Con una certa sorpresa abbiamo assistito ieri al fatto che alcuni telegiornali si sono ricordati  dell’anniversario della morte di Camillo Olivetti. Il padre di Adriano che proseguì la sua opera illuminata d’imprenditore sensibile alle questioni sociali, e alla conseguente apertura ad un nuovo rapporto tra capitale e lavoro, e allo sviluppo tecnologico.

Soprattutto con Adriano, l’Olivetti divenne un’eccellenza su entrambi i fronti, quello sociale e quello dell’innovazione. Ed è lodevole il fatto che ogni tanto si parli di chi indica, e percorre, una strada diversa su cui si potrebbe incamminare l’imprenditoria moderna o, come fanno gli studiosi della economia civile, e di quella circolare, dimostrano che altro si può fare per individuare nuovi rapporti tra impresa e società. Anche per rispondere alla crisi del capitalismo tradizionale, altrimenti destinato a diventare pura finanziarizzazione con tutte le conseguenze che questo comporta.

Peccato che il ricordo ascoltato ieri, forse ce ne sono stati  altre più completi, sia siano  limitati agli aspetti meramente celebrativi. Nessuna parola sulle responsabilità della fine del “disegno” di Adriano Olivetti e della distruzione della sua impresa. Dava troppo fastidio. Internamente, al resto di una gran parte dell’imprenditoria italiana, quella che ha preferito la strada dell’assistenza pubblica, magari condannata dei giornali di quello stesso padronato di allora. All’esterno, perché l’innovazione prodotta dalla Olivetti faceva gola ad altri. Stranieri e, guarda caso, alleati strategici di una parte dei famosi nostri “capitani” d’industria ancora oggi tanto celebrati … nonostante abbiano creato le condizioni perché i loro eredi trasmigrassero altrove. Cose dure da dire, ma verrà il giorno in cui da qualche storico libero o da qualche economista, altrettanto libero, potremmo avere sugli Olivetti, ed altro, come sono andate davvero le cose.

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