PARTITO INSIEME

DIPARTIMENTO DELLE POLITICHE INDUSTRIALI

(Coordinatore Roberto Pertile)

 

 

 

 

 

III° QUADERNO 2022/2023

 

 

-“A questa economia non piace la persona umana”

-“Prospettive economiche”

-“Il mondo del lavoro al femminile”

 

 

 

 

 

 

Roma, maggio 2023

 

INDICE

  • Prima parte
    1. Questa economia non ama la persona umana di Daniele Ciravegna
    2. Un’economia che snobba la persona umana: che fare? di Vera Negri Zamagni
    3. Alcuni appunti di riflessione: il denaro uccide, invece di servire di Roberto Pertile

 

  • Seconda parte:
    1. PNRR: criticità e prospettive di Danilo Ciravegna
    2. L’Unione Europea, la guerra in Ucraina, il gas di Maurizio Cotta
    3. Conseguenze economico-politiche della guerra russa in Ucraina di Giuseppe Sarno
    4. Il mercato del gas: un fatto politico di Roberto Pertile
    5. Verso un Capitalismo democratico di Roberto Pertile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

L’ECONOMIA CHE UCCIDE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUESTA ECONOMIA NON AMA LA PERSONA UMANA

di Daniele Ciravegna

 

Questa economia non snobba il lavoro, poiché non può farne a meno. Anche in futuro non potrà snobbare il lavoro: anche quando i robot saranno assai più presenti di oggi, il lavoro sarà comunque determinante. La stessa intelligenza artificiale è e sarà una modalità di accelerazione dei processi razionali dell’intelligenza umana, quindi del lavoro umano.

Questa economia non può fare a meno del lavoro, ma lo ama?

Se si prendono in considerazione gli indicatori economici cui più comunemente si fa riferimento: fatturato, valore aggiunto, capitale, profitto, PIL ecc.; leader nelle argomentazioni degli economisti e, ancor più, di politici e giornalisti. Si parla anche di tassi di disoccupazione e di occupazione, ma sovente quali indicatori di rilevanza secondaria e senza approfondimenti di natura qualitativa, cioè non considerando la qualità dell’occupazione (livelli di qualificazione, durata e stabilità delle posizioni lavorative), che è l’aspetto più rilevante.

Eppure al centro dell’impresa c’è la persona umana; c’è il lavoro, che vede esaltata la sua produttività quando può utilizzare capitale efficiente. In verità, quest’ultimo è supervalutato nella sua presenza e ciò può essere spiegato col fatto che la nostra economia è figlia delle diverse rivoluzioni industriali, per la cui implementazione abbisognava che al lavoro si affiancasse sempre nuovo e più capitale artificiale, in presenza di lavoro relativamente abbondante.

Poiché, quando si tratta di combinare fattori differenti, il più rilevante è quello relativamente scarso, si è creato un ambiente culturale in cui il capitale è venuto ad essere considerato più rilevante rispetto al lavoro e il risparmio (reddito non consumato, a cui corrisponde prodotto non destinato al consumo, ma all’accumulazione di capitale) è venuto assumendo la posizione di fattore produttivo più rilevante (in quasi tutto il mondo si celebra la Giornata del Risparmio!). Posizione positiva che non c’è se il risparmio è sovrabbondante rispetto al capitale che s’intenderebbe accumulare. In questo secondo caso, il risparmio (investimento offerto) dovrebbe ridursi (per effetto dell’aumento del consumo) per equilibrarsi con l’investimento desiderato).

Però il lavoro è non solo fattore primario per l’attività produttiva, con ricadute oggettive e materiali, bensì anche per la sua dimensione soggettiva, in quanto permette l’espressione della persona umana e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo. Il lavoro è necessario e rilevante non solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e per l’inclusione sociale, tenendo presente che possono essere vissuti rapporti autenticamente umani di amicizia e di solidarietà anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né, di sua natura, disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.

Per chi condivide i valori della Dottrina sociale della Chiesa (DSC), il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.

Dai contenuti di diversi documenti che formano la DSC (in primis, la lettera enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Laborem Excenses, 1981), l’etica del lavoro porta alla seguente sequenza etica: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunitàl’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.

Questo ovviamente solo se si tratta di lavoro libero, decente, creativo, partecipativo e solidale; con una sola espressione: lavoro dignitoso, come ci dice la Dottrina sociale della Chiesa. Se è dignitoso, il lavoro permette di realizzare l’autonomia del lavoratore/lavoratrice; la persona partecipa allo sviluppo economico, sociale, culturale della società; dà prova dei propri talenti. Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, perché non di solo lavoro vive l’uomo.

Sopra ho voluto sottolineare la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone nell’Amazzonia o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone!) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, anche con riferimento all’ambiente naturale, cioè siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.

L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle.

In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona. Occorre il superamento della tesi che vi sia separazione tra etica ed economia, che prima viene l’efficienza economica e poi la valutazione della bontà sociale di quello che si è prodotto, o che si va a produrre, e della giustizia sociale nella ripartizione dello stesso prodotto.

Vi è ancora un altro punto assai rilevante, poiché il lavoro si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi, ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.

Concludendo, se l’economia declinasse l’impiego del lavoro lungo le linee direttrici suddette, si potrebbe dire che, sì, l’economia ama la persona umana.

 

 

 

 

 

 

UN’ECONOMIA CHE SNOBBA LA PERSONA UMANA. CHE FARE?

SINTESI DELL’INTERVENTO AL SEMINARIO DI INSIEME

di Vera Zamagni

 

L’economia in cui viviamo “snobba” la persona umana sul lavoro, perché la considera una “risorsa” da sfruttare ai più bassi costi per produrre profitti per gli azionisti e remunerazioni stellari per gli alti livelli della dirigenza. Di ciò hanno parlato i colleghi. In questo intervento mi sono riproposta di mostrare come questa economia snobbi la persona umana non solo in quanto lavoratore, ma anche in quanto consumatore. Mentre il lavoro è sempre esistito ed è sempre stato sfruttato, nelle nostre società “affluenti” la persona è diventata ad un tempo lavoratore e consumatore.  La possibilità di esercitare un potere d’acquisto è stata a lungo riservata esclusivamente alle numericamente ristrette classi abbienti, perché tutti gli altri sopravvivevano a livello di sussistenza. Chi non ricorda il famoso film “L’albero degli zoccoli”, dove persino possedere un paio di zoccoli era un lusso negato? Oggi invece la persona come consumatore è diventata dominante.

Ora, per sfruttare il consumatore occorre continuamente diversificare i consumi, incentivando le persone all’acquisto di prodotti e servizi sempre nuovi per evitare di giungere alla “saturazione” del mercato. Ma come fare ad ottenere prodotti e servizi sempre nuovi continuando ad utilizzare processi produttivi industriali? Ricorrendo all’artificiale. L’artificiale è entrato nelle nostre vite in maniera massiccia, perché ha i suoi versanti positivi, Quando Giulio Natta e il suo collega tedesco Karl Ziegler hanno inventato la plastica, un materiale artificiale che ha sostituito tanti materiali naturali, di sicuro non si sono preoccupati del fatto che la plastica non è biodegradabile e quindi produce montagne di rifiuti indistruttibili. Ma questo non è che uno degli esempi dei tanti prodotti artificiali a cui ci siamo abituati, molti dei quali altamente inquinanti perché bruciano benzina, gasolio, carbone, senza che si fosse fatto attenzione ai versanti negativi di tali prodotti.

Dalla produzione di beni di consumo artificiali si è passati alla sostituzione del lavoro con “lavoratori artificiali”, i robot, che hanno portato benefici alleviando la fatica dei lavori pesanti e nocivi per la salute umana, ma stanno ora progressivamente sostituendo anche lavoro “normale”, creando una corsa continua ad aggiornare i lavoratori perché interagiscano con sempre nuove macchine e nuovi programmi elettronici. Ora, se i benefici di questa sostituzione dei lavoratori venissero equamente distribuiti, si avvererebbe la profezia di Keynes che già nel 1931 aveva scritto che le macchine avrebbero portato ad una liberazione di tempo del lavoratore, da dedicare ad attività più appaganti. Ma se i profitti verranno distribuiti solo ai proprietari di robot, i lavoratori rimasti dovranno sempre spendere la loro vita al lavoro per i medesimi tempi di prima, mentre quelli spiazzati si dovranno accontentare di qualche “reddito di cittadinanza”.

La tendenza a questa “sostituzione” del lavoratore sta arrivando ai suoi estremi con la cosiddetta “Intelligenza Artificiale (IA)”, di cui non sono un’esperta, ma che cito qui per far riflettere sul suo significato: saranno capaci gli algoritmi di sostituire anche la progettazione umana e magari pure la coscienza? Ovvero di sostituire la persona umana, non solo il lavoratore? E ciò sempre a beneficio dei pochi possessori delle società di IA? Uno scenario a dir poco apocalittico.

Ma c’è chi ci sta proponendo anche un’altra versione di questa “vita artificiale” attraverso il metaverso: ci si può costruire un’identità artificiale, un avatar che ci piace di più del nostro io “naturale”, e lanciarsi sui media, con effetti che talora portano al suicidio. Ma si può anche restare con la propria identità andando nel metaverso ad acquistare proprietà artificiali, oggetti d’arte artificiali, interazioni artificiali, costruendosi una seconda vita che ci “ruba” la vita vera, perché ci fa occupare del tempo fuori da essa (il tempo, infatti, è oggi la risorsa più scarsa per le persone dei paesi affluenti, perché così tanti sono i possibili modi per impiegarlo dal punto di vista quantitativo che il tempo non basta mai). Fino ad arrivare a chi progetta di vivere in mondi “artificiali” fuori dalla terra (luna, Marte).

