La pandemia ha picchiato duro su lavoratori autonomi e professionisti; è necessario che la robusta e inaspettata crescita del Pil nel corso del 2021 si converta da semplice rimbalzo tecnico a crescita strutturale: questo il tema principale della presentazione del Rapporto 2021 sulle libere professioni in Italia, svoltasi a Roma giovedì 16 dicembre con la partecipazione della ministra Mariastella Gelmini, del presidente del CNEL Tiziano Treu e di membri di diverse commissioni parlamentari. Il Rapporto, giunto alla sua VI edizione, è realizzato da Confprofessioni, la principale associazione di rappresentanza di secondo livello dei professionisti in Italia, che raccoglie ventuno associazioni di categoria tra professioni ordinistiche e non regolamentate, per una platea di oltre un milione e mezzo di lavoratori qualificati. Il rapporto consegna una serie di dati statistici di tipo economico e occupazionale che danno una fotografia del lavoro professionale tutt’altro che scontata, sulla quale sarebbe opportuno si concentrasse la riflessione dei decisori politici ( CLICCA QUI ).

“Il mercato del lavoro ha sostanzialmente retto l’urto della pandemia, calando nel corso del 2020 di soli due punti percentuali – ha sottolineato Gaetano Stella, presidente nazionale di Confprofessioni – tuttavia gli ultimi dati ci confermano che stiamo assistendo a una riconfigurazione strutturale dell’occupazione in Italia, che penalizza autonomi e professionisti rispetto ai lavoratori dipendenti”. Se infatti i massicci interventi pubblici in risposta alla crisi pandemica e gli ammortizzatori sociali già esistenti hanno potuto frenare, almeno in parte, la caduta occupazionale e di reddito nel lavoro subordinato, più difficile è stata la tenuta del lavoro autonomo: un mondo variegato costituito da lavoratori parasubordinati, partite iva, studi associati, e strutturalmente meno tutelato in termini di garanzie previdenziali e di congruità dei compensi.

Complessivamente sono stati trentottomila i liberi professionisti in Italia che hanno cessato la propria attività nel 2020. I cali più vistosi si sono verificati nel settore immobiliare, finanziario e del commercio, per effetto del blocco delle attività imposte dal lockdown; le perdite più contenute si sono invece avute, come prevedibile, nel settore socio-sanitario e in quello delle consulenze tecnico-scientifiche. Disaggregando il dato nazionale per aree geografiche, si osserva invece con sorpresa che mentre in alcune regioni la decrescita del numero dei liberi professionisti è stata particolarmente forte (circa del dieci percento in Calabria e Friuli-Venezia Giulia, addirittura del venti percento in Valle d’Aosta), nel Centro-Sud e nelle Isole essi sono addirittura in aumento rispetto al dato del 2019, nonostante la congiuntura negativa segnata dal Covid-19. Questi valori, di per sé positivi, vanno però interpretati alla luce del minore impatto che la pandemia ha avuto nelle regioni centro-meridionali e della concentrazione dei liberi professionisti soprattutto nelle aree metropolitane del Centro-Nord.

Peraltro la sola variazione del numero di occupati nelle libere professioni non rende effettivamente la misura degli effetti della recessione economica del 2020, che balza agli occhi considerando invece il calo delle unità di lavoro annue (-13% per il lavoro indipendente, quattro punti percentuali in meno rispetto al corrispondente dato per il lavoro subordinato) e del reddito medio annuo (per i professionisti iscritti alla gestione separata Inps si calcola una variazione negativa del -5,7% tra il 2019 e il 2020).

Un altro dato apparentemente positivo contenuto nel Rapporto, ossia la riduzione del gap di genere nel mondo professionale, meriterebbe in realtà una chiosa: se la percentuale delle libere professioniste nei diversi settori di attività economica ha mantenuto un trend in crescita, ciò è dovuto anche alla decrescita annuale dei nuovi iscritti maschi agli albi/ordini professionali.

Lo shock della crisi pandemica costituisce un evento eccezionale e imprevisto che si inserisce però in una tendenza di medio-lungo periodo che ha visto una riduzione, non solo in Italia, della percentuale di lavoratori autonomi, visibile in parte anche nelle professioni ordinistiche con un calo dei partecipanti agli esami di abilitazione. Oggi i neolaureati, che costituiscono il bacino d’elezione per la libera professione, tendono a preferire contratti di tipo dipendente, anche accettando mansioni sotto inquadrate o non corrispondenti al proprio percorso di studi, oppure spostandosi nelle grandi aree metropolitane del Centro-Nord, o anche all’estero.

Ma il dato forse più negativo è quello che riguarda gli studi professionali che occupano personale dipendente, il 7% dei quali ha cessato l’attività. È evidente come in capo ai professionisti rimangano ancora troppi adempimenti e costi aggiuntivi di carattere organizzativo. Alla tanto sbandierata digitalizzazione aziendale e delle pubbliche amministrazioni non ha del resto corrisposto un alleggerimento degli obblighi burocratici.

La difficile congiuntura dell’ultimo biennio ha mostrato da una parte le grandi capacità di resilienza del mondo delle libere professioni, dall’altro la sperequazione ancora esistente tra il welfare del lavoro dipendente e quello del lavoro autonomo, nonostante l’introduzione di alcune misure di interesse per i professionisti contenute sia nella decretazione emergenziale succedutasi nel corso del 2020 sia nella legge di bilancio per il 2021 (in particolare: l’istituzione del fondo per l’esonero dal pagamento dei contributi previdenziali dei lavoratori autonomi e l’istituzione dell’indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa o ISCRO).

Negli ultimi due decenni il mondo del lavoro ha dovuto affrontare una serie di eventi imprevisti che hanno messo in discussione la supremazia del mercato come unico regolatore dei meccanismi economici e riportato prepotentemente in primo piano l’intervento dello Stato e degli altri attori pubblici: la crisi finanziaria del 2008-2011 e i suoi effetti sull’economia globale; la virata protezionistica dell’economia statunitense durante l’amministrazione Trump; la difficoltà a governare gli effetti delle tecnologie digitali sul mercato del lavoro; infine la pandemia, con i suoi clamorosi risvolti sulle modalità di lavoro e le forzate interruzioni di quasi tutti i settori dell’economia.

Da una parte il meccanismo dei ristori e di reddito minimo garantito (reddito di cittadinanza, ISCRO etc.) e l’ingente intervento finanziario previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza o PNRR, dall’altra la crisi che ha colpito alcuni settori tradizionali come il commercio e penalizzato le realtà imprenditoriali più piccole, stanno disegnando un mercato del lavoro sempre più “assistito” dall’intervento pubblico e nel quale l’iniziativa economica del singolo trova sempre minore spazio per affermarsi. In questo contesto i professionisti e i loro organi di rappresentanza si pongono naturalmente come delle preziose sentinelle a baluardo della libertà di impresa, del primato del capitale umano sul capitale finanziario e del lavoro sul profitto, della mutua solidarietà all’interno di una stessa categoria.

In questa prospettiva c’è da augurarsi che il coinvolgimento dei liberi professionisti nel PNRR, in particolare attraverso il piano di reclutamento di personale a tempo determinato e collaboratori esterni per le pubbliche amministrazioni coinvolte nel piano, non ingeneri conflitti di interesse tra contratti di lavoro subordinato nel pubblico, esercizio della libera professione e permanenza negli albi, come già paventato da alcuni ordini professionali.

Roberto Knobloch

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