“Un altro problema è di sapere fino a che punto l’uomo del futuro sarà in grado di vivere nel modo dovuto la sua potenza in continuo aumento, la sua libertà sempre più grande, di disporre la sempre più radicale arbitrarietà della sua esistenza”. Lo afferma Romano Guardini in una lunga lettera che, il 18 dicembre 1963, invia a Josef Weiger, parroco nel Wurttemberg, un confratello con cui coltivò un’amicizia culturale e di comune approfondimento teologico che si è protratta per un arco temporale di almeno sessant’anni.
L’intero testo insiste in quella riflessione sulla tecnica, sul suo potere pervasivo, soprattutto sulla capacità dell’uomo di reggerne o meno il peso, cioè sulla sua maggiore o minore attitudine a governare la “potenza” che dalla stessa gli deriva in misura così inusuale, inaspettata, quasi improvvisa, secondo una accelerazione che lo sorprende e gli impedisce di interiorizzare consapevolezza, strumenti concettuali, norme etiche adatte a non essere travolto da uno scenario che lo sfida sul piano della sua auto-comprensione, cioè, in ordine alla sua stessa concezione di sé e della sua umanità.
Si tratta di un tema attorno a cui il pensiero di Guardini si interroga da sempre. Quando invia la lettera di cui sopra – solo cinque anni prima della sua scomparsa – richiama argomenti che sono al centro della sua riflessione da oltre quarant’anni e documentati fin dalle sue “Lettere dal lago di Como”, scritte, nei primi anni venti, da Varenna, la perla del ramo lecchese del Lario, dove ha soggiornato, per qualche anno, durante le vacanze estive.
La riflessione di Guardini nasce immediata e spontanea dall’attenzione curiosa e dall’intelligenza limpida e penetrante con cui osserva la vita svilupparsi e mutare in un divenire incessante. A Varenna è il rumore assordante di un motociclo che arranca su per un vicolo che risale dal lungolago a sollecitare la sua presa di coscienza di un mondo che cambia ineluttabilmente e rompe l’atmosfera di un’antica armonia. Quarant’anni dopo, si sorprende, quasi con lo stupore di un bambino, ad osservare come un sollevatore, un dono della tecnica, in un’ officina di autoriparazioni, facili il lavoro del meccanico che, anziché infilarsi a terra sotto l’auto, può lavorare più comodamente reggendosi in piedi.
Cose di poco o di nessun conto, che scivolano via inosservate, salvo che in una mente libera, la quale, non essendo prigioniera degli schemi di un razionalismo astratto, sa attingere alla realtà come tale, se ne lascia scuotere e sorprendere anche nelle sue espressioni più semplici. Solo il “genio” – nel caso di Guardini, intellettuale e morale insieme – vede quello che sta sotto gli occhi di tutti, ma nessun altro sa scorgere appunto perché fin troppo palese.
Dal ‘63 ad oggi, il “futuro” cui allude Guardini nella lettera si e’ protratto, fino si nostri giorni, per quasi sessant’anni, eppure le sue domande ancora non hanno risposta.
Né l’avranno secondo la chiave di lettura e lo spirito di quel tempo. La “potenza in continuo aumento”, la “libertà sempre più grande”, la “radicale arbitrarieta’”, in qualche modo, non cambiano anch’esse segno in questo tempo nuovo? Non sono forse domande che hanno bisogno di essere riformulate?
La “libertà”, come sembra ritenere implicitamente Romano Guardini è davvero ed ancora direttamente proporzionale alla “potenza” oppure tale rapporto si è addirittura invertito? E non stiamo forse temendo, in questi giorni della pandemia, che la “libertà” si è talmente radicalizza in “arbitrio” da consegnarsi ad un vincolo che, in sé, la contraddice?