Infine, la persona umana stessa viene “artificializzata” non solo con parti di corpo artificiali, che spesso possono essere di aiuto, ma anche alterando il DNA, inserendo sensori, facendo trattamenti in camere bariche, trattamenti estetici, talora utili per correggere inestetismi vari, ma spesso devastanti, intervenendo sul sistema riproduttivo per facilitare la famiglia “artificiale”.

Non ho certamente esaurito tutte le potenzialità di questo “artificiale” che ci ingombra la vita, ma credo di avere detto l’essenziale per arrivare a un paio di conclusioni. La prima è che l’entusiasmo per l’artificiale non saggiamente amministrato distoglie l’attenzione dalla conservazione del naturale, che tende a rivoltarsi contro l’umano che sta tentando di distruggerlo. Abbiamo sotto gli occhi il forte peggioramento dell’ambiente e l’infelicità crescente delle persone, che perdono la loro identità e il loro scopo di vita. Se è vero, come si afferma, che la felicità sta nelle relazioni tra persona e persona l’artificiale diminuisce e distorce fortemente queste relazioni, proponendo l’interazione fra la persona umana e la macchina, fino a produrre hikikomori, ossia persone che si relazionano solo con la macchina, di cui diventano schiavi. La seconda conclusione è che stiamo correndo verso una doppia schiavitù, perché, oltre a diventare schiavi delle macchine, diventeremo schiavi anche di chi possiede le macchine, se non si provvede a limitare profondamente l’attuale legislazione che rende ultraricchi i detentori del nuovo capitale che produce l’artificiale. E’ scritto nella Bibbia che ci sarà la fine del mondo, e le raffigurazioni che ne vengono date insistono sul disfacimento della natura. Ma c’è un altro disfacimento che raramente viene rilevato: quello dell’uomo stesso.

 

 

ALCUNI PUNTI DI DIBATTITO SUL TEMA “L’ECONOMIA NON AMA LA PERSONA UMANA”

di Roberto Pertile

 

  • Al centro di qualsiasi sistema economico ci deve essere la felicità dell’uomo; tutto al servizio di questo obiettivo.
  • Ora, al centro del sistema c’è il “Dio denaro”.
  • Schumpeter ha sostenuto che il capitalismo può consolidare la pace. Questa affermazione sembra contraddetta dalla guerra Ucraina-Russia (terza guerra mondiale a pezzi).
  • Papa Francesco dice no a questa economia, che, anche con la guerra e non solo, ignora il bene del prossimo, economia che nega la solidarietà; un’economia che uccide.
  • Modelli economici equi e giusti: ci sono? Il modello di capitalismo di quest’epoca storica è sostenibile?
  • Con l’avvento della iper-globalizzazione l’economia diventa il regno dei fini e la politica il regno dei mezzi: un’inversione radicale dei ruoli.
  • La finanziarizzazione internazionale dell’economia riduce di molto il ruolo del lavoro (economia reale). L’economia speculativa non ha bisogno di significativi investimenti nel fattore lavoro. Il denaro produce denaro, non c’è un’attività sottostante di trasformazione manifatturiera. C’è un interesse prevalente a creare ricchezza non dal lavoro, bensì dal denaro.
  • Papa Francesco: la crisi è di identità di valori. Si invoca la totale libertà del mercato. Si difende l’autonomia assoluta dei mercati (soprattutto finanziari – crisi del 2008). Non prevale, invece, uno scopo di crescita dell’uomo. Il denaro governa, invece di servire. (rif. Tornielli – Galeazzi. Papa Francesco Ed. Piemme).
  • Una trasformazione del sistema economico passa attraverso lo sviluppo di nuove alleanze politiche e sociali a livello internazionale.

L’attuale crisi può essere promotrice di movimenti sociali e politici.

  • Va preso atto che l’innovazione e la globalizzazione hanno creato una frattura tra la crescita economica e la solidarietà sociale; una frattura a favore del capitale, non accettando il principio che il mercato del lavoro è una “istituzione sociale”.
  • Il capitalismo non è unico, non c’è solo il neoliberismo. Le forme possono essere molteplici. E’ possibile progettare una società capace di ridurre drasticamente le disuguaglianze, nonché il sentimento di ingiustizia sociale.
  • Una condizione: gli italiani sappiano sostenere le vere riforme, che sono profonde e impopolari, perché i loro effetti positivi si manifestano nel lungo periodo (logica opposta a quella dei sostegni a pioggia)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

PROSPETTIVE ECONOMICHE

 

 

 

PNRR: CRITICITÀ E PROSPETTIVE (Gennaio 2023)

di Daniele Ciravegna

 

 

 

  1. Sguardo d’insieme

L’analisi che segue riguarda principalmente alcuni aspetti della valutazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) inviato dal Governo italiano alla Commissione europea, a fine aprile 2021. Ciò non può essere fatto se non si hanno presenti gli elementi qualitativi del Programma Next Generation EU, per la cui realizzazione sono stati varati i PNRR in parola.

Questi elementi qualitativi possono essere trovati nel Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio (Regolamento 2021/241 del 12.02.2021) che ha costituito il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (DRR), il quale, all’art. 3, prevede le aree d’intervento di pertinenza europea strutturate in sei pilastri:

  1. a) transizione verde, cui destinare non meno del 37 per cento del totale delle risorse del PNRR;
  2. b) trasformazione digitale, cui destinare non meno del 20 per cento del totale delle risorse del PNRR;
  3. c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, che comprenda coesione economica, occupazione, produttività, competitività, ricerca, sviluppo e innovazione, mercato interno ben funzionante con PMI forti;
  4. d) coesione sociale e territoriale;
  5. e) salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, al fine, fra l’altro, di rafforzare la capacità di risposta alle crisi e la preparazione alle crisi;
  6. f) politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze.

Inoltre, all’art. 4 viene indicato che «obiettivo generale del Dispositivo è promuovere la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione migliorando la resilienza, la preparazione alle crisi, la capacità di aggiustamento e il potenziale di crescita degli stati membri, attenuando l’impatto sociale ed economico della crisi COVID-19, in particolare sulle donne, sostenendo la transizione verde, contribuendo all’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali, sostenendo la transizione verde, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Unione per il 2030 […] nonché al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica dell’UE entro il 2050 e della transizione digitale, contribuendo in tal modo alla convergenza economica e sociale verso l’alto, a ripristinare e a promuovere la crescita sostenibile e l’integrazione delle economie dell’Unione e a incentivare la creazione di posti di lavoro di alta qualità nonché contribuendo all’autonomia strategica dell’Unione unitamente a un’economia aperta e generando un valore aggiunto europeo». Semplice e chiaro, no?

I PNRR dei singoli paesi hanno potuto aggiungere altri obiettivi rafforzativi rispetto ai sei pilasti predetti, come il PNRR italiano che ha indicato, quale priorità trasversale, che il Piano destini mediamente il 40 per cento delle risorse al Mezzogiorno.

  1. Criticità

La prima criticità riguarda la grave scarsità delle informazioni indispensabili per monitorare e valutare la realizzazione del PNRR (vedi il mio “Maggiore trasparenza nell’attuazione del PNRR”, in Politica Insieme, 11.12.2022).

Una recente nota di L. Rizzo, R. Secomandi e A. Zanardi (Lavoce.info, 21.01.2023) permette di ampliare il quadro delle deficienze presenti in questo contesto.

Premetto che la realizzazione del PNRR dev’essere monitorata da due diverse prospettive. La prima è quella del raggiungimento dei milestone (“traguardi”, di natura qualitativa) e dei target (“obiettivi”, di natura quantitativa) semestrali programmati, a cui si collegano le scadenze per l’erogazione delle rate di finanziamento da parte della Commissione Europea. Da questo punto di vista, a inizio del 2023, il PNRR italiano non risulta pienamente attuato: le condizioni relative alle scadenze del secondo semestre del 2022 non sono state tutte soddisfatte. Secondo il monitoraggio effettuato da Openpolis – “fondazione romana senza fini di lucro produttrice di dati di qualità per la comunità e le istituzioni”, che ha attivato il progetto OpenPNRR e produce una newsletter dedicata – a inizio 2023, 14 scadenze europee, sulle 55 previste per il secondo semestre 2022, risultano ancora non completate. L’incompletezza di molte di queste scadenze può essere spiegata da motivi legati alle tempistiche burocratiche e amministrative e ai loro difetti. Altre scadenze richiedono l’effettiva realizzazione di interventi, ma il mancato accesso ai documenti non permette di risalire alle cause delle inadempienze operative. Per un motivo o per l’altro non è stato possibile dichiarare il completamento della scadenza, quindi l’avvio della richiesta e il rilascio delle risorse PNRR (3^ rata per 21,8 miliardi di euro).

A questo proposito, val la pena di annotare che la Commissione europea finora ha valutato con una certa flessibilità l’operato dell’Italia sul PNRR: è più politico che tecnico e ciò è stato evidente nei confronti del Governo Draghi. Si tratta di vedere se continuerà nei confronti del nuovo Governo.

