La battaglia sull’ambiente sta coinvolgendo anche la grande finanza, oltre che la politica statunitense e quella mondiale.

“Siamo sull’orlo di una completa trasformazione della finanza», perché il cambiamento climatico obbliga gli investitori «a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna”. Così ha recentemente parlato uno degli uomini più potenti al mondo: Larry Fink, co-fondatore, Amministratore delegato  e Presidente di Black Rock che gestisce un portafoglio di oltre sette mila miliardi di dollari ( CLICCA QUI ).

Ovviamente, egli vede le cose dal suo punto di vista: “cosa succederà ai mutui trentennali se chi li eroga non è in grado di stimare l’impatto del rischio climatico su un arco di tempo tanto lungo, e se non sussistono opportunità di mercato per le assicurazioni nelle aree interessate. Che accadrà all’inflazione, e di conseguenza ai tassi d’interesse, se il costo del cibo aumentasse a causa di siccità e inondazioni? Come possiamo costruire una crescita economica se i mercati emergenti vedono la propria produttività diminuire a causa di temperature estreme o di altri impatti climatici?”

Questi alcuni quesiti che spiegano l’interesse crescente da parte dei cosiddetti investitori globali. Anche loro si sono accorti di quanto le questioni ambientali siano diventate tanto determinanti. Al punto da riconoscere che esse influenzeranno sempre più il mondo dei soldi e degli affari. Siamo giunti al punto di non ritorno per l’umanità e il nostro Pianeta?

La questione ambientale non è più aspetto residuale.  Non è più solo tema che agitano i Papi. Cosa da alcuni letta meramente in una dimensione spirituale e religiosa, nonostante che già a partire da Paolo VI ( CLICCA QUI  ) con il discorso alla Fao del 1970, si è  sempre più trattato di insistenza e sollecitazione concreta, fino a culminare nella Laudato Sì ( CLICCA QUI ).

Neppure è consapevolezza che riguardi solo gli ambientalisti i quali non sempre, a causa anche di alcune loro estremizzazioni, hanno saputo svolgere un’opera di convincimento adeguata. Soprattutto là dove si è finito per porre in antagonismo la produzione con l’ambiente e la salute, la fruibilità del patrimonio naturalistico comune con la necessità di una sua salvaguardia e, quindi, di un mal accettato contingentamento del suo godimento.

Sono tanti i motivi per cui si riesce solo da poco a parlare di “sviluppo sostenibile” e provare a individuare una conciliazione possibile tra i diversi ed intriganti corni del dilemma.

Eppure, nonostante mutino sensibilità ed atteggiamenti, è come se ancora sia solamente un pugno di solitari ad occuparsi di quell’Agenda 2030 che prova a fissare una “nuova frontiera” dello sviluppo ( CLICCA QUI ) , indicata oramai cinque anni or sono dall’Assemblea generale dell’Onu.  Così, denuncia Enrico Giovannini: siamo ancora lontano dagli obiettivi prefissati ( CLICCA QUI ).

Nel nostro Paese, vicende come quelle di Taranto restano ancora vere e proprie “pietre d’inciampo”. Perché, ma questo non è solo cosa di Taranto,  si sono lasciate incancrenire situazioni come se si fosse accettata l’idea dell’inconciliabilità tra l’attività economica e la salute delle persone e dell’habitat, piuttosto che elaborare e seguire un nuovo percorso da imprimere alle attività umane.

Lo scontro politico che sottostà alla questione ambientale e a quella dello sviluppo è evidente in alcune zone del mondo ricco ed evoluto. In quelle meno sviluppate l’equilibrio è  tutto sbilanciato a favore della salvaguardia dell’occupazione e della produzione a discapito della tutela degli esseri umani, soprattutto delle donne e dei minori, e della qualità dell’ambiente. Ciò è particolarmente vero dove la logica del profitto resta ancorata più a vecchi equilibri economici e produttivi, che presuppongono il basso costo della mano d’opera, e finisce per contrastare un modello innovativo e una più diffusa preoccupazione per gli equilibri biologici e naturali scompensati da eccesive emissioni inquinanti.

La politica di Donald Trump è tutta diretta a smantellare le norme introdotte dal predecessore Obama in materia di utilizzo del carbone e dei fossili. Lo scontro sulla riduzione delle emissioni e dell’inquinamento delle falde acquifere  conferma la divaricazione tra un tipo di economia e un’altra. Non è un caso che molte delle amministrazioni delle grandi città degli Usa, là dove gli equilibri ambientali e sanitari sono maggiormente messi alla prova, richiedano una riconversione  produttiva, il passaggio sempre più forte a fonti d’energia alternativa e una riduzione delle emissioni provocate dal traffico. Sono le questioni attorno cui si concretizza una sorta di contrasto estremo con quelle zone rurali dove Trump trova maggior sostegno, così come con quelle  ad alta produzione industriale tradizionale dove la scelta ambientale  finisce per cozzare con i livelli d’occupazione.

Questo acceso confronto tra due visioni diverse dell’economia, del lavoro e dell’essere umano nel Creato risale addirittura alle vicende elettorali tra Alan Gore e George W. Bush, all’indomani dell’uscita dalla Casa Bianca di Bill Clinton. Un conflitto destinato a durare ancora a lungo e che, sicuramente, vedrà una lotta all’ultimo sangue anche nelle elezioni per la Presidenza Usa del prossimo novembre.

Adesso, s’intromette anche il mondo della finanza portando nuovi elementi di riflessione e d’intervento. Larry Fink fa un ragionamento rivolto agli amministratori delegati di tutte le società che Black Rock finanzia sulla base del riconoscimento che questioni come il cambiamento climatico richiedono nuove valutazioni sui rischi destinati ad avere un impatto “non solo sul mondo fisico, ma anche sul sistema globale che finanzia la crescita economicavisto “l’impatto delle politiche legate al clima sui prezzi, sui costi e sulla domanda dell’economia nel suo complesso”.

La finanza  comincia a cogliere i caratteri “strutturali” della questione ambientale, di cui i cambiamenti climatici costituiscono solo gli elementi più estremi di conferma e di riconoscimento, e percepisce dunque che non è questione da confinare e ridurre in una fase di crisi momentanea e facilmente superabile. Cosa che porta inevitabilmente a far  assumere quella “responsabilità sociale” che per troppi decenni è mancata da parte della finanza e del capitale.

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