Giustizia. Purtroppo l’esame dei quesiti proposti fa sorgere dubbi nel raffronto fra intenzioni e risultati. Di Alfredo Mantovano, da Tempi mensile, e pubblicato su Centro Studi Rosario Livatino ( CLICCA QUI )

Che la via dell’Inferno sia lastricata di buone intenzioni non lo sosteneva soltanto San Bernardo, né lo richiamava solo San Francesco di Sales: era una tesi cara anche a Karl Marx, che con l’Inferno qualche dimestichezza ha mostrato di averla, se non altro perché ha descritto come Paradiso quello che poi si è rivelato una bolgia.

Come che sia, le buone intenzioni poste a base dei sei quesiti referendari “per la giustizia giusta” ci sono tutte: proposti dal Partito radicale e dalla Lega, per essi è iniziata da qualche giorno la raccolta di firme, che si concluderà il 30 settembre. Chi oggi può esprimere riserve sulla responsabilità dei magistrati per loro condotte contrarie, oltre che al codice penale, ai principi deontologici? Chi, a 32 anni di distanza dall’operatività di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte, se pure pubblica, può ragionevolmente contrastare la separazione delle carriere fra P.M. e giudicanti? E chi, a fronte delle allucinanti esperienze di privazione della libertà personale, può affermare che si tratti di errori fisiologici, e non invece di un meccanismo che non funziona? E come non possono condividersi gli obiettivi di rendere la vita meno angosciante per i pubblici amministratori, per una riduzione del peso correntizio nel CSM e per un maggior coinvolgimento di avvocati e personale ausiliario nell’amministrazione della giustizia?

Purtroppo l’esame dei quesiti proposti e la considerazione di quel che la loro approvazione provocherebbe realmente fa sorgere dubbi nel raffronto fra intenzioni e risultati. Dipende in parte dalla natura dello strumento del referendum, esclusivamente abrogativo: quindi inadeguato ad affrontare questioni complesse, per le quali l’operazioni del ‘togliere’, per quanto chirurgicamente esercitata, non sempre permette di ottenere qualcosa che regga.

Si pensi alla separazione delle carriere. Il lunghissimo quesito per un verso è inutile, perché abroga disposizioni non più operative da anni, per altro verso preclude il passaggio dalla funzione di P.M. a quella di giudice, e viceversa. Peccato però che, a referendum approvato, il concorso di magistratura resterebbe unico, e unico rimarrebbe il CSM: il concorso unico per carriere separate è una contraddizione, e si traduce in una fonte di ingiustizia; poiché la sede di prima assegnazione deriva dalla posizione in graduatoria del vincitore del concorso, mano mano che si scende nella graduatoria il neo magistrato si trova obbligato ad accettare di svolgere una funzione che resterà tale a vita.

Vi è un referendum oggettivamente inaccettabile: quello sulla custodia cautelare. È noto che le limitazioni della libertà della persona prima della sentenza definitiva sono consentite a condizione che vi siano gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato per il quale si procede, che il massimo di pena irrogabile superi determinati limiti, correlati alla misura che si intende applicare, e infine che sussista almeno una delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 del codice di procedura penale.

Il quesito non colpisce le esigenze costituite dal pericolo di inquinamento delle prove e dal rischio di fuga dell’indagato. Colpisce il pericolo di reiterazione del reato: a referendum approvato esso permarrebbe per i reati di mafia, di terrorismo, o commessi con armi o altri mezzi di violenza personale, ma resterebbero sguarnite di ogni tipo di misura cautelare condotte come la rapina o l’estorsione, se poste in essere senza armi e senza mezzi di violenza personale, per es. ricorrendo alla ‘sola’ minaccia, o come la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnate dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, o come delitti anche gravi contro la pubblica amministrazione o contro l’incolumità pubblica. L’arresto in flagranza per queste tipologie di reati sarebbe immediatamente seguito dalla remissione in libertà dell’arrestato, se nei suoi confronti la sola esigenza cautelare in concreto ipotizzabile fosse il rischio di reiterazione del reato; naturalmente la polizia giudiziaria eviterebbe di catturare l’autore, pur se colto sul fatto, poiché la prospettiva di vederlo liberamente circolare a distanza di poche ore non costituirebbe un incentivo a lavorare con alacrità. Uno degli slogan della campagna referendaria è la certezza della pena: è con evidenza contraddetto dall’esito cui si perverrebbe col successo di questo referendum.

Vi è un quesito che si potrebbe definire ‘acqua fresca’: è quello che riguarda le modalità di presentazione delle candidature per l’elezione dei componenti togati del C.S.M. Per effetto dell’abrogazione, non sarà più necessario accompagnare la candidatura con una lista di presentatori: resta misterioso come questo incida sul sistema correntizio. Se un magistrato appartiene a una corrente, che cosa cambia se si candida con o senza firme a supporto? Analoghe considerazioni, di inutilità o di pasticcio come esito, attengono agli altri quesiti: per ulteriori dettagli rinvio alla trattazione che ne è stata fatta su www.centrostudilivatino.it

Resta un nodo politico, anzi quattro:

  1. i referendum sono appoggiati da un partito presente con propri ministri nel governo in carica, e nella maggioranza che lo sostiene: da una posizione simile ci si attende che siano formulate proposte di riforme e sostegno del loro iter parlamentare, e che tali riforme riguardino anzitutto l’architettura costituzionale, in particolare l’assetto del C.S.M. Se il quesito sulla separazione delle carriere fosse ammesso e approvato, resterebbe invariata la sottoposizione dei giudici, quanto a progressione, incarichi e disciplina, a organi composti anche da pubblici ministeri, e viceversa, con un incremento della confusione. E la modifica della Costituzione può avvenire solo in Parlamento;
  2. all’argomento che l’attuale eterogenea maggioranza, diversificata al proprio interno proprio sulla giustizia, fa sì che i referendum siano uno sprone per le riforme, è agevole replicare che, quand’anche i quesiti fossero ritenuti ammissibili e approvati, si dovrebbe tornare in Parlamento per i necessari aggiustamenti: tanto vale, allora, dare spazio subito allo sforzo propositivo e costruttivo del confronto parlamentare, invece che cercare soluzioni più semplici solo in apparenza;
  3. la giurisprudenza della Corte costituzionale sull’ammissibilità dei referendum fa ritenere probabile che taluni di essi alla fine non verranno ammessi. Il che vuol dire che, per es., su separazione della carriere e su responsabilità dei magistrati, il solo effetto che questa iniziativa causerà sarà una perdita di tempo: quel tempo che ben potrebbe essere impiegato da subito per il confronto in Parlamento;
  4. contestualmente alla raccolta delle firme per i referendum sulla giustizia è partita analoga raccolta, su iniziativa dell’Associazione Luca Coscioni, per il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia. È proprio da escludere che – vista la vicinanza fra tale Associazione e il Partito radicale – la richiesta di sottoscrizione non sia proposta dai medesimi banchetti, o almeno da una parte di essi? Col risultato che il richiamo alla “giustizia giusta” diventi il traino per la morte vera.

Alfredo Mantovano

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