La seconda prospettiva è appunto il confronto tra le spese programmate con le risorse del DRR e le spese effettivamente realizzate o che si prevede di realizzare nell’arco degli anni 2020-2026. La predetta nota pubblicata su Lavoce.info mette in evidenza, per quello che è possibile, la discrepanza fra le spese programmate e quelle realizzate nel triennio 2020-2022: si tratta di valori globali e le prime superano le seconde per 26,7 miliardi di euro, che si programma di recuperare negli anni 2024-2026. Secondo la stessa fonte, la NADEF (“Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza”) del 2022 e la “Seconda relazione sullo stato di attuazione del PNRR” di Italiadomani (5.10.2022) motivano i predetti slittamenti della spesa con due ordini di considerazioni. «La prima è che le spese effettivamente realizzate sono in realtà maggiori di quelle contabilizzate per i ritardi di registrazione nel sistema Regis, l’infrastruttura progettata dalla Ragioneria Generale dello Stato per la gestione e il monitoraggio del PNRR, che è ancora largamente incompleta. La seconda, più sostanziale, è che la concreta attuazione dei progetti del PNRR si sta rivelando più complessa del previsto: il ritardato avvio di alcuni progetti riflette, oltre ai tempi di adattamento alle procedure innovative del PNRR, gli effetti dell’impennata dei costi delle opere pubbliche.

«Sarebbe assai interessante capire in quali aree d’intervento si concentrano di più le criticità e quindi i ritardi delle erogazioni effettive. Purtroppo le informazioni ufficiali riportano soltanto dati aggregati sulla spesa finora realizzata e sulle previsioni, senza alcuna articolazione per missioni/componenti/investimenti».

  1. Prospettive

In presenza di forte carenza di informazioni circa il già realizzato, diventa difficile fornire chiare prospettive per il futuro, che saranno condizionate dai rinvii al futuro delle minori spese effettive rispetto a quelle programmate del passato. La predetta “Seconda relazione di Italiadomani sullo stato di attuazione del PNRR” fornisce dati in proposito, secondo il profilo programmatico, sempre a livello estremamente aggregato e con riferimento alle sole risorse del DRR:

ANNI                                       UTILIZZO RISORSE (in miliardi di euro)

2020-21                                                         5,5

2022                                                             15,0

2023                                                              40,9

2024                                                              46,5

2025                                                              47,7

2026                                                              35,9

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TOTALE                                                        191,5

 

Sarebbero quindi i 4 anni finali quelli maggiormente coinvolti nella realizzazione della mole di realizzazioni del PNRR. In questi anni si avrà una rilevante spinta dal lato della domanda e dell’offerta (per effetto degli investimenti che saranno fatti con l’attuazione del Piano stesso). Secondo le proiezioni del modello econometrico del MEF – fatte proprie dal Presidente Draghi nella Premessa all’ultima versione del PNRR italiano – le risorse impiegate del PNRR dovrebbero portare il PIL del Paese, nel 2026, a un livello di 3,6 punti percentuali più alti rispetto all’andamento tendenziale (senza PNRR) e, nel triennio 2024-26, il livello dell’occupazione aggregata dovrebbe essere più alto di 3,2 punti percentuali.

Ma i predetti risultati previsti non potranno non scontare le rilevanti variazioni intervenute nel contesto economico mondiale successivamente al 2021. Mi riferisco alla crisi del fenomeno della globalizzazione economica, all’emergere di conflitti economici fra le diverse macroaree, al sorgere di rilevanti spinte inflazionistiche nelle diverse economie.

Voglio soffermarmi sull’ultimo evento, l’inflazione dei prezzi, considerata da molti, anche con cultura economica non bassa, come la più grave malattia dell’economia. Tra questi troviamo anche Christine Lagarde, Presidente della BCE, la quale – peraltro non scevra di dichiarazioni ad effetto, che poi talvolta si rimangia – ha dichiarato recentemente che la BCE deve mettere in atto una rilevante politica monetaria restrittiva per portare l’inflazione nell’Eurozona sotto il 2 per cento annuo, con ciò mostrando di voler seguire alla lettera la politica della stabilità monetaria soprattutto, che era stata proprio di un suo predecessore, Jean-Claude Trichet, ma non del suo immediato predecessore, Mario Draghi.

Lagarde appartiene al filone di pensiero monetaristico secondo il quale le banche centrali devono interessarsi solamente della stabilità dei prezzi e, per far ciò, devono essere del tutto indipendenti dai governi delle nazioni (isolate o consociate). Unico caso a livello macroeconomico in cui un organismo pubblico è sottratto all’influenza di un qualche Governo.

Nello statuto della BCE è scritto che il suo scopo principale è mantenere la stabilità dei prezzi. Fatta salva la stabilità dei prezzi, la BCE e le banche centrali dell’Eurozona possono muoversi, in modo del tutto autonomo, nella ricerca di una crescita equilibrata e competitiva che punti alla piena occupazione e al progresso sociale. Se si guarda allo statuto della Federal Reserve statunitense, si scopre che, invece, il primo compito della sua politica monetaria è la massima occupazione, seguito dalla stabilità dei prezzi e da tassi d’interesse moderati nel lungo periodo.

Ora, è certamente vero che l’inflazione dei prezzi, se ha un certo livello e una certa durata, può influire sulle aspettative inflazionistiche in modo tale da rendere difficile o impossibile – se non cambiando la moneta – il rientro dall’inflazione stessa, ma la preoccupazione per quest’ultimo fatto ha sottostante il pensiero che l’inflazione sia, di per sé, un fenomeno negativo da evitare a qualsiasi costo e che la via per il rientro debba passare attraverso la restrizione monetaria che crea restrizione della domanda aggregata.

L’aumento dei prezzi è indubbiamente fonte di disagio poiché fa variare il potere d’acquisto della moneta; cioè, in un’economia nella quale le transazioni economiche e finanziarie vengono definite in termini monetari, fa variare l’unità di misura adottata, creando confusione. Se ogni anno il metro con cui si misurano le distanze fosse ridefinito, riducendone o aumentandone la lunghezza, si creerebbero confusione e inconvenienti: nel misurare una distanza sarebbe infatti indispensabile specificare se la misura è in metri del 2020 o in metri del 2021 o in metri del….. Analogamente, il metro monetario diventa un’unità di misura poco utile e genera confusione quando il suo potere d’acquisto varia continuamente nel corso del tempo.

Dato per assodato questo costo dell’inflazione dei prezzi, abbiamo che ne esistono altri, i quali sono differenti a seconda che l’inflazione sia prevista o imprevista. Se l’inflazione fosse prevista, se ogni aumento dei prezzi dei beni acquistati fosse compensato da un uguale aumento dei redditi, se tutti i redditi fossero, per così dire, pienamente indicizzati ai prezzi, l’unico effetto dell’inflazione sarebbe quello di moltiplicare tutti i prezzi e tutti i redditi nominali moltiplicandoli per un fattore maggiore di 1, senza influire in alcun modo sulle grandezze reali (a parte i cosiddetti costi di revisione dei menù, dati dal consumo di risorse reali derivante dall’aggiornamento dei prezzi, dalla revisione dei cataloghi di vendita, dalla riprogrammazione delle macchine distributrici di prodotti e dalla rinegoziazione delle remunerazioni, a meno che queste ultime siano perfettamente indicizzate all’andamento dei prezzi.

L’inflazione dei prezzi non è comunque un fenomeno caratterizzato da prezzi e da redditi che aumentano tutti nella stessa misura e in modo perfettamente previsto; anzi, tanto più la media dei prezzi aumenta tanto più ne aumenta anche la varianza. I prezzi relativi vengono quindi a essere alterati in modo rilevante durante i periodi inflazionistici e tanto più quanto maggiore è l’inflazione. Viene così fortemente ridotta l’efficienza del meccanismo dei prezzi, il che provoca probabilmente distorsioni nell’allocazione delle risorse fra le diverse produzioni. Inoltre, all’aumentare del tasso medio d’inflazione, solitamente cresce la volatilità delle variazioni di mese in mese, con il che aumenta il rischio delle scelte di investimento e di produzione e, a meno che gli imprenditori siano propensi al rischio, ciò creerebbe intoppi alla crescita economica. Ma questa possibile correlazione di segno negativo fra inflazione e crescita economica non è comunque robustamente confermata sul piano empirico.

Poiché l’inflazione dei prezzi non è perfettamente prevedibile, essa produce certamente alterazioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno del sistema economico fra gruppi sociali: 1) fra i percettori di reddito fisso e i percettori di reddito variabile; 2) fra i percettori di salario e i percettori di profitto; 3) fra i debitori e i creditori e altri ancora.

Sulla prima alternativa, va da sé che l’inflazione dei prezzi danneggia i primi rispetto ai secondi. Sulla seconda, tutto dipende dal fatto che i salari crescano più rapidamente o più lentamente dei prezzi; si può prevedere che l’inflazione da domanda tenderà a far aumentare la quota relativa dei profitti all’interno del reddito nazionale, mentre l’inflazione da costi (del lavoro) presumibilmente favorirà i percettori di salario a spese dei profitti. È evidente che l’aumento dei prezzi danneggia i creditori a vantaggio dei debitori, a meno che l’aumento dei prezzi non venga integralmente trasferito sui tassi d’interesse nominali, a salvaguardia dei livelli dei tassi d’interesse reali. In presenza d’imposizione fiscale progressiva, l’aumento dei prezzi fa aumentare il valore nominale dei redditi imponibili, con il possibile scatto verso aliquote marginali crescenti (cosiddetta imposta da inflazione). Ciò ha un significato di tipo riequilibrante nella distribuzione del reddito nazionale, a maggior ragione se lo Stato utilizza il gettito da imposta da inflazione nella direzione di aumentare l’erogazione di servizi gratuiti o di sussidi monetari ai bisognosi e alle fasce di reddito più basse.

