Sembra paradossale che, nel momento in cui aumentano disaffezione al voto e astensionismo, la politica non trovi niente di meglio che abbassare il quorum strutturale alle elezioni e aumentare considerevolmente l’indennità di carica a sindaci e assessori, dando quasi l’impressione che la partecipazione alla vita pubblica sia questione così facilmente riconducibile alla vil pecunia. Questo è infatti già accaduto anche nel recente passato alle consultazioni amministrative del 2021 per i comuni fino a 15.000 abitanti: in presenza di una sola lista ammessa e votata, per dirla con la legge, risultano eletti tutti i candidati compresi nella lista e il candidato a sindaco collegato, a condizione che la stessa lista abbia riportato un numero di voti validi non inferiore al 50 % dei votanti e che il numero dei votanti non risulti inferiore al 40 % degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune. Senza che siano rispettate le due percentuali l’elezione è nulla. In più. Quale ulteriore agevolazione per facilitare il raggiungimento del già ribassato quorum, per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale, sempre e solo nei comuni fino a 15.000 abitanti, nel computo degli elettori non si tiene conto di quelli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) che non esercitano il diritto di voto.
Il suffragio universale per donne e uomini è stata una grande conquista, ma non lo si incoraggia certamente con provvedimenti estemporanei e dalla dubbia validità.
Senza troppo addentrarci nell’Italica e articolata legislazione elettorale, se si considera che nel 2022 i comuni italiani risultavano essere 7.901 di cui ben 5.534 al di sotto dei 5.000 abitanti, soprattutto nelle zone di montagna e nelle cosiddette “Aree interne”, si capisce, o meglio non lo si comprende affatto, come nello stesso contesto normativo, politico e sociale possano coesistere due pesi e due misure che creano nell’esercizio del voto così evidenti disparità fra i cittadini dello stesso Paese, in una materia così importante. Si tenga infatti presente che le elezioni regionali e politiche, a torto o a ragione considerate più significative di quelle nei piccoli comuni, pur in assenza di un quorum strutturale, risultano valide anche in presenza di percentuali inferiori a quelle, invece, ritenute inderogabili in altri contesti dello stesso, nostro, Stato di diritto. Questo crea diseguaglianze e agevola i mestieranti della politica che nei “piccoli numeri” sguazzano a loro piacimento.
In modo del tutto inspiegabile, tutto ciò avviene nel pressoché generale disinteresse e in un clima di apparente rassegnazione che però favorisce e incoraggia l’allontanamento di una parte determinante della cittadinanza dagli appuntamenti elettorali e da molti altri livelli di partecipazione, anche sociale. Da parte del legislatore e dei vertici dello Stato non sarebbe il caso di riconsiderare queste regole visto che spesso e volentieri la stragrande maggioranza dei cittadini non si reca alle urne ritenendo questo proprio diritto un ininfluente esercizio retorico? Non sfugge, in modo del tutto evidente, come questa assenza sia quel che si dice un segnale forte che non potrà ancora a lungo essere trascurato da una politica-politicante distratta e autoreferenziale. La stragrande maggioranza degli elettori, altrettanto evidentemente, ritiene che la sua rappresentanza politica abbia abdicato nei confronti degli impegni più volte assunti e la vede come un’insignificante appendice.
Che farsene di un corpaccione malandato, sempre più distaccato dai problemi quotidiani dei contribuenti e comunque ritenuto incapace di risolverli perché troppo “impegnato” dagli stucchevoli e ben conosciuti giochi di potere all’interno di un Palazzo che appare sempre più inadeguato e assente?
Claudio Baruffaldi

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