Geo Barents, l’ennesimo sbarco. Tanti sbarchi e tanti drammi, a cui la pubblica opinione sembra quasi essersi abituata, in una sorta di cronicizzazione della ruvidità delle emozioni. Ogni uomo e donna, adulto e bambino che parte, è portatore di una storia, di una fragilità pesante, di una croce. A tante croci, dovrebbero corrispondere tante risurrezioni, tanti sussulti individuali e collettivi, tante emozioni generate dal nostro essere umani. Però, non è così. Siamo immersi in una dimensione dove le moderne crocifissioni sono inspiegabilmente nello stesso tempo, moltiplicate e dimezzate. Moltiplicate perché i drammi aumentano; dimezzate, nella loro dimensione, perchè sembrano non far trasparire più le “risurrezioni”, le lezioni insomma che una croce dà per poi ripartire, ri-nascere, ri-cominicare, come se fossimo davanti, in un certo senso, a delle croci a metà.

I viaggi con la speranza che l’immigrazione dai drammi delle terre di origine comporta, fa però emergere una croce sottaciuta che non è sulle spalle di chi migra, ma di chi riceve i migranti: l’indifferenza di chi confonde l’ordine pubblico, e i flussi migratori, con l’umanità; la terribile impermeabilità alle emozioni di tanti uomini e donne, politici specchio di una parte dell’opinione pubblica che ne condivide le affermazioni disumane. Sì, è disumano (e non è semplicemente un uomo e una donna che la pensa diversamente da me), chi non coglie nel messaggio di quel bambino che sbarca e sogna di mangiare tutti i giorni la pizza italiana, la carica emotiva di quella speranza, ma anche l’orgoglio di essere italiani, di essere un sogno per uomini e donne di un paese diverso e lontano, la fierezza di rappresentare un grado di civiltà che viene negata tutte le volte che respingiamo l’idea dell’altro. Nemmeno la categoria dell’utilità riesce a rompere la disumanità di tanti decisori e presunti opinion leaders alla ricerca del consenso e del like, ma proiettati solo a diventare la spazzatura della storia. Sarebbe non solo civile, ma utile, infatti, avere nuova manodopera per i lavori che abbiamo scelto di non fare più (a torto o a ragione); nuova contribuzione previdenziale per pagare le nostre pensioni e quelle di chi le finanzia oggi (i più giovani) nella spirale cannibalistica che la previdenza obbligatoria ha generato per scelte scellerate e clientelari; nuovi nati per evitare uno spopolamento progressivo che non è annunciato, ma da tempo iniziato.

Questo drammatico quadro, semplificato attorno all’immagine di una cultura di sinistra che vuol ricevere a maglie larghe e di una di destra che vuole respingere a prescindere, non aiuta, ma semplifica e come tutte le semplificazioni paga l’approssimazione di politiche che non sanno affrontare alla radice il problema. E’ una semplificazione perché in fondo nessuno schieramento ha messo mai in campo la nettezza nel dire di essere favorevole ai flussi migratori. Probabilmente perché non paga elettoralmente, o più semplicemente perché il vecchio proverbio che l’ospite puzza dopo il terzo giorno, è il portato di una cultura diffusa, che prima di essere disumana è espressione della codarderia di chi, per non affrontare i problemi, li tiene lontani, ma di chi anche è affetto da una profonda forma di autismo sociale e politico, che fonda la propria felicità nel chiuso del proprio recinto. E scrivendo queste riflessioni mi domando, ma saremmo più contenti se nessuno intravedesse nel nostro Paese, il sogno americano che i nostri bisnonni intravedevano nei Paesi di emigrazione? E che contentezza sarebbe quella di una patria che non attrae, se non la risata isterica di una depressione sovranista?

Gianluca Budano

Ripreso da Huffingtonpost.it con l’autorizzazione dell’autore

 

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