I dati mostrano che i costi reali effettivi dell’inflazione sono contenuti e che gli effetti redistributivi dell’inflazione sono aleatori e tendono a operare in direzioni imprevedibili. Ciò non di meno, l’inflazione crea preoccupazione agli occhi della gente; v’è paura che anche l’inflazione di oggi finisca, prima o poi, per accelerare, tramutandosi in iperinflazione, come quella tedesca dei primi Anni Venti del secolo scorso, l’iperinflazione cinese e quella ungherese degli Anni Quaranta del secolo scorso e le più recenti iperinflazioni registrate in alcuni paesi dell’America Latina e dell’Europa Orientale.

Ma normalmente l’inflazione non manifesta sempre un andamento cumulativo tale da evolvere in iperinflazione. Ciò anche perché difficilmente l’inflazione può essere completamente anticipata: si dice che gli agenti economici soffrono tipicamente di illusione monetaria, cioè le loro aspettative non riescono a rendersi del tutto conto della dinamica effettiva dell’inflazione.

A questo punto, tirando le fila delle argomentazioni finora svolte, appare stupefacente che molti economisti, banche centrali, uomini politici, giornalisti possano credere veramente che l’inflazione sia la radice di tutti i mali dell’economia – per cui deve essere sùbito soffocata al manifestarsi dei primi sintomi – e che la stabilità dei prezzi sia l’unica vera ricetta per la crescita economica. Quest’affermazione, oltre che non essere corroborata dall’evidenza empirica, è priva anche di robusto fondamento teorico.

Ad ogni modo, il ragionamento che porta alla necessità d’introdurre una forte riduzione della domanda aggregata può avere una sua validità nel caso in cui l’inflazione sia da domanda aggregata che supera l’offerta aggregata, con la politica restrittiva che elimina l’eccesso di domanda), ma non nel caso in cui i prezzi sono spinti all’insù dai costi, quale è la situazione attuale in gran parte del mondo: aumento rilevante dei prezzi dell’energia e delle altre materi prime e per la presenza di colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento di beni intermedi e finali. Nel secondo caso, si viene a creare un eccesso della domanda rispetto all’offerta, non per aumento della prima – che può richiedere un aggiustamento della stessa verso il basso, con un’operazione chirurgicamente precisa che riduca l’eccesso di domanda – ma per mancanza della seconda, che spinge all’insù i costi e i prezzi di produzione, scatenando anche l’aumento dei salari, probabile causa di ulteriori aumenti dei prezzi.

Specie nel caso d’inflazione da costi, una significativa flessione della domanda aggregata non potrebbe non avere effetti negativi sull’attività produttiva; effetti che non potrebbero non avere effetti negativi sull’occupazione del lavoro: effetti negativi sulla produzione che non potrebbero che avere effetti negativi sull’occupazione del lavoro. In altri termini, non potrebbe che far aumentare l’inoccupazione, in una delle varie forme che questa può assumere: persone senza occupazione in cerca di essa (i disoccupati), ma anche persone sottoccupate in termini di ore di lavoro svolte (part-time involontario) o di qualità di prestazioni lavorative rispetto alla propria qualificazione, ma anche lavoratori sospesi (in cassa integrazione guadagni, diciamo in Italia), ma anche persone in età lavorativa senza occupazione e che non la cercano attivamente in quanto scoraggiati nella ricerca per gli insuccessi avuti in passato, ma anche lavoratori occupati con elevata precarietà nel rapporto di lavoro, i quali presentano stati occupazionali, per certi versi – la dignità del lavoratore, in primis – simili all’inoccupazione.

Siamo arrivati al bivio fra provocare un freno alla domanda aggregata, che potrebbe contenere l’ulteriore aumento dei prezzi, ma che verosimilmente farebbe aumentare l’inoccupazione (in una delle varie forme che essa può assumere) oppure non attivare questo freno sulla domanda aggregata al fine di non provocare un aumento dell’inoccupazione ma, allo stesso tempo, non provocare un contenimento dell’inflazione.

La scelta fra le due vie da imboccare deve passare attraverso il confronto fra i costi individuali e sociali che verosimilmente si avranno seguendo o l’una o l’altra.

Ho già detto dei costi individuali e sociali dell’inflazione. Che dire a proposito dei costi dell’inoccupazione? L’inoccupazione ha un primo costo a livello macroeconomico rappresentato dalla mancata produzione di beni che i lavoratori inoccupati avrebbero potuto realizzare. Al costo sociale, che deriva dalla non utilizzazione della forza lavoro disponibile, corrisponde un costo personale e famigliare costituito dal mancato reddito, il quale costo può però essere reso collettivo attraverso l’intervento redistributivo della Pubblica Amministrazione, che attui una chiara redistribuzione in quanto finanzia le provvidenze a favore degli inoccupati riducendo, tramite il prelevamento fiscale, il reddito disponibile dei soggetti che percepiscono un reddito ritenuto adeguato. Diventa meno chiaro l’effetto redistributivo se i trasferimenti agli inoccupati sono finanziati con la creazione di base monetaria.

Il costo personale non è però solo economico, in quanto il lavoratore privo di occupazione, oltre che per la mancanza retribuzione (al netto dei costi opportunità dell’attività lavorativa, comprese le provvidenze previste per gli inoccupati), può soffrire anche per sentirsi escluso dal contesto economico-sociale dal quale è stato espulso, o nel quale non riesce a inserirsi, e può andar incontro a processi di emarginazione sociale e, mentre il costo di tipo economico può essere in qualche modo assorbito all’interno del nucleo famigliare – che agisca quale stanza di compensazione dei rischi e dei benefici economici dei propri membri – è più difficile che compensazioni di questo genere possano lenire, se esistono, le sofferenze d’ordine psichico e riguardanti le relazioni interpersonali. Anzi è possibile che lo stato d’inoccupazione porti al sorgere di tensioni all’interno dello stesso nucleo famigliare, che possono portare a incomprensioni e scontri personali.

Nel valutare i costi dell’inoccupazione, occorre quindi aggiungere, ai costi reali, rappresentati dalla perdita di produzione e di reddito rispetto al potenziale, gli effetti duraturi dell’inoccupazione sulla salute mentale e fisica degli inoccupati, per non parlare delle conseguenze dei possibili comportamenti criminali degli inoccupati a danno degli altri membri della comunità.

Un altro costo rilevante, di natura individuale e collettiva, è la perdita permanente di qualificazione, di abilità professionale, di capacità a svolgere attività lavorativa da parte del lavoratore che non svolga tale attività per un periodo di tempo prolungato. Dal momento che, in ogni curriculum formativo, vengono impiegate direttamente e indirettamente anche risorse collettive, il disinvestimento è anche in termini di capitale umano della comunità e non solo individuale.

Al di sopra delle tecnicalità sopra riportate esiste il piano valoriale, il piano dei valori che discendono dai principi fondamentali che ogni persona ha. Per una persona che ha, come tali, il principio della centralità e dignità della persona, unito al principio della fraternità intracomunitaria e universale (principi propri della Dottrina sociale della Chiesa), il giudizio di fondo è che chi è inoccupato o svolge lavori precari o sottopagati perde in dignità personale, e ciò deve essere evitato a ogni costo.

 

 

 

L’UNIONE EUROPEA, LA GUERRA IN UCRAINA, IL GAS

di Maurizio Cotta

 

L’invasione russa dell’Ucraina e la lunga e drammatica guerra che ne è seguita produrrà un riassetto importante dell’ultima area grigia dell’Europa costituita da Ucraina e Moldavia, un’area cioè la cui gravitazione verso la Russia o verso l’Unione Europea (e il sistema difensivo Nato) era in passato incerta. Al di là delle soluzioni territoriali al confine tra Ucraina e Russia che la fine della guerra consentirà o imporrà, è sufficientemente chiaro che l’Ucraina e la Moldavia si orienteranno nettamente verso occidente per garantirsi da rinnovate mire espansioniste russe. La Russia, se anche sarà riuscita ad assicurarsi dei guadagni territoriali nell’Est dell‘Ucraina, avrà perso completamente con questa guerra la possibilità di esercitare un controllo politico sull’Ucraina (per non parlare di progetti più fantasiosi di ristabilire una unità tra i due paesi). Anche la richiesta di una neutralità dell’Ucraina sembra oggi difficile da ipotizzare: l’Ucraina esigerà garanzie di sicurezza che la vicenda attuale ha mostrato possono giungere solo dai paesi occidentali.

Che forme specifiche assumerà l’integrazione dell’Ucraina nel contesto europeo non è dato ad oggi sapere con certezza, ma è altamente probabile che la strada dell’ingresso nell’Unione Europea sarà la prima ad essere percorsa (e forse con procedure abbreviate rispetto a passati ingressi). Per quanto riguarda il tema delicato della sicurezza dell’Ucraina e delle sue garanzie i problemi sono più complessi ed è difficile prevedere un pieno inserimento nel sistema di sicurezza Nato, ma qualche forma di tutela anche militare non potrà non essere predisposta almeno per il medio periodo.

