Sono evidenti le difficoltà incontrate da chi vuole controllare, se non fermare, una immigrazione di massa agendo sui Paesi di origine dei migranti e soprattutto sui Paesi di transito. Ma ritengo deboli, con il rischio concreto di diventare irrealistiche, le proposte di quanti (come Primo Fonti CLICCA QUI) intendono affrontare il problema nei soli termini di accoglienza.

Per comprendere e valutare ogni fenomeno non si può non tener conto dell’aspetto quantitativo: le variazioni quantitative diventano sempre qualitative, mutando la stessa natura degli eventi. Una considerazione che vale anche per quanto riguarda le migrazioni. Oggi invece mi pare che su questo tema la dimensione quantitativa venga messa in secondo piano, quando non completamente ignorata.

Infatti, c’è chi dice che “emigrare è un diritto” perché ognuno ha titolo di vivere dove ritiene di avere più opportunità, come se un territorio potesse avere una densità demografica illimitata. Altri citano l’articolo 10 della Costituzione dove si garantisce il diritto d’asilo allo straniero cui nel proprio Paese venga impedito l’esercizio delle libertà esistenti nel nostro, dimenticando che è una condizione che riguarda più di metà del genere umano.

Invocare i “diritti” come riferimento primo su cui fondare una politica immigratoria significa porsi fuori della realtà, che è fatta di limiti, di difficoltà e di carenze di mezzi, e quindi richiede di confrontare ogni intervento proposto con i dati quantitativi.

Qual è il numero dei migranti già in cammino verso l’Europa, quale quello ragionevolmente prevedibile per i prossimi anni, qual è la capacità di accoglienza dei vari Paesi europei, quale la loro possibilità di integrare i nuovi arrivati, sono le domande che dobbiamo porci.

Oggi, viene detto dagli “aperturisti”, non c’è una vera emergenza in materia perché complessivamente i numeri degli arrivi sono contenuti, e le misure necessarie per una adeguata accoglienza sono alla portata dei Paesi della UE, se quest’ultima si desse una politica in materia.

Faccio presente che l’UNHCR (Agenzia ONU per i rifugiati) ha dichiarato, il 20 giugno 2023, che sono 110 milioni le persone nel mondo in fuga da guerre, violenze e persecuzioni. Non tutte vorranno o potranno raggiungere i Paesi del Nord ricco del pianeta, e l’Europa in particolare, ma certo in molti cercheranno di farlo. Poi ci sono i migranti economici, in massima parte persone con un reddito superiore alla media dei propri compatrioti, un maggiore livello di istruzione, di capacità professionali o comunque di intraprendenza. Questi sono determinati a raggiungere Nord America ed Europa, e, in quest’ultimo caso, non qualunque Paese europeo, ma quelli con il PIL più elevato che possono offrire maggiori opportunità. Inutile quindi parlare di ripartizione tra i Paesi perché nessun emigrante economico vuole essere inviato, o comunque restare, ad esempio, in Ungheria, Slovacchia, Romania o Polonia, ma andare in Germania, Paesi del Nord, Francia e Gran Bretagna.

Paul Collier e Stephen Smith, studiosi del fenomeno migratorio, hanno segnalato che nella popolazione giovanile dei Paesi del Sud del mondo si fa sempre più marcato il desiderio di abbandonare la propria terra per raggiungere il ricco Nord del pianeta. Aggiungono inoltre che un miglioramento della situazione economica dei Paesi natali (non tale da ridurre marcatamente il divario oggi esistente con la parte ricca del pianeta) non li fermerà, ma piuttosto consentirà a sempre più persone di poter emigrare, fornendo loro i mezzi necessari (poiché intraprendere il viaggio, anche nelle condizioni più precarie, costa e non poco). Pertanto il numero delle persone coinvolte nell’impresa di raggiungere l’Europa è destinato a crescere grandemente (dell’ordine di centinaia di milioni nell’arco di un trentennio).

