Niente di nuovo dai giudici del Lussemburgo sulla Direttiva Bolkestein nella Sentenza Dichiarativa del 20 aprile sulla questione delle concessioni balneari italiane?

Parrebbe proprio di no. Niente di nuovo, almeno secondo le reazioni concordi di quasi tutti i grandi “media”, che si sono limitati a riferire la conferma del no assoluto alle proroghe delle concessioni, a ricordare l’obbligo di ottemperare che incombe sull’ Italia ( pena il rischio di una procedura d’infrazione, che si aggiungerebbe alle tantissime che già abbiamo e di cui, per la verità,  non parliamo mai) o a ribadire la conferma della natura “self-executive” ( auto-applicativa) della Direttiva, che è direttamente applicabile, senza alcuna necessità di recepimento in una legge nazionale. Da una parte dunque la regola europea cui adeguarsi, dall’altro la solita Italia, indisciplinata e recalcitrante, secondo una narrazione consolidata.  Niente di nuovo, sotto il sole italiano, dunque.

Eppure, anche da una prima e rapida lettura della Sentenza della Terza Sezione della Corte del Lussemburgo, che ognuno, non solo gli esperti, può scaricare dalla rete, e che non è affatto di ostica lettura, una novità c’è, e niente affatto piccola e irrilevante. Strano, davvero strano, che nessuna o quasi nessuna voce mediatica se ne sia accorta.  I giudici della Corte concludono  infatti che: “L’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che: esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione”( p. 23).

L’articolo 12 della Direttiva Bolkestein  è  quello in cui si afferma che “qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.

Qui si propone una nuova interpretazione dell’articolo 12. Questo articolo per la verità era stato sinora interpretato, molto semplicisticamente come un obbligo di aste generalizzate in cui tutti dovevano competere con tutti. La scarsità della risorsa naturale era infatti sempre data per scontata- essendo gli arenili una quantità limitata e non moltiplicabile-, e ciò non poteva che imporre una procedura di selezione che coinvolgesse, a pari titolo, in ogni parte d’ Italia,  tutte le concessioni . Ora invece la valutazione della scarsità è lasciata  alla discrezionalità politica dei singoli Stati che potranno infatti elaborare parametri che  combinino- come scrive la Sentenza- l’approccio legato alla situazione dell’area balneare disponibile e “libera”  entro il singolo comune, con quello legato all’area disponibile e “libera” entro l’ ambito regionale e nazionale.

Lo Stato italiano potrà, cioè, sulla base delle proprie valutazioni discrezionali, eventualmente fondate anche su una apposita mappatura, stabilire ambiti e modalità delle procedure selettive, che potranno comunque assicurare l’obiettivo della libera circolazione dei servizi e quindi del libero ingresso  di nuovi imprenditori entro il mercato dell’industria balneare, senza mettere in discussione situazioni consolidate, in cui il rinnovo delle concessioni potrà avvenire  certo con parametri e garanzie di imparzialità e trasparenza, ma  che integrino anche elementi strutturali  individuati da scelte politiche nazionali. Scelte che mirino, ad esempio,  a conservare e tutelare la capacità di “concorrere” delle singole aree balneari. Una capacità  di “concorrenza” che, nel caso delle aree balneari italiane,  non può essere legata al solo rapporto qualità/prezzo ( come avverrebbe in una selezione per scegliere un servizio di autobus) ma che deve essere misurata entro il “mercato rilevante”, che è, in questo caso,  ovviamente quello nazionale ed internazionale. Un tale mercato  non può che tener conto soprattutto di aspetti socio-culturali legati alle identità storiche specifiche diversamente da un “mercato”  comunale o localizzato, che appunto potrebbe anche contentarsi del  rapporto qualità/prezzo.

A fronte  di questa novità, è vero, c’è qualche aspetto meno  rassicurante, come evidenzia il punto 49 della Sentenza che ha suscitato parecchie perplessità fra gli operatori.

Il giudice del rinvio, che ha formulato nove precise questioni, nella nona ed ultima questione, ha sollevato un problema derivante proprio dalla modalità di applicazione della direttiva conseguente al meccanismo europeo di disapplicazione della normativa italiana. Il giudice si è chiesto  se “tale immediata applicabilità possa ritenersi sussistere anche in concreto in un contesto normativo – come quello italiano – nel quale vige l’articolo 49 Codice della Navigazione (che prevede che all’atto di cessazione della concessione “tutte le opere non amovibili restano acquisite allo Stato senza alcun compenso o rimborso”) e se tale conseguenza […] risulti compatibile con la tutela di diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, riconosciuti come meritevoli di tutela privilegiata nell’Ordinamento dell’Unione europea e nella Carta dei Diritti Fondamentali [dell’Unione europea]”.

In altri termini il giudice ha evidenziato l’effetto gravemente lesivo di un diritto essenziale che si potrebbe verificare con la semplice applicazione meccanica della Direttiva,  che non può tener conto pienamente del contesto normativo in cui si inserisce, col rischio di produrre espropri privi di indennizzo.