La vicenda di questa guerra non è solo destinata a portare cambiamenti importanti nella collocazione dell’Ucraina (e presumibilmente della Moldavia) negli assetti europei, ma anche a ripercuotersi sulla principale organizzazione politica collettiva del Continente, cioè l’Unione Europea.

L’apparire della guerra (e di una guerra grande) sulla scena dell’Europa mette in discussione gli schemi mentali sulla base dei quali l’Unione Europea e i suoi stati membri hanno operato e sollecita un ripensamento della UE stessa, di che cosa essa sia e dei suoi rapporti con il mondo.

Negli anni passati è prevalsa più o meno esplicitamente la concezione dell’Europa (in realtà della UE) come “potenza civile” (CPE cioè Civilian Power Europe). L’idea cioè che l’Unione Europea potesse esercitare la sua positiva influenza nel mondo grazie al suo modello democratico da esportare e alla sua potenza commerciale senza aver bisogno di una politica estera e di sicurezza comune (se non in forme estremamente evanescenti). Questa posizione scontava, più o meno coscientemente, alcune essenziali condizioni: che gli equilibri mondiali di sicurezza fossero garantiti dagli Stati Uniti, che il sistema mondiale (e quello europeo in particolare) fosse fondamentalmente pacifico e che con la globalizzazione la dimensione economica prevalesse su quella politico-militare nei calcoli delle convenienze.

Naturalmente questa pre-comprensione di sé stessa da parte dell’Unione Europea dipendeva anche dal fatto che la graduale ma al tempo stesso portentosa costruzione di una unione pacifica di stati sovrani era potuta avvenire più facilmente sul piano economico e del mercato dove gli stati membri erano più disponibili a cedere parte della loro sovranità riconoscendo i chiari vantaggi di un grande mercato unificato che non in altri campi politicamente più sensibili come la politica estera e di difesa.

Questa visione, che in un certo senso potremmo definire “economicistica”, e che ha guidato i paesi dell’Unione si è manifestata con tutta evidenza nella questione delle materie prime e in particolare del gas.

In un contesto ritenuto sostanzialmente pacifico e stabile sembrava che le relazioni con la Russia, grande produttore di materie prime, potessero essere largamente basate su un sistema di scambi economici mutuamente favorevoli. Materie prime e in particolare gas (distribuito attraverso pipelines) a prezzi favorevoli sul lato della Russia in cambio di prodotti tecnologici avanzati e beni di lusso (automobili di alta gamma, fashion, prodotti per la casa, ecc., molto ambiti dalla nuova borghesia russa) sul lato dell’Europa occidentale. Come succede negli scambi economici tutte e due le parti avevano un vantaggio chiaro e sostanzioso. E certamente queste intense relazioni economiche creavano un quadro cooperativo interessante (e difeso da gruppi di interesse potenti).

In questo quadro i due grandi gasdotti North Stream1 (2006-2010) e North Stream2 (avviato nel 2010), attraverso i quali una parte molto consistente dell’approvvigionamento di una risorsa energetica indispensabile per l’Europa sarebbe arrivata da Mosca, si presentano come due esempi di grande rilievo di questa modalità di relazioni.  Prendiamo il caso del North Stream1, era abbastanza chiaro che tutti guadagnavano da questa grande torta: la Russia con un flusso enorme e regolare di entrate; la Germania con gas a prezzi economici, la produzione di tubi, ma anche una notevole “buonuscita” per l’ex-cancelliere Schroeder che otteneva una carica di vertice nella società  North Stream1; l’Italia con la Saipem che posava i tubi, l’Inghilterra con le turbine della Rolls Royce; la Francia con la partecipazione al consorzio di GDF-Suez; l’Olanda con gli scavi della Royal Boskalis, la Svizzera dove, per la maggiore discrezione del sistema finanziario, sarebbe stata registrata l’azienda di gestione, la Finlandia che otteneva un braccio del gasdotto. Già con il North Stream1 si alzavano però le critiche polacche e ucraine: il gasdotto serviva l’Europa occidentale, ma tagliava fuori Europa orientale e rendeva meno rilevanti i precedenti gasdotti che passavano da questi paesi. Queste critiche non toccavano la convenienza economica dell’impresa ma le sue implicazioni politiche e in particolare il potenziale di questa soluzione di dividere il campo europeo.

Queste osservazioni non furono prese in considerazione e anzi già nel 2011 veniva progettato il raddoppio con il North Stream2. E’ interessante notare che l’avvio concreto di questo progetto nel giugno 2015 avveniva quando la Russia aveva già illegalmente annesso la Crimea (dopo un referendum manipolato) e de facto anche buona parte delle due regioni di Lugansk e Donetsk.

In sostanza la Germania in particolare, cioè uno dei paesi guida dell’Unione Europea, ma accompagnata anche altri paesi, chiudeva gli occhi sulla natura della Russia sotto la leadership di Putin. Per ragioni che qui non è possibile ripercorrere la dirigenza russa pensava ormai sempre più in un’ottica politica di riaffermazione del suo ruolo di grande potenza e vedeva in questa politica lo strumento per rafforzare il consenso popolare intorno a sé. In questa prospettiva le risorse energetiche non rappresentavano più primariamente uno strumento di potenziamento dell’economia del paese, ma uno strumento strategico di affermazione del ruolo politico della Russia. Mentre la Germania e l’Unione Europea continuavano a ragionare soprattutto in termini economici (anche perché su questi avevano sviluppato il benessere e il consenso del proprio paese) la Russia si stava spostando sempre di più sul piano della power politics. L’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 avrebbe chiarito senza più ombre di dubbio quali erano le priorità russe.

A questo punto si imponeva un profondo ripensamento anche da parte dei paesi europei e della Unione. Al calcolo economico si doveva sostituire quello politico strategico nonostante i suoi costi (economici). E quindi i paesi europei e poi faticosamente l’Unione hanno affrontato il tema delle materie prime non più solo in termini economici ma anche in un’ottica politica per la quale la dipendenza da un paese diventa una minaccia.

Proviamo a trarre allora qualche conclusione. Cooperazione e scambi sono certamente strumenti importanti per incoraggiare la coesistenza tra gli stati, ma non si può sottovalutare il fatto che dipendenze troppo marcate da un paese per quel che riguarda beni essenziali possono aprire a ricatti politici molto seri. La pace in Europa, aspirazione che tutti dovremmo perseguire, richiede la costruzione di accordi ed equilibri politici che tengano conto delle profonde diversità che esistono tra i principali attori della scena (Unione Europea, singoli stati, Russia) e che riaffermino alcuni principi basilari (a partire dal rispetto della integrità territoriale di tutti i paesi e dalla rinuncia risolvere con le armi i conflitti) senza i quali il controllo della violenza è impossibile.

La terribile e sanguinosa guerra in Ucraina dovrebbe almeno lasciare questo insegnamento. L’Unione Europea ha in questo contesto una responsabilità fondamentale nel contribuire a costruire un solido disegno di pace per il nostro continente.  E, pur con tutti i suoi limiti, ha nei suoi principi costituivi elementi importanti che possono ispirarlo.

 

 

 

Prime valutazioni delle conseguenze economico-politiche

della guerra russa in Ucraina

di Giuseppe Sacco

Le conseguenze economiche dello scontro militare ed economico in Ucraina che ha caratterizzato l’anno che si chiude, non hanno bisogno di essere dimostrate. Esse sono sotto gli occhi di tutti, così come è chiara allo stato attuale, a fine 2022, la sostanziale assenza di ogni dimensione diplomatica e negoziale. Si tratta di conseguenze che erano in gran parte prevedibili. E che sono state anche previste, pur se non forse con le stesse caratteristiche e nella stessa misura da parte dei diversi soggetti convolti.

Naturalmente, non si scopre nulla di più che già risaputo, quando si dice che la guerra, ogni guerra – così come anche la semplice preparazione alla guerra, nella logica “pacifista” del si vis pacem para bellum – implica, per definizione, la destinazione a fini distruttivi, o almeno improduttivi, di un certo quantitativo delle risorse economiche ed umane degli Stati che sono – o che temono di essere – coinvolti in un conflitto. Risorse economiche ed umane che potrebbero altrimenti essere allocate alla produzione di beni e servizi da destinare alla fruizione da parte della popolazione nazionale, ovvero al commercio con l’estero.

Quest’ultimo (che è notoriamente ostacolato e danneggiato da ogni guerra, o anche da un semplice “clima internazionale” che si teme possa portare ad una guerra) è peraltro anch’esso produttore di ricchezza. Trasferendo beni e servizi da paesi in cui essi sono più abbondanti in paesi in cui essi sono più scarsi, e quindi aumentandone di fatto il valore, il commercio determina sempre – a meno che ad esso non vengano imposti artificiali fattori distorsivi – una allocazione più razionale, a livello planetario, delle risorse disponibili. Si traduce cioè in benefici di cui godono non solo le donne e gli uomini la cui vita è regolata dagli Stati in questione, ma tutta la popolazione mondiale.

Ciò è stato estremamente evidente nel periodo della c.d. globalizzazione, la cui stagione va all’incirca dal 1979, quando la Cina si apre al mondo, sino alle chiusure dovute alla pandemia.

Gli scambi di capitali e di merci tra l’Occidente e paesi fino ad allora semi autarchici, come era soprattutto la Cina, hanno coinciso con una lunga epoca se non di pace, almeno con un’epoca in cui i conflitti hanno avuto prevalentemente carattere regionale. Ed hanno inoltre determinato una lunga fase di crescita senza inflazione, hanno fatto uscire circa un miliardo di uomini dalla povertà estrema, ed hanno fatto profilare la possibilità di una redistribuzione del potere a livello mondiale.

