Giulio Pastore è stato protagonista, nell’arco del biennio 1948-1950 di una doppia operazione politica e culturale – ma bisognerebbe dire meglio: politica e quindi culturale – sul cui significato vale la pena di tornare a riflettere nel momento in cui l’anniversario tondo, i cinquant’anni dalla morte, ci rimettono davanti questo protagonista del cattolicesimo politico del Novecento.

Nel luglio del 1948, Pastore guida la corrente sindacale cristiana alla rottura della Cgil unitaria, nata durante la Resistenza come proiezione dell’unità fra i partiti antifascisti. Un’unità sindacale di nome ma politica di fatto, che non riesce a fondare una vera unità fra i lavoratori e che quindi non regge la prova della divisione fra questi stessi partiti, una volta approvata la Costituzione ed eletto il primo parlamento.

In quel momento, la decisione di rompere quell’unità sindacale costruita sulle fondamenta sbagliate della politica non era scontata: per i cattolici era aperta la strada alla soluzione meno difficile, quella di restare come minoranza protetta in un’organizzazione a guida comunista, portatori di testimonianza nobile ma che sarebbe stata poco feconda sul piano politico-sindacale.

La fondazione della Libera Cgil dopo la scissione dalla Cgil nel 1948 segna il rifiuto della soluzione  della mera testimonianza e permette l’inserimento del movimento sociale cattolico come protagonista autonomo in un movimento sindacale altrimenti dominato esclusivamente dalla dialettica fra le componenti socialista e comunista. Dopo il crollo del fascismo ed il discredito caduto sul corporativismo, reso impresentabile dal Ventennio e poco adatta ad accompagnare la trasformazione industriale del paese, i sindacalisti cattolici possono cominciare a cercare una via autonoma dal socialismo e innovativa rispetto al corporativismo.

Due anni dopo, nel 1950, Pastore fa un ulteriore passo in avanti con la fondazione di un’organizzzazione sindacale unitaria, il massimo di unità sindacale possibile nelle condizioni date, portando i cattolici della Libera Cgil con i laici della Fil e gli autonomi dell’Ufail ad una confederazione nuova, la Cisl, che porta il movimento sociale cattolico ad un incontro con una cultura di tipo liberal-democratico. Si fa così definitivo il distacco dal corporativismo e dalla visione statica delle relazioni sociali, per approdare al pluralismo dinamico delle relazioni industriali in senso contemporaneo, ancorandolo cristianamente alla persona che lavora e non ad astrazioni sociologiche.

Neanche questa era una strada scontata, visto che i cattolici si sarebbero potuti accontentare, e la guerra fredda li avrebbe portati a questo, di fare da componente maggioritaria in un sindacato anticomunista, tutelati in questa posizione da una legislazione sindacale di applicazione della Costituzione che avrebbe garantito loro una rappresentatività certa “in proporzione dei loro iscritti” e quindi di non essere cancellati dalla maggioritaria Cgil. Invece Pastore rifiuta questa logica e accetta la sfida della libertà, quindi anche della concorrenza senza posizioni garantite a priori, come condizione perché i lavoratori italiani, e quelli cattolici fra essi in particolare, possano dare un contributo originale e contemporaneo, all’altezza dei tempi.

In questo modo, la Cisl (e i cattolici all’interno della Cisl) offre a tutti i lavoratori italiani un’alternativa, sia sul piano culturale che su quello organizzativo, ad un sindacalismo controllato dalla sinistra politica (e/o subordinato a questo) perché identificato con la classe o col movimento operaio. Al centro della sua azione sindacale non c’è la classe ma nemmeno la “categoria” del corporativismo; c’è invece la persona che lavora, una persona alle cui esigenze devono ordinarsi la società e lo stato, come recita l’articolo 2 dello statuto della confederazione sul quale lavorano, fra gli altri, Mario Romani e Francesco Santoro-Passarelli.

Attraverso la Cisl, e assiema ad altre componenti politiche e altre identità culturali, i cattolici nel sindacato non sono più subalterni alla sinistra politica né fermi nella difesa di una tradizione autoctona e nobile, ma ridefiniscono questa tradizione in termini di contemporaneità e diventano così un soggetto potente di innovazione nelle relazioni industriali italiane, attraverso la dialettica fra la cultura del personalismo cristiano e quella pluralista di impronta liberaldemocratica. Un’innovazione che comincia con il ripensamento critico, fino al rifiuto, della legislazione sindacale sugli articoli 39 e 40 della Costituzione (quelli che avrebbero garantito la posizione della nuova confederazione inchiodandola però alla subalternità), per passare quindi alla proposta di contrattazione articolata nelle aziende quale strumento per una crescita condivisa – nei metodi di lavoro e nella ripartizione dei benefici – della produttività come chiave per la ricostruzione ed il progresso delle classi lavoratrici.

È una pura coincidenza se proprio questi temi, la produttività e la legislazione sindacale, che la Cisl affrontò in termini nuovi fra il 1950 e il 1953 sono ancora oggi al centro del confronto (pur se in termini non altrettanto innovativi)? O non è questa una formidabile controprova della capacità di contemporaneità dei protagonisti di allora, da prendere ad ispirazione nel presente?

Ed è senza significato per l’oggi una vicenda in cui i cattolici hanno saputo collaborare proficuamente con altre culture politiche e altre identità, una volta recuperata appieno la propria anche sul piano organizzativo?

Giovanni Graziani

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