare pervia? L’abbandono di quel pessimismo antropologico che risale a Guicciardini e Machiavelli, passa per Hobbes e Mandeville e giunge fino alla moderna sistemazione del mainstream economico. Si tratta dell’assunto secondo cui gli esseri umani sono individui troppo opportunisti e autointeressati per pensare che essi possano prendere in qualche considerazione, nel loro agire, categorie come i sentimenti morali, la reciprocità, il bene comune e altre ancora. Maffeo Pantaleoni, certamente il più illustre, assieme a Vilfredo Pareto, degli economisti italiani a cavallo tra Ottocento e Novecento, sfidava, in un saggio del 1925, gli “ottimisti” a dimostrare che le motivazioni che spingono “gli spazzini a scopare, i sarti a fare vestiti, i tranvieri a restare in servizio dodici ore al giorno, il minatore a scendere in miniera, il mugnaio a comprare e vendere grano, ecc.. siano il loro amore, dignità, spirito di sacrificio, spirito di solidarietà e non semplicemente un tipo di beneficio che è chiamato economico”. (Pantaleoni, 1925, p.217)

E’ su un tale cinismo antropologico – fondato, si badi, su un assunto e non già su riscontri  oggettivi – che si è andato costruendo quell’imponente edificio dell’homo oeconomicus che è tuttora il paradigma dominante in economia. E’ chiaro, o così dovrebbe risultare ad una attenta riflessione, che entro l’orizzonte dell’homo oeconomicus non  ci può essere spazio per il recupero della sussidiarietà circolare. Infatti, per questa prospettiva di discorso quello umano è un essere unidimensionale, in grado di muoversi per raggiungere un solo scopo. Le altre dimensioni, da quella politica a quelle sociale, emozionale, religiosa devono essere tenute rigorosamente in disparte o, tuttalpiù, possono contribuire a comporre il sistema di vincoli sotto i quali va massimizzata la funzione obiettivo degli agenti. La categoria del “comune” conosce due dimensioni: l’essere-in-comune e il ciò che si ha in comune. Ebbene,  non v’è chi non veda come per risolvere il problema di ciò che si ha in comune occorre che i soggetti coinvolti riconoscano il loro essere-in-comune. (9)

Sappiamo che i tratti comportamentali che si osservano nella realtà (pro-sociali, asociali, antisociali) sono ovunque presenti nelle società. Quel che muta da una società all’altra è la loro combinazione: in alcune fasi storiche prevalgono comportamenti antisociali e/o asociali, in altre quelli prosociali, con esiti sul piano economico e su quello del progresso civile che è facile immaginare. Si pone la domanda: da cosa dipende che in una data società, in un dato periodo storico, la composizione organica dei tratti comportamentali veda la prevalenza dell’un tipo o dell’altro? Ebbene, il fattore decisivo, anche se non l’unico, è il modo in cui si arriva ad articolare il sistema legislativo. Se il legislatore, facendo propria una antropologia di tipo hobbesiano, confeziona norme che caricano sulle spalle di tutti i cittadini pesanti sanzioni e punizioni allo scopo di prevenire atti illegali da parte degli antisociali, è evidente che i cittadini prosociali (e quelli asociali), che non avrebbero certo bisogno di quei deterrenti, non riusciranno a sopportarne il costo e quindi, sia pure obtorto collo, tenderanno a modificare per via endogena il proprio sistema motivazionale. Come scrive L. Stout (Cultivating conscience. How good laws make good people, Princeton (NJ.), Princeton University Press, 2011), se si vuole che aumentino le persone buone, non si deve tentarle o indurle a comportarsi da cattive.

È questo il cosiddetto meccanismo del crowding out (spiazzamento): leggi di marca hobbesiana tendono a far aumentare nella popolazione la percentuale delle motivazioni estrinseche e quindi ad accrescere la diffusione dei comportamenti di tipo antisociale. Proprio perchè i tipi antisociali non sono poi così tanto disturbati dal costo dell’enforcement delle norme legali, dal momento che cercheranno sempre in vari modi di eluderle. (Si veda quel che accade con l’evasione e l’elusione fiscale). Il punto generale che desidero sollevare è che la concezione hobbesiana, secondo cui l’agire politico inizia e si esaurisce dentro le istituzioni statuali, non funziona più. L’orizzonte hobbesiano non prevede la partecipazione in senso proprio dei corpi intermedi della società; tollera solo organizzazioni di tipo associativo con il fine della reductio ad unum delle volontà individuali. L’obiettivo è sempre quello di spoliticizzare la intrinseca politicità della società, per concentrarla dentro le istituzioni rappresentative. Il che è diventato intollerabile, oltre che non più funzionale allo sviluppo umano integrale. È questa la ragione ultima per cui abbiamo bisogno di dare ali alla sussidiarietà circolare. Invero, a nessuno sfugge che oggi ci si preoccupa più di proteggere i diritti individuali che di realizzare l’autogoverno: si allarga la libertà dell’individuo, ma si restringe quella del cittadino, poiché si restringe il “governo di se stessi”. Ne consegue che il governo democratico viene sostituito da una sovranità delle regole. Regole che provengono da tutti i tipi di agenzie pubbliche e private, la più parte delle quali non ha alcuna legittimità o rappresentatività democratica.