 

L’arma delle sanzioni

Questa elementare evidenza mentre in luce come anche gli strumenti della guerra economica, ad esempio le sanzioni che oggi vanno così di moda, portino ad una pura, semplice ed enorme distruzione di ricchezza, anche sotto forma di distorsione nella allocazione non solo degli investimenti, ma anche soprattutto dei benefici e delle occasioni economiche tra i vari soggetti, individuali e collettivi, che formano le società che gli Stati sopra menzionati dovrebbero governare e proteggere.

Eppure, “le sanzioni sono state a lungo l’arma diplomatica preferita dagli Stati Uniti. E ciò anche se non sono mancati gli ammonimenti tanto sui loro effetti negativi quanto sulla rapida erosione della loro efficacia, in seguito agli accordi già raggiunti tra i paesi sanzionati, che stanno portando alla nascita di aree commerciali internazionali dove il dollaro non ha più il suo sinora ineludibile ruolo.

Già nel 1998, lo stesso Presidente americano Bill Clinton aveva commentato negativamente il fatto che il governo degli Stati Uniti fosse diventato altrettanto “sanctions happy” – cioè, pronto al ricorso alle sanzioni – quanto una gran parte della sua popolazione si dimostrava “trigger happy”, pronta a l’uso delle armi da fuoco.

Questa popolarità dello strumento sanzionatorio nell’azione diplomatica non è tuttavia priva di senso e di benefici. Perché si tratta di misure che riempiono un vuoto spesso pericoloso tra dichiarazioni diplomatiche che talora lasciano il tempo che trovano e sanguinosi interventi militari. E, di questi ultimi, gli elettori degli Stati Uniti hanno, negli anni più recenti, dato prova di essere stanchi.

Eppure, ancora trentatré anni dopo la notazione di Bill Clinton, la risposta della amministrazione Biden all’invasione russa dell’Ucraina ha seguito la prassi delle sanzioni, senza curarsi – almeno in apparenza – delle conseguenze negative che avrebbero potuto prodursi nello stesso Occidente. Washington, seguita a ruota da quasi tutti gli alleati, e ad occhi chiusi dai burocrati di Bruxelles, ha immediatamente imposto a Mosca “pacchetti” su “pacchetti” di misure punitive.

Propaganda e polemiche

Nella complessa questione della collocazione internazionale dell’Ucraina – questione cui solo ora si cerca una soluzione facendo ricorso ad una guerra guerreggiata, ma che risale in realtà  gli anni successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica – di sanzioni si è fatto largo uso, tanto contro la federazione russa quanto da parte di Mosca, che ha immediatamente posto in essere delle contro-sanzioni.

Sotto un profilo politico-propagandistico, questa situazione consente attualmente a Mosca di sottolineare vivacemente, ogni volta che può farlo, come le misure che avrebbero dovuto spingerla a comportamenti più moderati, abbiano invece non solo danneggiato (e attualmente continuino a danneggiare) in primo luogo i paesi dell’Europa occidentale, che essi siano o meno membri dell’Alleanza Atlantica. Ma anche come li danneggino più di quanto esse non abbiano portato a risultati economici negativi per la stessa Federazione Russa, la quale sembra invece trarre partito dal forte aumento dei prezzi internazionali degli idrocarburi – e delle sostanze energetiche in generale – che è stato determinato dalla guerra in atto in territorio ucraino, o che ha perlomeno coinciso con essa.

Altrettanto chiaro è poi che il Cremlino, sottolineando come il danno delle sanzioni abbia colpito, e continui a colpire, soprattutto i paesi europei, tenda a far passare l’idea che si tratti definitiva in una strategia americana volta soprattutto contro l’Europa. Soprattutto contro la Germania, che negli anni di Angela Merkel, e del suo predecessore Schroeder, aveva seguito l’idea di un sviluppo economico non solo forte, ma anche più sostenibile ed equilibrato di quello attuale; uno sviluppo che passava attraverso una sostanziale integrazione (fondata sulla palese complementarità delle risorse) con l’economia russa.  Ed era sottinteso che si trattasse di n’idea temibile, dal punto di vista di Washington, anche se meno ambiziosa ed esplicita di quella a suo tempo concepita dal grande banchiere Alfred Herrhausen, che avrebbe di fatto reso la Germania l’erede economica del blocco sovietico.

Le tensioni russo-polacche

Del conflitto, che la rivista Limes –  vera e propria “bibbia” dei cultori di geo-politica nel nostro paese, ha definito “la guerra russo-americana” d’Ucraina – esistono, oltre alle conseguenze evidenti che sono state provocate dalla sovrapposizione e dall’intreccio delle sanzioni contrapposte, altri e differenti tipi di risultati, che è molto difficile non considerare negativi; conseguenze che appaiono in tutta le loro evidenza se si guarda all’impatto che la tragedia dell’Ucraina ha avuto sugli altri paesi della zona.

Anche a voler limitarsi a quegli effetti che vanno oltre la semplice applicazione del rozzo criterio del post hoc ergo propter hoc, cioè il criterio della immediata successione temporale – che sarebbe però difficile considerare frutto del caso – l’impatto del conflitto sulle decisioni prese da tali paesi è facilmente visibile.

Si tratta di conseguenze che si possono verificare senza grande sforzo di analisi. Basta guardare al caso della Polonia, che può, in un certo senso essere considerato – e non da oggi – il “paese-termometro” delle febbri che agitano l’Europa centro-orientale. Un paese che il suo attuale governo, ed una parte non trascurabile dell’opinione pubblica, ha per buona parte degli ultimi cento anni, visto come l’antemurale occidentale nei confronti della Federazione russa. La quale viene – essa – attualmente percepita come non solo come revanchiste rispetto al passato ruolo internazionale dell’URSS, ma addirittura espansionista dal punto di vista territoriale.

Questa parte dell’opinione polacca e ancor più il suo attuale governo sembrano ritenere oggi possibile un’estensione dei combattimenti al loro territorio. E ne ha dato la prova provata l’incidente della caduta di un missile molto probabilmente russo, ma che tutte le parti in conflitto si sono precipitate, con un’unanimità che non può non far sorridere, a dichiarare di origine ucraina.

Un problema a quattro soluzioni

I Polacchi si sono perciò impegnati in una politica di armamento che si potrebbe definire forsennata, se questo termine non avesse una implicazione critica, cioè se non implicasse un giudizio politico scettico, o almeno dubitativo, sulla valutazione particolarmente allarmata che governo di Varsavia ha sempre fatto, della minaccia militare russa, in questo primo scorcio di secolo.

Un sano scetticismo sul fondamento e sulla ragionevolezza dei timori della Polonia non sarebbe fuori posto nell’immediato, data la odierna appartenenza di Varsavia alla Nato, che non può che scoraggiare chiunque volesse intervenire militarmente in territorio polacco. Ma tali timori non apparirebbero molto incongrui in una valutazione di lungo periodo, e se si tenesse presente la situazione in cui si è in passato trovata la Polonia. Una situazione in cui si sono duramente applicate, e sembrano ancora validamente applicarsi, le quattro alternative suggerite da un ragionamento geopolitico.  Da un ragionamento, cioè, oggi molto alla moda.

La Polonia essendo geograficamente collocata, in maniera più infausta che ogni altro paese dell’Europa centro-orientale, tra due grandi nazioni storicamente caratterizzate da un’ambiziosa vocazione imperialista, questo rozzo teorema geopolitico spiega – in una certa misura – quello che in passato è stato un idem sentire ormai profondamente radicato nell’insieme del pur composito popolo polacco.

 

Quando la Russia è forte – dice questa schematizzazione geopolitica – mentre la Germania è debole, la Polonia e condannata al dominio russo. Nel caso opposto, quando la Germania è forte e la Russia è debole, alla Polonia spetta il dominio tedesco. Nella storicamente frequente situazione in cui la congiuntura politica internazionale vede entrambe le nazioni – quella russa e quella germanica – inquadrate in potenti strutture imperiali o statuali, la Polonia è inevitabilmente spartita tra i suoi grandi ed agitati vicini. Solo nelle rare congiunture storiche in cui le vicende della lotta per l’egemonia in Europea hanno contemporaneamente visto russi e tedeschi in un momento di debolezza, la Polonia può vedersi attribuita non solo la forma ma anche la sostanza di uno Stato indipendente.

Dopo il Settecento, questa congiuntura storica si è verificata solo all’indomani della prima guerra mondiale; quando l’impero russo, in preda ad una violenta rivoluzione sociale aveva nel Marzo 1918 accettato la umiliante pace di Brest-Litovsk con gli “Imperi Centrali,” e poco prima che questi nel giugno dell’anno successivo fossero costretti a riconoscere con la disastrosa pace di Versailles, la loro sconfitta.

In seguito, dopo un entre deux guerres che in terra di Polonia fu più di guerre che di pace, dopo una nuova – breve, ma tragica – spartizione tra nazisti e Sovietici, e dopo quasi mezzo secolo di forzata appartenenza al blocco dell’Est, una sorta di “indipendenza” della Polonia si concreta solo con la crisi del mondo comunista, quando la potenza di Mosca è ai minimi termini e la appena riunificata Germania è ancora largamente condizionata dalle conseguenze del proprio recente passato.

Troppo grandi o troppo piccole?