Qualcuno pensa che l’Europa potrà reggere a fronte di fenomeni di tale portata? L’Europa non è terra di immigrazione come lo erano le Americhe e l’Australia che accolsero i nostri emigranti in passato. Questi erano Paesi pressoché vuoti, o meglio svuotati delle popolazioni indigene. Ancora oggi gli Stati Uniti hanno 35 abitanti per chilometro quadrato, il Canada 4, l’Argentina 16, l’Australia 3, mentre la UE ha una densità media di 110 abitanti/kmq; ma nella parte occidentale, più prospera, la densità raggiunge i 200 abitanti/kmq e in alcuni Paesi supera i 250-300 abitanti.

In risposta a questi dati numerici, viene messa in campo la questione del calo demografico europeo che renderebbe necessaria l’immigrazione per riempire i vuoti. Attenzione, il male di cui soffre l’Europa è uno squilibrio numerico fra generazioni (pochi giovani a fronte dei molti anziani) che certo crea problemi, in primo luogo di ordine previdenziale. Ma è fuori luogo sostenere che l’Europa sia sottopopolata quando è rilevante il divario fra l’elevato valore dell’impronta ecologica dei Paesi europei rispetto al territorio bioproduttivo (vedi Territorio, risorse e carico demografico). Infatti noi europei viviamo utilizzando risorse energetiche e materie prime importate, e scarichiamo fuori del nostro territorio i cataboliti (CO2 e rifiuti). Chiediamoci se si potrà continuare ad agire in tal modo in un mondo in forte cambiamento (crescita demografica dei Paesi esportatori di materie prime, crisi climatica e possibile calo delle produzioni agricole, e altre criticità).

Viviamo in una società globale, si risponde. Ma la globalizzazione non annulla il necessario equilibrio nel rapporto tra una popolazione e il suo territorio. Basta una pandemia o una guerra ad evidenziarlo. Quindi è positivo un graduale riequilibrio (non una patologica denatalità) tra consistenza della popolazione europea e risorse del territorio.

Sono scenari non di oggi, si risponde, quindi limitiamoci ad affrontare il presente. Tuttavia, non è saggio, in questo come in ogni altro campo, attendere le emergenze per predisporre gli strumenti necessari ad affrontarle. Inoltre è proprio l’incertezza su un futuro che comunque ci attende a suscitare timori e preoccupazioni che alimentano chiusure, in specie in quegli strati di popolazione che già oggi nelle periferie urbane debbono confrontarsi con le problematiche suscitate da una inadeguata accoglienza e una comunque non facile integrazione. E certo non induce all’ottimismo quanto accade nelle banlieues delle città francesi.

Il primo passo da intraprendere riguarda i criteri da adottare per una accoglienza che non può essere indiscriminata ed illimitata. Di conseguenza dobbiamo chiederci quanti e, in primis, chi accogliere. Chi ha più bisogno o chi è più utile per noi?

Se guardiamo a chi ha più bisogno, si deve introdurre la distinzione (da molti contestata) tra profughi e rifugiati, a cui tenere le porte aperte, e migranti economici per i quali non c’è spazio. Se invece privilegiamo le nostre esigenze (avere manodopera capace o comunque idonea a svolgere i compiti richiesti in una società complessa e sviluppata) saranno i più fragili ad essere abbandonati. Ricordo che il sempre citato milione di siriani accolti in Germania da Angela Merkel era costituito da laureati, diplomati, tecnici e componenti di una dinamica piccola e media borghesia, non certo dagli “ultimi”.

E qui si impone un’altra considerazione. Se noi oggi ci lamentiamo per il danno creato al nostro Paese dalla fuga dei nostri giovani più capaci e preparati che se ne vanno all’estero per restarci definitivamente in quanto trovano condizioni di lavoro e di carriera più remunerative e promettenti, a maggior ragione ciò vale per i Paesi poveri: infatti, le ricadute di un tale esodo pesano negativamente su di essi assai più di quanto giovino le eventuali rimesse che gli espatriati possono inviare ai parenti rimasti a casa. Inoltre, con la fuga dei giovani più preparati e dinamici, non avremo mai in questi Paesi una classe dirigente diversa dall’attuale, sovente incapace e corrotta. Si aiuta così il Sud del mondo?