Alla luce di quanto precede, siamo ora in grado di comprendere come e dove intervenire se si vogliono accelerare i tempi per far avanzare pratiche che contrastino la diffusione di comportamenti individualistici. Fintanto che si pensa a quello economico come ad un tipo di agire la cui logica non può che essere quella dell’homo oeconomicus e fintanto che si sottoscrive l’icastica affermazione di J. Bentham secondo cui “la comunità è un corpo fittizio, composto di persone individuali che si considera come se costituissero le sue membra. L’interesse della comunità è cosa? La somma degli interessi dei membri che la compongono” (Introduzione ai principi della morale e della legislazione, 1998, Torino, UTET, 1789, I, IV) è evidente che mai si arriverà ad ammettere che possa esistere un modo “civile” di organizzazione dell’ordine sociale.  Ma ciò dipende dalla teoria, cioè dall’occhiale col quale si scruta la realtà, e non già dalla realtà stessa. Basta allora cambiare occhiale!

In un passo giustamente famoso de La Democrazia in America (1835), Alexis de Tocqueville scrive: “Fra tutte le leggi che reggono le società umane, ve n’è una che appare più chiara e precisa di tutte le altre: perché gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che l’arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni presso di loro nello stesso rapporto con cui si accresce l’eguaglianza delle condizioni”. Il celebre pensatore francese, già agli inizi del XIX secolo, aveva compreso che il processo di civilizzazione di un popolo non può fare a meno dell’associazionismo, che opera per la ricostruzione permanente del legame sociale e per l’arricchimento delle basi morali della società. Il  miglioramento delle condizioni materiali di vita non basta allo scopo. E aveva altresì compreso che quella dell’associarsi è un’arte, non qualcosa che può essere imposta dall’alto oppure ottenuta per via negoziale. Arte è parola che ha la medesima radice di aretè che, nella grande tradizione metafisica, significa virtù, intesa come un agire che mira al bene comune da realizzarsi mediante le opere.

Oltre un secolo dopo, ne L’azione volontaria, Lord Beveridge – autore del celebre “pacchetto Beveridge” approvato a Londra nel 1942, prima grande realizzazione del welfare state della seconda modernità – si legge: “La formazione di una buona società dipende non dallo Stato, ma dai cittadini, che agiscono individualmente o in libere associazioni… La felicità o l’infelicità della società in cui viviamo dipende da noi stessi quali cittadini, non dallo strumento del potere politico che noi chiamiamo Stato. Lo Stato deve incoraggiare l’azione volontaria di ogni specie per il progresso sociale”. Parole queste che non abbisognano di commento alcuno.

Nel racconto In Patagonia (1982) di Bruce Chatwin, si legge che uno schiavista bianco negozia con i suoi schiavi neri un patto: in cambio di denaro, costoro avrebbero dovuto accelerare l’andatura per accorciare il tempo di consegna di un certo carico di merce. In prossimità della meta, gli schiavi si fermano e si rifiutano di riprendere il cammino. Richiesti della spiegazione di un comportamento che lo schiavista giudicava del tutto irrazionale, si sente così rispondere: “Perché vogliamo dare tempo alle nostre anime di raggiungerci”. E’ proprio così. E’ necessario, soprattutto oggi, fermarsi di tanto in tanto per “tornare a pensare”, sempre che si voglia scongiurare il rischio che la prassi si tramuti in sterile pragmatismo. Il Terzo Settore non può rinunciare alla “Critica” del pensiero. A meno che non voglia rassegnarsi ad una progressiva marginalità, e lasciarsi risucchiare da un miope tatticismo privo di una visione.

Stefano Zamagni

 

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NOTE

 

  1. L’edizione originale del Codice di Camaldoli viene pubblicato dall’ICAS con il titolo “Per la Comunità cristiana: principi per l’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli”, Roma, Ed. Studium, 1945.

 

  1. in F.P. Casavola, “La riforma della Costituzione”, Già e non ancora, 2, 1996, p.26.

 

  1. Assemblea Costituente, Materiali della Repubblica, vol.I, tomo II, Notor ed., 1991, p.705. (corsivo aggiunto).

 

  1. F.A. Casavola, cit., p.30, il quale riporta la dichiarazione di Concetto Marchesi, esponente di punta del PCI ed estensore della relazione per il progetto relativo alla cultura e alla scuola, secondo cui “la Scuola deve appartenere allo Stato, il quale può riconoscere e favorire il sorgere e il prosperare di organizzazioni ausiliarie di educazione e di assistenza, ma non subordinarsi ad esse”.

 

  1. L’opera dove rintracciare la riflessione di Bonaventura sul tema della sussidiarietà è l’Hexaemeron (la spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione), Opera Omnia, ed. a cura di F. Delarme, Firenze 1934. (Trad. it. La sapienza cristiana Le Collationes in Hexaemeron, a cura di V. Bigi, Jaka Book, Milano, 1989). E’ qui che si trova una delle immagini più efficaci della visione teologica di Bonaventura, quella della figura geometrica del circolo. Ho derivato da questa immagine l’espressione di sussidiarietà circolare. Per una accurata e pregevole trattazione dell’argomento rinvio a O. Bazzichi, “La sussidiarietà: alle radici del pensiero francescano”, mimeo, gennaio 2022.

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