Enzo Carra ha inviato una lettera al Direttore de Il Riformista a seguito della scomparsa di Ciriaco De Mita. La missiva, in realtà, è un racconto in sintesi della fine della cosiddetta Prima Repubblica avvenuta trent’anni fa

Caro direttore, nel tuo epicedio per Ciriaco De Mita, così diverso dagli altri da sembrare stonato, ma la politica non obbedisce a un canone melodico, tu concludi, perdona la citazione demitiana, con un ragionamento. Dici che da “quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il demitismo e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica.” Così, tu attribuisci a De Mita un ruolo imponente nell’ultima fase di quella che con leggerezza chiamiamo Pima Repubblica (è forse stata cambiata la Costituzione?).  Certo, dal caso Moro in poi quella parte della nostra storia ha proseguito il suo corso come sospesa, malamente, senza idee e senza progetti.

La cosiddetta lotta politica s’era trasformata dalla fine degli Anni settanta in uno scontro tra i detentori del potere e quelli che volevano impossessarsene. Per dire: Andreotti spogliato del governo dopo il caso Moro punta sull’elezione di De Mita alla segreteria della Democrazia Cristiana per poi mollarlo appena ottenuto il ministero degli esteri da Bettino Craxi. Per dire. Negli Anni ottanta la “grande politica” è assente. Molta tattica, un governo a guida socialista appoggiato da una parte della Democrazia Cristiana e il partito di Scalfari-Repubblica che appoggia De Mita: c’è questo e poco altro in quel fine secolo ed è complicato limitare a uno solo dei protagonisti dell’epoca la responsabilità del crollo.

È sicuro invece che questo crollo, tu lo definisci icasticamente la “morte della democrazia”, avviene nel maggio del 1992 quando si vota per il Presidente della repubblica. Sarà il successore di Francesco Cossiga, il “picconatore” tanto per restare in tema di crolli. In quei giorni si consuma l’ultimo atto della repubblica dei partiti. Si inizia con un saggio di filodrammatici, li chiamano franchi tiratori, che seminano trappole e si finisce avvolti dalle fiamme in una tragedia che brucia uomini e istituzioni.

Cominciamo dalla fine, una fine vera. Lunedì 25 maggio a metà giornata i grandi elettori applaudono Oscar Luigi Scalfaro nuovo Capo dello stato: hanno votato a stragrande maggioranza una persona che prima di quell’infernale week end avevano escluso dalla lista degli eleggibili. Sono le fiamme e la tragedia di Capaci a obbligare quell’esercito allo sbando a votare per Scalfaro, il candidato al di sopra di ogni sospetto. E alla domanda perché Riina e gli altri assassini abbiano scelto quel giorno per la strage la risposta è: Andreotti. Dopo Salvo Lima, Cosa Nostra completa la sua vendetta contro chi l’ha scaricata con quell’orrore inimmaginabile che impedirà a Andreotti di chiudere al Quirinale la sua carriera politica.

Per ottenere questo risultato però non c’era bisogno di quintali di tritolo perché già dall’estate del 1990, al rientro a Roma della Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Gerardo Chiaromonte, da una importante e rivelatrice missione a Palermo, i comunisti fanno sapere ad alcuni dirigenti democristiani che il partito non sosterrà più Andreotti. La Democrazia Cristiana tiene conto di questa decisione del partito con il quale ha sempre condiviso la scelta al Colle più alto. Una prassi che ha tollerato un’unica eccezione, il voto per Giovanni Leone che mandò il giurista al Quirinale e su tutte le furie il Partito comunista, neutralizzato in quell’occasione, che poi seppe come dilaniare il Presidente che non doveva ringraziarlo.

Il 1992 è un anno speciale. Mani Pulite è partita da poco ma promette grandi cose e i partiti, tutti i partiti, comunisti compresi, non hanno lo smalto di una volta, anzi boccheggiano. Un’ultima volata, un disperato sforzo di restare in piedi per non mandare all’aria il sistema -la Prima Repubblica- che non ha alternative se non quella dell’avventura come sistema, è questo il tentativo del quadripartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali). Un’operazione che nello scrutinio decisivo potrà raccogliere i cosiddetti voti in libertà da sinistra e forse anche da destra. Una scelta conservativa, sì ma per evitare il peggio. È vero, all’occorrenza ci sarebbe anche Oscar Luigi Scalfaro, il “candidato di Marco Pannella” come scrivono i giornali. Non è per questo che sul quel nome ci sia il “no” della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita, presidente del partito con Forlani Segretario, non dimentica la severità curiale, l’enfasi moraleggiante, la demagogia con cui Scalfaro ha condotto, da Presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, i fatti della ricostruzione in Irpinia. Prima Montanelli sul Giornale, con una grande inchiesta giornalistica di Paolo Liguori, ha sommerso di accuse il “clan degli avellinesi”, poi la Commissione parlamentare ha messo in bella copia e dettagliato quelle denunce. Raro esempio di un’azione giudiziaria ispirata e sorretta da un’inchiesta giornalistica, da allora in poi infatti avverrà il contrario e i giornali aspetteranno il via, soprattutto le carte dalle procure.

De Mita controlla un buon quaranta per cento dei grandi elettori della Democrazia Cristiana e i suoi orientamenti influenzano l’intero arco costituzionale che, del resto, è una sua invenzione. Arnaldo Forlani è capo della parte moderata che adesso si chiama Azione popolare e comprende la vecchia cara corrente del Golfo che fa capo a Antonio Gava. Insomma, il candidato Forlani parte bene anche se Mario Segni, ex capo dei superanticomunisti democristiani, i “101” di Massimo De Carolis e Luigi Rossi di Montelera, sta molto simpatico al capo dei democratici di sinistra Achille Occhetto. Segni chiede un completo rinnovamento del suo partito, a cominciare dal candidato alla presidenza, ma i suoi amici di partito non raccolgono l’appello. Non tanto per il rinnovamento in sé quanto per gli uomini che lo reclamano. Superato questo problema resta solo la prova dell’aula. De Mita e Forlani sentono odore di bruciato, è soprattutto De Mita a intuire che qualcuno sta armando una piccola ma efficace forza speciale di franchi tiratori. All’operazione lavora probabilmente Cirino Pomicino e quei pochi che credono nel rientro di Andreotti. Tra i congiurati non figura Vittorio Sbardella, lo Squalo, come è sobriamente definito il capo andreottiano di Roma e dintorni, odia talmente Pomicino da fare qualunque cosa pur di far fallire i piani del rivale. Il cui piano è però talmente striminzito da sfuggire ai controlli. “Mi dissero che si trattava di bloccare Forlani perché poi sarebbe entrato Andreotti e con lui noi parlavamo meglio” mi racconta anni dopo un ex sottosegretario socialista di Ariano Irpino che un tempo si chiamava Ariano di Puglia ed è distante da Nusco.

I franchi tiratori che sfuggono a De Mita e atterrano Forlani sono 39 al quinto scrutinio e 29 al sesto. Voti di andreottiani che sperano, socialisti che odiano Bettino Craxi, qualche socialdemocratico e un paio di liberali del genere hai visto mai. Ecco fatto, Forlani getta la spugna, sconfitto dai franchi tiratori, dopo aver respinto con sdegno una possibile trattativa con Bossi proposta da Pierferdinando Casini. Chi si sente sconfitto più di lui è De Mita che vede con chiarezza pararsi davanti la fine della democrazia nel senso della Prima Repubblica, come la definisci tu, caro direttore. Stavolta, davvero, non è colpa sua ma dei sogni irrealizzabili di certi avventurieri.

Enzo Carra

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