Diverso e positivo è il caso dei permessi temporanei e di quelli stagionali, che consentono al lavoratore immigrato di acquisire esperienze e competenze utili, oltre a qualche soldo, da impiegare proficuamente al rientro in patria.

Inoltre, anche quando si privilegiano le aperture funzionali alle esigenze produttive dei Paesi europei, non sempre le caratteristiche richieste per i visti corrispondono a quelle possedute dalla maggioranza di chi vuole entrare. Soprattutto è assai probabile che il numero dei richiedenti l’ingresso diventi presto assai superiore alla domanda di mano d’opera, non lasciando agli esclusi strade diverse da quelle oggi pericolosamente praticate. Quindi per questa via non si arginano quei viaggi della speranza contrassegnati dai morti in mare e nei tentativi di superare comunque i confini degli Stati.

Riguardo a corridoi umanitari che prescindano dalla richiesta di mano d’opera essendo rivolti a tutti quanti hanno titolo di profughi o rifugiati, bisogna tenere conto che vale anche in questo caso la dimensione quantitativa poiché non si potrà andare oltre la capacità di accoglienza dei vari Paesi e la possibilità di sistemare in modo decente gli arrivati, dando loro una prospettiva. Ci vorrà pertanto un estremo rigore nel definire e valutare i requisiti necessari dei richiedenti, sperando che anche in questo caso i numeri non crescano eccessivamente.

La conclusione è che i canali di ingresso regolari e i corridoi umanitari, pur in grado di dare nell’immediato (finché gli arrivi non sono eccessivi) risposte alle esigenze di molti migranti, non potranno mai soddisfare il desiderio e le attese di crescenti masse di persone intenzionate a vivere in Europa. Quindi l’immigrazione irregolare (con tutto quanto l’accompagna di negativo e pericoloso) non sarà arrestata da tali misure.

Di conseguenza, se non si possono, o non si vogliono, attuare politiche di contenimento, non c’è modo di fermare il flusso con le conseguenze dirompenti che ne derivano.

Certamente si potrà porre totalmente fine alla spinta migratoria solo riducendo il divario enorme tra le condizioni di vita dei Paesi del Sud del mondo e quelle dei Paesi del Nord. Ma tale divario potrà essere superato o ridotto in modo consistente, tanto più che i Paesi del Nord vogliono continuare a incrementare sempre più la loro crescita? Se sì, in quali tempi? In quale modo? Aiutando chi è restato indietro (con i vari piani Marshall o Mattei) a percorrere lo stesso commino fatto dai Paesi sviluppati?

È stato più volte detto che se i popoli dell’intero mondo avessero il tenore di vita e i consumi del ricco Occidente, ci vorrebbero più pianeti Terra per sostenerli. È vero? Se sì, come credo, anche questa strada non è percorribile. Il Sud del mondo dovrà inevitabilmente trovare un cammino diverso dal nostro che già non sembra più sostenibile anche per noi.

Certo, con la buona volontà, si potranno fare molte cose utili, ma ritengo che per dare un risposta risolutiva all’insieme delle domande poste si imponga un profondo cambiamento dell’attuale sistema economico-sociale, e dei nostri modi di vita e standard di consumi, che ormai non sono più compatibili con la condizione (ambientale, sociale, e politica) del pianeta.

Tempo fa il Direttivo della nostra Associazione aveva approvato un documento di analisi del fenomeno migratorio (CLICCA QUI) in cui erano già presenti le considerazioni fatte nel presente articolo, mentre venivano prospettate alcune possibili misure per affrontare con realismo questa problematica. Mi pare che, da numerosi scritti e interventi su fogli riconducibili all’area popolare o cattolico-democratica, emerga oggi una visione del problema da cui il sopracitato documento risulta distante. Sarebbe il caso che il Direttivo riaffrontasse la questione e, se il sopraddetto documento fosse ritenuto superato, lo si ritirasse proponendone uno nuovo, che spero rimanga comunque ancorato alla realtà.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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