E’ sorprendente come, fin da allora, Guardini metta a fuoco con parole crude – “presenta un carattere che dobbiamo proprio chiamare apocalittico” – la questione ambientale e dell’inquinamento – “i residui del lavoro umano diventano un pericolo” – con una determinazione che tornerà così forte solo, almeno mezzo secolo dopo, nelle parole di Papa Francesco. “Ne consegue nell’insieme un modo di vita nel quale da un lato crescono continuamente le quantità, ma diminuiscono le qualità spirituali e personali”: questa la conclusione cui approda ed in cui vengono anticipati, pur in tutt’altra cornice, temi e denunce di quell’ “uomo ad una dimensione” che sta per irrompere nell’immaginario culturale ed esistenziale di chi allora aveva vent’anni e che Guardini, che scompare nel ‘68, non farà in tempo a conoscere.
Vi si rintracciano anche le orme delle due culture, pur sempre difficili da comporre. Anzitutto, la linea di pensiero e d’azione ispirata ad un tecnicismo pragmatico, di impronta efficientista ed operativa che rinvia al primato unilaterale ed alla pretesa di conoscenza esclusiva su cui si attesta la scienza, soprattutto quando assume una connotazione rigorosamente riduzionista. Un orizzonte in cui confluiscono e convivono, sia pure da versanti differenti, le ragioni del neo-liberismo produttivistico e le memorie di un illuminismo che, pur muovendo da un tributo alla ragione, finisce per intristirne l’orizzonte.
Sull’ altro versante, l’indirizzo di pensiero umanistico, cui concorre anzitutto la concezione cristiana dell’uomo, della vita e della storia, il personalismo che ne deriva ed a cui giungono apporti significativi da tutte le culture – o dalle stesse pur vetuste ideologie – che sono sensibili ai valori della giustizia sociale, dell’ eguaglianza, della parità dei diritti. Due contesti culturali per niente astratti o confinati in una sorta di limbo filosofico, bensì straordinariamente incarnati , più di quanto comunemente osserviamo, nelle posizioni politiche che maneggiamo tutti i giorni, spesso dimentiche di queste loro radici profonde che, invece, ricompaiono e presentano il conto nei momenti di “crisi”.
Quella composizione tra le “due culture” tanto invocata, quanto disattesa, nel tempo che segue la pandemia diventa, a maggior ragione, necessaria.
E tocca anche alla politica fare la sua parte. Infatti, e’ da qui, da questa reciprocità critica ed integrata, che può prendere avvio quel processo di “trasformazione” cui ci siamo spesso riferiti e che non concepiamo certo come rivendicazione di parte, ma piuttosto quale visione ed impegno comune. Dobbiamo darci un colpo di reni, tirarci fuori, senza indugiare, da una visione del mondo impaludata nelle mille forme dell’egoismo sociale, nella logica esiziale del desiderio che si accampa a diritto, nel primato dei cosiddetti diritti civili coniugati nei termini di un individualismo che separa e frammenta il corpo sociale.
Entriamo, a maggior ragione dopo questa esperienza di “distanziamento”, nel mondo delle “reti”, della comunicazione, del virtuale e della realtà aumentata.
Siamo talmente sollecitati alla ricerca di forme nuove di prossimità, che si associno pure alla distanza fisica, ma sappiano evocare sentimenti solidali e di condivisione, al punto d’ essere riusciti – se cosi si può dire delle stesse esperienze vissute in queste settimane – ad “umanizzare” la tecnica.
Insomma, siamo nell’era delle “relazioni” come bene fondativo e prioritario; dunque l’età della “persona” che è eminentemente relazione. Occorre una risposta di segno nuovo, piena di vita, lontana dalle manipolazioni biotecnologiche della sua origine e della sua fine, non ripiegata e rassegnata, non declinata secondo quell’indulgere alla morte che ha occupato troppo a lungo il tempo che ci lasciamo alle spalle.
Giova ripeterlo, la politica non può essere spettatrice passiva, bensì momento attivo di ricomposizione di questo nuovo universo di criteri e di valori. Gli stessi momenti di unità o di convergenza politica funzionali a particolari e contingenti fasi della vicenda democratica sono possibili, e più ricchi di senso, se si inscrivono in questa prospettiva comune che, pur, rispetta a fondo e non offusca in alcun modo la storia e l’ identità specifica di ciascuna forza.
Domenico Galbiati

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