A questo punto il Paese ha francamente bisogno di una robusta cura disintossicante.
E se effettivamente dovesse nascere il governo “giallo- rosso”, e’ necessario che tra le righe del programma si legga questo impegno; anzi ne sia, ad un tempo, lo sfondo progettuale e ne possa rappresentare il distillato a cose fatte, quando si tirassero le somme dell’esperienza che – forse – si avvia.
La politica dei porti chiusi, la difesa armata a domicilio, l’uno-due dei decreti sicurezza, la retorica del “Prima gli italiani”, la cacciata dei rom, la “ruspa”, la brutalità del tono, la strafottenza del linguaggio, la coltivazione delle paure, la evocazione dei pieni poteri, il segnale di un allerta alla piazza: il programma di Salvini trovava la sua sintesi nel tentativo di cambiare il carattere morale degli italiani.
Perfino l’esibizione mediatica imbarazzante di se stesso, di momenti del tutto privati del suo vissuto ha concorso a questa pedagogia “macista” che, peraltro, riecheggia il rude padano dei raduni di Pontida con tanto di chincaglieria medievale indosso, ivi compreso l’elmo cornuto degli antichi celti, nonché la mistica leghista delle ampolle attinte alle sorgenti del Po.
I populismi optano scientemente per l’enfatizzazione di ciò che di piu’ istintivo ed irrazionale c’e’ nel sentimento di
un popolo. Sanno che e’ piu’ agevole addomesticarlo soffiando sul fuoco delle emozioni che non impegnandolo in una riflessione critica sulle necessità del momento. Scherzano con il fuoco della violenza e si illudono di cavalcarla.
Immaginano di gestirla, correndo un rischio calcolato che prevede l’uso e l’abuso dello schema primordiale del “capro espiatorio”.
Al fondo di tutto questo, c’è una cultura di sostanziale disprezzo della democrazia che spalanca le porte ad un processo di involuzione autoritaria, a sua volta sostenuto dall’ atomizzazione del corpo sociale, catturato nella ragnatela di un sordo rancore, di un sospetto reciproco, di una diffidenza impermeabile che viene coltivata sul terreno della xenofobia, ma poi rischia di dilagare, come una infezione incontenibile, alla generalità’ dei rapporti sociali.
Sarebbe l’ apoteosi del “sovranismo” che non è solo una presunta opzione politica, ma un abito mentale che non concede tregua a questa ossessione di voler separare, dividere, distinguere, confinare se stessi, via via, dentro recinti sempre più’ ristrettì, immaginando che siano rassicuranti, senonche’ ti ritrovi armato e barricato in casa.
Prigioniero di te stesso e del potere sovrano che ti sovrasta.
In fondo, l’esasperazione della “legittima difesa” – a rifletterci attentamente forse perfino più dei porti chiusi – è lo stigma ideologico del salvinismo, ne rappresenta l’approdo conclusivo, una sorta di sintesi antropologica del “nuovo” italiano.
Non a caso, perfino sul piano internazionale le “satrapie” di Mosca o di Pechino diventano punti di riferimento attraenti ed alternativi all’Occidente.
Ed i 5 Stelle si rendano conto che non basta sbattere un attimo le alucce per scrollarsi di dosso le ceneri accumulate nel girone infernale in cui si erano cacciate.
Che sia “decantazione” o “tregua” e’ necessario una fase di ricomposizione morale e civile del nostro Paese che passa anche dalla capacita’ di mantenere vivo quello spirito critico e quella autonomia di giudizio che, per noi, non sono l’abito di un sola stagione, magari da dismettere in fretta non appena si annuncia una possibile primavera.
Domenico Galbiati

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