E’ tuttavia la minaccia russa che, nella presente fase di indipendenza – che pure è cominciata con la dissoluzione del blocco sovietico, seguìto a ruota dalla decomposizione dell’Urss – rimane prevalente, in modo assai negativo, nell’immaginario collettivo polacco. Anche perché in coincidenza con l’inizio del nuovo secolo, la Russia, ancorché privata di enormi porzioni del proprio impero, aveva ritrovato la via della crescita economica e della riorganizzazione statuale.

Essenziale in questo quadro è il fatto che l’eredità sovietica abbia consentito alla Federazione russa di essere dotata di un armamento nucleare comparabile, per alcuni aspetti secondari più sofisticato di quello gli stessi Stati Uniti. Ma non è più la superpotenza del passato. E non è neanche una potenza veramente in grado di sostenere una nuova Guerra Fredda con gli Stati Uniti. Ma rimane una potenza troppo ingombrante per abitare in quella pacifica casa comune europea che era stata sognata da Gorbaciov. E finisce, come la Germania, per essere – per usare una celebre espressione di Henry Kissinger – troppo piccola per il mondo, ma troppo grande per l’Europa. Soprattutto troppo grande per il suo vicino occidentale, la Polonia, appunto.

La cattiva prova data dall’esercito russo di terra nella guerra d’Ucraina spinge però oggi i Polacchi ad una più complessa e articolata visione delle minacce che – nella “angoscia da spartizione” che a giusto titolo ancora oggi li perseguita – essi vedono incombere da Est. Ed è per questo che il partito oggi al potere a Varsavia è parso soffrire di un calo di popolarità. Ed infatti – in un tentativo di recuperare consensi alle elezioni dell’anno prossimo – sta incominciando ad indirizzare un nugolo di strali propagandistici contro il suo vicino occidentale, la Germania.

Una svolta “epocale”

Ci si potrebbe chiedere, al momento in cui il rigido inverno delle steppe ha pressoché paralizzato la feroce guerra che si combatte lungo il confine russo-ucraino pre-1954, se gli strali che, a partire dall’autunno dell’anno appena giunto a termine, sono stati rivolti da Varsavia contro la Germania del Cancelliere Scholz siano davvero tanto pesanti e gravi quanto si dice.

E la risposta, soprattutto per il significato simbolico di quegli strali, non può che essere allarmante. Non tanto per i due soggetti politici in questione, che al momento non corrono alcun rischio di guerra, ma per l’Europa nel suo insieme. E soprattutto per il grande e generoso progetto politico europeista che – come ebbe a constatare lo stesso Altiero Spinelli già ai primi anni ’70 del secolo scorso – ha finito per essere affidato alla burocrazia di Bruxelles, più che ai popoli del “piccolo capo” che dall’Asia si sporge verso occidente.

Pesante e grave al punto di lasciar increduli risulta il fatto che il governo di Varsavia si sia spinto, da qualche mese a questa parte, sino a chiedere a Berlino, dopo ottantatré anni dalla rottura della pace in Europa, il rimborso dei danni per la guerra scatenata dai nazisti, e dai loro complici russi, contro la fragile Polonia della fine degli anni trenta. Una richiesta peraltro irrealizzabile, dato che somma implicata ammonterebbe a circa il doppio del prodotto interno lordo della Polonia. Ma un indubitabile segno del “carattere paranoico” – per riprendere la celebre formula di Richard Hofstadter – della lotta politica in Polonia, dato che l’opposizione, guidata dall’europeista Donald Tusk, è stata obtorto collo costretta a sostanzialmente piegarsi.

 

In questa ennesima conseguenza della guerra d’Ucraina, in questo improvviso aumento della temperatura misurata da quel “termometro” est-europeo che è la Polonia, ci potrebbe però essere anche dell’altro. Ci potrebbe essere un riflesso del fatto che forse, nel Vecchio Continente, in aggiunta al minorato Stato successore dell’Urss, la Federazione russa, si possa cominciare a pensare che esista un altro paese “troppo piccolo per svolgere un ruolo mondiale, ma troppo grande, ingombrante ed iperattivo per il quadro europeo”. E che questo paese sia la Germania. Che è poi il paese che ha originariamente ispirato questo concetto.

Solo tre giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, non solo gli osservatori abituali degli sviluppi politici internazionali avevano infatti cominciato a scorgere qualche inequivocabile segno che induceva a pensare come anche la Germania avesse deciso di volgere lo sguardo verso il passato, così come una Polonia, improvvisamente memore dei danni subiti nella Seconda Guerra Mondiale, era tornata a guardare la propria storia.

Lo si è fortemente avvertito quando, iI 27febbraio 2022, il neo-Cancelliere tedesco Olaf Scholz, in un discorso per molti aspetti insolito di fronte al Parlamento tedesco, ha presentato a sorpresa i nuovi obiettivi di politica estera del paese di cui egli è alla guida.

Dopo aver definito l’invasione dell’Ucraina come la causa di una Zeitenwende, una svolta Epocale, non solo nella storia europea bensì in quella mondiale, Scholz ha infatti diffusamente parlato soprattutto del nuovo ruolo militare del proprio Paese. E a questo fine, egli ha annunciato un massiccio aumento della spesa per la difesa, rompendo con la scelta fatta dalla Germania di Bonn nella fase conclusiva della guerra fredda, di non dare sostegno alle forze armate dell’alleanza se non ben al di sotto del 2% richiesto dagli alleati della Nato. Al tempo stesso, ha però annunziato anche lo stanziamento di 100 miliardi di euro da spendere per le forze armate, ma al di fuori del bilancio nato. Una decisione, questa, che nel giro di pochissimi anni farà della Germania la quarta potenza mondo per spesa militare, dopo Usa, Cina e Russia.

Wandel durch Handel

Sotto il profilo politico internazionale, ciò significa soprattutto che, come conseguenza della guerra d’Ucraina (o forse solo prendendola a pretesto) la Germania di Scholz ha abbandonato la dottrina ufficialmente assunta dopo la Guerra Fredda relativamente ai rapporti con il mondo russo; dottrina che si riassumeva nello slogan propagandistico (Wandel durch Handel). Di favorirne la crescita, l’occidentalizzazione, e l’integrazione “grazie al commercio”. Una politica che si è peraltro dimostrata estremamente conveniente per gli ambienti tedeschi del business e per le aziende grandi divoratrici di energia.

I forti rapporti commerciali stabiliti tra Russia e Germania grazie a questa linea politica erano facilmente riusciti nel 2014 a sopravvivere allo scossone provocato in Europa centro- orientale dalla “rivoluzione colorata” di Maidan e alla conseguente annessione russa della Crimea. Ma ciò non è stato più possibile di fronte alle negative conseguenze che la guerra ucraina sta avendo per la Russia.

Se lo slogan del Wandel durch Handel ha perciò dovuto essere rapidamente abbandonato, non è detto però che ne debba scomparire anche il concetto, o almeno l’ispirazione. Nel senso che Berlino, sempre come conseguenza della guerra ucraina, ha visto diventare grandissimo il già preminente interesse a sviluppare un nuovo rapporto di questo tipo non più nel ristretto àmbito europeo, bensì in un quadro mondiale. Non più nei confronti della Russia, bensì con la Cina, i cui legami con l’economia tedesca sono ormai molto più importanti, soprattutto assai più diversificati, di quelli che la Germania riunificata sia mai riuscita a stabilire con Mosca. E neanche ad immaginare, dopo la violenta eliminazione di Herrhausen, fatto a pezzi da una bomba appena ventuno giorni dopo la caduta del Muro di Berlino.

Ed è questo ormai un elemento da prendere in attenta considerazione nell’analisi delle conseguenze della guerra d’Ucraina. Tanto più in presenza, come accade attualmente, di non trascurabili segnali di una evoluzione della questione di Taiwan. Segnali che fanno pensare ad una possibile ripetizione dello schema diplomatico e militare già visto in Ucraina sino al 2021, e che ha portato alla tragica decisione di Putin di lanciare la cosiddetta “operazione speciale”.

Per quanto riguarda l’Europa, Scholz ha certo sottolineato il sostegno della Germania alla Unione Europea, affermando anzi che il vecchio continente rimane “il nostro quadro d’azione”, Ma senza diffondersi sull’argomento. Il che deve indubbiamente suonare come un messaggio per gli Europei, perché non pensino – dopo i disastri e i dissensi provocati nel quadro continentale dalla guerra d’Ucraina, e dopo l’ascesa di Berlino ad un rango militare capace di farla pesare nella nuova Guerra Fredda mondiale ormai promessa per i prossimi anni – di essersi sbarazzati della Germania, così come Francia ed Inghilterra ebbero ragione di pensare all’epoca della tarda espansione coloniale, quando Bismark mostrò il proprio disinteresse dicendo che, era ”la Russia, l’Africa dalla Germania”.

 

 

 

domanda aggregata che creino inoccupazione e precariato nell’occupazione.

 

 

MERCATO DEL GAS: UN FATTO POLITICO

di Roberto Pertile

 

Dopo la caduta del muro di Berlino e la conseguente crisi dell’Unione sovietica, nel mondo occidentale sono prevalse forze economiche favorevoli alla politica liberista di totale apertura, per le imprese, al libero scambio delle merci, inclusi i vari prodotti energetici. Coerentemente con questo clima, nel 2012, il Governo Monti propose di vendere la società SNAM (Gruppo Eni) alla società “Gazprom” (100% sotto il controllo dello Stato russo) per motivi di convenienza squisitamente commerciale, dati i prezzi più convenienti della stessa.

