La guerra dichiarata da Hamas non è una guerra di resistenza e di liberazione nazionale, è, in primo luogo, una guerra di religione. Storicamente una nazione palestinese non è mai esistita.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina è stata fondata a Gerusalemme nel maggio 1964 per decisione e come longa manus della Lega araba, con l’obbiettivo dichiarato della liberazione della Palestina attraverso la lotta armata.
L’idea originaria di Egitto, Siria, Giordania era quella di buttare a mare Israele e di spartirsi la vecchia Palestina britannica, non certo quella della formazione di un nuovo stato arabo-palestinese.
Lo Statuto dell’OLP del 28 maggio 1964 dichiara che “la Palestina all’interno dei confini che esistevano al momento del mandato britannico è una singola unità regionale”, dentro la quale è vietata “l’esistenza e l’attività del Sionismo”.
Non parla di uno Stato palestinese, ma di uno “Stato indipendente” nel territorio del Mandato – britannico – di Palestina. Il corollario principale è l’affermazione del “diritto del ritorno” dei circa 700 mila Palestinesi scacciati durante la guerra 1948-49, dichiarata dai paesi Arabi contro Israele per cancellarlo.
Dal 1988, l’OLP ha adottato ufficialmente una soluzione diversa: due Stati, Israele e la Palestina, che vivono fianco a fianco e con Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese.
Gli accordi di Oslo – Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim – del 20 agosto 1993 ratificati il 13 settembre e ulteriormente perfezionati nel 1995 – Oslo 2 – hanno così portato al riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, con il “compito di autogoverno” di parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Sulla strada di Oslo non ha avuto il coraggio di camminare Arafat, ma, appena subito dopo, neppure il governo israeliano, nel quale è venuta crescendo il peso della destra sionista laica e della destra religiosa, che non hanno mai nascosto il progetto di una “Grande Israele”.
Netanyahu ha proceduto a colonizzazioni massicce, ha con ciò umiliato e delegittimato l’ANP agli occhi dei Palestinesi. In questo vuoto si è inserita Hamas, che ha conquistato la maggioranza nelle elezioni legislative del 2006 con il 44% dei voti, ottenendo 74 dei 132 seggi della Camera, mentre Al Fatah ne ottenne solo 45, pur avendo avuto il 41% dei voti.
Perciò nel 2007 scoppiò la “Battaglia di Gaza” – una piccola, ma sanguinosa guerra civile, di cui non si conosce il numero dei morti – alla fine della quale Hamas assunse il controllo totalitario di Gaza.
L’ispirazione dello Statuto di Hamas e il suo obbiettivo finale è la cacciata degli Ebrei dalla Palestina, nel nome di “un diritto del ritorno”. Ne consegue una guerra di religione come guerra di sterminio, che non distingue tra popolo e esercito.
Lo abbiamo sperimentato noi Europei nel corso delle feroci guerre di religione, che dalla seconda metà del ‘500 fino alla fine della Guerra dei Trent’Anni nel 1648 hanno provocato milioni di morti e devastazione economico-sociale in Germania per un paio di secoli.
La posta in gioco è versare per intero il sangue di ciascun appartenente del popolo nemico, sgozzandolo come un animale. Ma, se necessario, si deve versare anche il sangue del proprio popolo. Lo ha teorizzato un dirigente di Hamas alla TV “El Arabiya”, enumerando quale esempio positivo i milioni di morti civili della Seconda guerra mondiale: “la liberazione richiede sacrifici, ci serve il vostro sangue, ci servono i martiri”. Hamas non vuole “Due popoli, due Stati”, vuole il genocidio.
L’incertezza esistenziale e strategica di Israele
Israele ha diritto di difendersi contro Hamas, che continua a tenere 230 ostaggi, che usa i civili come scudi umani, collocando strutture di comando sotto abitazioni, moschee e ospedali, e che continua a lanciare centinaia di razzi e missili ogni giorno. Contro chi offende con le armi, ci si difende con le armi. Il costo dello sradicamento militare di Hamas sarà molto alto e Israele lo ha messo nel conto.
Tuttavia, supposto che la necessaria operazione riesca in breve tempo – solo alcune piazze americane ed europee suggeriscono a Israele di arrendersi e di sparire dalla Palestina – resta un vuoto di prospettive strategiche.
Netanyahu ha chiamato alla guerra di sterminio contro Hamas, paragonando i Palestinesi di Gaza agli Amaleciti, che nei libri biblici dei Numeri, dell’Esodo e di Samuele sono descritti come abitanti della regione del Negev, che si oppongono alla giusta (?) conquista israelita di Canaan e che, pertanto, il Dio di Israele, parlando mediante il suo autonominatosi portavoce profeta Samuele, ordina di sterminare.
Il quale bellicoso profeta, non contento del fatto che Saul avesse annichilito il popolo degli Amaleciti e il loro bestiame, ma non avesse ucciso il loro re Agag, provvide personalmente a ucciderlo.
Tuttavia opporre etno-religione a etno-religione può servire a mobilitare nell’immediato anche gli Ebrei ortodossi che rifiutano il servizio militare, ma non copre il vuoto strategico. La destra sionista laica e quella religiosa hanno sempre rifiutato il principio “due popoli due stati”, promovendo le colonizzazioni in Cisgiordania, illegali a norma degli accordi internazionali.
Continuano ad avere in mente Eretz Israel o la Grande Israele, che il Libro della Genesi indica un po’ troppo generosamente come estesa tra il Nilo e l’Eufrate? Aggirare la questione palestinese, accordandosi alle spalle dei Palestinesi con alcuni Stati Arabi – questa la sostanza degli accordi di Abramo, costruiti in accordo a suo tempo tra Trump e Netanyahu – si è rivelata una tragica illusione, che il popolo di Israele sta pagando in modo orribile.
Servirebbe da parte degli Israeliani un esame di coscienza sul periodo che va, in particolare, dalla Guerra dei Sei giorni ad oggi. Non si può galleggiare troppo a lungo sull’odio di tutti gli Stati vicini, ma, soprattutto, su quello interno di una parte dei propri cittadini arabi, cittadini di serie B.
Se non si vogliono due Stati, allora perché non un “normale” Stato laico, in cui ciascuno goda di eguali diritti e sia libero di adorare il Dio che preferisce? Ciò implica, si intende, la rinuncia alle basi etno-religiose della statualità sia da parte israeliana sia da parte palestinese.
La preghiera come continuazione della politica con altri mezzi?
Intanto? Di fronte al sanguinoso puzzle del Vicino Oriente, a noi singoli resta forse solo la preghiera, come suggerisce il cardinale Pizzaballa. Robi Ronza l’ha definita originalmente come “la continuazione della politica con altri mezzi”.
Non era certamente ciò che aveva in mente Von Clausewitz. Essa va considerata, dai credenti o no, almeno come una pausa dell’odio etno-religioso che infiamma gli estremi. Una pausa per fare attenzione al “dolore dell’altro”, come invitava a fare il Card. Martini, citato da Gianfranco Brunelli su ”Il Regno”.
La preghiera non sposta certamente le forze sul campo di battaglia, ma può, forse, cambiare il cuore e la mente degli uomini che combattono. D’altronde a noi che guardiamo da lontano resta assai poco per tentare di impedire la condensazione degli eventi in un punto di catastrofe per tutti.
Senza dimenticare che le nostre parole sono fragili e, talora, rischiano di essere fatue, se non vedono il sangue che bagna ogni giorno la terra.
Giovanni Cominelli