Ed a questo punto il giudice del Lussemburgo (Punto 83 della Sentenza) non ha potuto rispondere, per motivi credo procedurali. Il giudice europeo ha infatti precisato che “ Nel caso di specie, la controversia di cui trattasi nel procedimento principale riguarda la proroga delle concessioni e non già la questione del diritto, in capo a un concessionario, di ottenere, alla scadenza della concessione, un qualsivoglia compenso per le opere inamovibili che esso abbia costruito sul terreno affidatogli in concessione. Pertanto, non avendo il giudice del rinvio esposto gli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la situazione di cui trattasi nel procedimento “principale, la Corte si trova nell’impossibilità di fornire una risposta utile alla nota questione”.

E’ un pericolo questo da non trascurare. E non è chiaro nemmeno  se il Governo riuscirà davvero a armonizzare adeguatamente situazioni locali e contesto nazionale. Si tratta però di due passaggi importanti della Sentenza, uno che sembra delineare una prospettiva positiva, uno no. Ma in realtà due passaggi che, a prescindere dall’esito,  potrebbero annunciare un cambiamento delle logiche di governo dell’ UE, che peraltro si intravedono in altri ambiti.  E un cambiamento non piccolo.

Quale cambiamento? Sino ad oggi la CGUE è stata una sorta di potente “motore invisibile” dell’integrazione europea, mostrando un potere espansivo efficace e straordinario. Basti ricordare che una serie di principi cardine dell’attuale ordinamento UE, a partire dalla primazia o prevalenza  del diritto euro-unitario sul diritto nazionale  o del  principio di effetto diretto, in base al quale la norma interna contrastante col diritto euro-unitario direttamente applicabile deve essere disapplicata,  dal giudice nazionale o dalla pubblica amministrazione,  per arrivare alla responsabilità civile dello stato per violazione del diritto comunitario,  non sono principi scritti nei Trattati , ma principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte.

Questo sistema ha funzionato, certamente, ed ha avuto indubbi meriti, orientando la stessa produzione degli atti normativi europei. La creatività dei giudici ha supplito la scarsa rilevanza dell’Europarlamento. Oggi questo sistema però mostra tutti i suoi limiti , è decisamente insufficiente e forse anche pericoloso. Il diritto è prodotto non solo di giurisprudenza, ma anche di dottrina e legislazione. Dottrina e legislazione  europea devono trovare uno spazio che oggi non hanno.

Questa sentenza ci aiuta a capire perché è così. L’integrazione giudiziaria – quella promossa dalla Corte-  è stata utile  ma è di fatto una “integrazione negativa”, come molti l’hanno definita. L’integrazione CGUE ha certo uniformato l’ordinamento (sia pure incontrando resistenze crescenti) ma ha anche dato  vita ad una massiccia rimozione di regole, volta soprattutto ad affermare i principi di libertà di circolazione e di non discriminazione. Come dimostra questo punto finale della Sentenza, il mix tra deregulation giudiziaria e permanenza delle leggi nazionali ( solo disapplicate e disapplicate in misura parziale ) può produrre situazioni squilibrate che mettono a rischio talvolta diritti fondamentali (come quello di proprietà).

Purtroppo, l’UE non è riuscita sinora ad assicurare- e non riesce a farlo talvolta neppure lo Stato nazionale- un intervento riequilibrante di carattere positivo , finendo per far operare una “libertà di mercato” che, se lasciata da sola, produce quell’indebolimento delle strutture pubbliche che in Italia la pandemia ha evidenziato.

Al tempo stesso la Sentenza ci indica la via dell’armonizzazione politica delle normative europee. Solo la politica vera può oggi salvare l’Europa , partendo dal telos, cioè dalle finalità concrete che fanno esistere una comunità politica e che ne assicurano l’interna e vera solidarietà. Finalità concreta è  sicuramente quella di salvaguardare, entro un quadro di libertà di iniziativa economica, l’identità socio-culturale delle stazioni balneari italiane- una identità essenziale per “concorrere” sul mercato turistico europeo . Così come finalità concreta, in un campo ben più rilevante,  sarebbe oggi  quella di mettere in atto scelte e iniziative per costruire la pace. Personalmente, dalla mia adolescenza in poi, io mi sono sempre sentito un cittadino europeo, ma ho sempre pensato che le costruzioni politiche non sono mai perfette, persino se sono costruite  insieme da persone di buona volontà. Sono sempre perfettibili, ma possono avere anche gravi difetti. E’ così difficile per tanti “europeisti” accettare il fatto che oggi esistono grossi problemi effettivi nell’UE ed è  così ovvio attribuire tutti i guasti al provincialismo italiano o ai difetti dei singoli Stati? Non è oggi il momento di affrontare questi problemi?

Umberto Baldocchi

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