La proposta, comunque, fu bocciata nella sostanziale indifferenza della Sinistra. Era convinzione diffusa che nulla dovesse ostacolare il libero mercato. Purchè fosse conveniente e concorrenziale, anche un rapporto preferenziale con la Russia poteva costituire una straordinaria opportunità.

Non andò così. La crisi finanziaria del 2008 causò una caduta della domanda di beni e servizi, compresi i beni energetici. Questa riduzione della domanda mise in discussione la sicurezza economica della Russia, che si convinse di tutelare il proprio interesse.

Convinto dell’infondatezza della teoria del libero accesso alle fonti energetiche, il Governo russo decise di fare dell’energia lo strumento politico per affermare un suo riscatto a livello internazionale e per contrastare il declino dovuto alla fine dell’Unione sovietica. Ciò spiega la volontà politica di Mosca di aggirare il transito del gas russo attraverso l’Ucraina, (nel 2006 i gasdotti dell’Ucraina veicolavano il 90% delle esportazioni russe verso l’Europa. Fonte A. Clò, ”Il ricatto del gas russo”).

Come abbiamo visto di recente, l’opportunità russa non si è dimostrata un affare per i Paesi europei, dipendenti dalle decisioni politiche della Russia e ora vogliosi di liberarsi da una stretta ormai divenuta ricattatoria e asfissiante, in particolare dopo l’attacco di Putin all’Ucraina. Tuttavia, fare

a meno del gas russo non è così semplice, occorre trovare altre fonti energetiche, che forse solo un’Europa coesa e ben integrata può essere in grado di farlo.

Una politica economica europea, autonoma nel settore del gas e delle altre fonti energetiche, è condizionata oggi anche da altri fattori geopolitici. Da un lato, c’è la crescente domanda energetica della Cina e dell’India alla Russia; dall’altro, l’autosufficienza degli Usa in materia di “shale oil” e “shale gas “(petrolio e gas estratti dal territorio), che potrebbe permettere all’Europa di cambiare fornitore energetico, sia pure a costi tutt’altro che concorrenziali.

L’economia mondiale, in questi anni, ha subito gli effetti, come detto, di una sensibile crescita della domanda cinese e indiana dei prodotti energetici. Questo dato descrive una nuova geopolitica dell’energia, per effetto della creazione di un blocco “orientale”, dove la Cina e l’India sono i grandi consumatori e la Russia è il principale produttore e fornitore dell’energia. La potenzialità economica di questo aggregato è molto elevata, anche perché la Cina e l’India possono estendere la loro presenza nel nucleare, adottando la nuova tecnologia della fusione.

Critico è il ruolo della Russia, che, nella sua storia, è un pendolo tra la cultura europea e le sue identità asiatiche; tra il blocco con la Cina o l’integrazione con il mercato europeo. Dopo il crollo dell’Unione sovietica, in Russia non è prevalso il modello democratico, bensì, come vediamo anche oggi, una visione “imperiale” delle relazioni internazionali.

Lo scenario energetico è molto cambiato dai tempi di Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, in cui le famose “sette sorelle” erano il più potente oligopolio energetico.

Oggi, i veri centri di potere sono colossi pubblici che rendicontano al Governo del proprio Paese del loro operato. Al giorno d’oggi, la società Gazprom, come è evidente, è uno strumento di politica estera del Governo russo. L‘energia è diventata un fatto politico. il mercato in sé conta sempre meno; vale, invece, la capacità di non farsi condizionare dai poteri politici che non fanno l’interesse dell’Italia e dell’Europa, minandone l’autonomia.

Il settore sarà sempre più caratterizzato dalla concorrenza tra Usa e Cina, dove lo spazio per l’Europa è quello di operare per una politica di transizione ad un ambiente pulito. Da qui, la richiesta al Governo italiano e alle Istituzioni dell’UE di fare investimenti nelle nuove tecnologie, che richiedono elevati investimenti finanziari. Questa politica può avviare una soluzione strutturale alla domanda/offerta del settore energetico italiano ed europeo, rendendolo indipendente dalle oligarchie internazionali. Tra gli ostacoli al raggiungimento di questo obiettivo ci sono gli egoismi nazionali, che hanno, finora, impedito la creazione di un unico mercato europeo dell’energia.

La soluzione di buona parte delle difficoltà odierne dipende da scelte politiche, come accade sull’impiego dell’energia nucleare, dove la nuova frontiera tecnologica della fusione merita una riflessione serena e obiettiva, priva di posizioni di estremismo ideologico.

Tra l’altro, le energie rinnovabili sembrano meno pulite di quanto finora sostenuto; da qui, le resistenze ambientaliste alla loro diffusione. Un ulteriore ostacolo ad un nuovo ordine energetico è la finanziarizzazione dell’economia, che vede prevalere gli interessi speculativi su quelli per un ambiente pulito.

Infine, una nota di ottimismo. Secondo Federico Rampini (“Il lungo inverno”), un futuro positivo per le energie pulite si potrà avere dallo sfruttamento dei fondali marini, mediante l’estrazione di preziosi minerali, quali il cobalto, il manganese e il litio.

Con una visione illuminata e lungimirante può essere, dunque, data una risposta di civiltà e di solidarietà alle datate logiche “imperialiste”, ora dominanti.

 

 

 

VERSO UN CAPITALISMO DEMOCRATICO

di Roberto Pertile

 

È consolidato che la presenza nel sistema produttivo di bassi salari, come è attualmente, rende difficile la crescita economica. E con un modesto sviluppo economico non si va da nessuna parte,

ci vogliono incrementi continui di produttività. Dunque, per fare politica sociale a favore dei gruppi più deboli è indispensabile portare dei cambiamenti nel modello economico che ha governato l’economia degli ultimi decenni: il neo-liberismo, definito da alcuni studiosi, “tecnocratico” (M.Lind, già docente ad Harvard).

La prevalenza del “neo-liberismo” ha significato una ricerca di elevati profitti a breve a danno degli investimenti a medio periodo, che sono l’impiego di capitale che produce occupazione stabile.

Non solo le politiche attive del lavoro non sono state al centro dell’azione di governo del sistema, ma anche le relazioni industriali hanno avuto lo stesso destino. Non sono state, inoltre, prioritarie per i vari Governi le spese per la formazione professionale, come, ad esempio, per la creazione di Istituti tecnologici. Dunque, con il modello “neo-liberista” le disuguaglianze sociali sono sensibilmente aumentate.

Ne consegue che è urgente intervenire con una azione politica che si fondi, principalmente, sui valori del lavoro e della cooperazione di ispirazione sturziana, ricuperando quella volontà ricostruttiva, che è stata alla base del “miracolo“ economico del dopoguerra.

Per un nuovo percorso di rilancio e di trasformazione della nostra società appare, in altri termini, indispensabile un nuovo patto sociale per una rinnovata e consapevole partecipazione popolare,

patto che è fondamentale per una coesione sociale favorevole al cambiamento. A questo fine è apparso deludente il ruolo finora giocato dalla sinistra italiana che, alla luce di recenti analisi e sondaggi, rappresenta sempre meno gli interessi e le aspirazioni dei ceti popolari, che guardano ormai con insistenza a destra, come si evince chiaramente dal risultato delle ultime elezioni.

Questa crisi di rappresentanza ha radici lontane: già negli anni ottanta e novanta le forze di sinistra (Pci e Psi) apparvero divise e incapaci di incidere sulla politica governativa (Macaluso-Petruccioli “Comunisti a modo nostro”).

Un dato, tra i tanti, evidenzia la debolezza della sinistra: negli ultimi trenta anni, il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti nel settore privato è diminuito del 2,9%, unico paese in UE. I paesi europei concorrenti dell’Italia, invece, evidenziano: più 33,7% per la Germania e più 31,1 % per la Francia (Ocse, La Repubblica del 1-1-22).

È evidente, di fronte a questi dati, il motivo per cui i lavoratori approdino ad altri lidi politici rispetto al Pd.

Una delle cause del “declino” del potere di acquisto dei lavoratori trova anche ragione nel fatto che poco o nulla è stato fatto dal maggiore partito della sinistra contro la finanziarizzazione dell’economia e l’espansione delle rendite parassitarie, favorite, anche nel 2022, dalla legislazione fiscale, che da tempo favorisce il capitale finanziario.

Non si vedono presenti sulla scena politica nuove forze sociali ed economiche capaci di dare una risposta incisiva all’attuale crisi di rappresentanza delle forze sociali popolari. È forte nella società la domanda di una capacità riformista dei partiti, domanda che non trova risposta. A questo proposito, il prossimo congresso del PD sembra un’opportunità già persa in partenza.

Il distacco crescente dei lavoratori dalla sinistra trova, dunque, giustificazione nella debolezza politica della difesa degli interessi del mondo del lavoro e della produzione; principalmente, c’è una insufficiente elaborazione di progetti, con la conseguente scadente incisività nell’azione di governo delle forze sociali più deboli.

La sinistra, o meglio il PD, è stata, in questi ultimi anni, una forza statica. Non ha saputo avere una capacità chiara e incisiva di incidere nei processi sociali, economici e culturali di questi decenni.

Anche la fusione a freddo, tra un ipotetico riformismo liberalsocialista (Macaluso-Petruccioli op. cit.) ed esponenti della sinistra democristiana è avvenuta senza una vera compartecipazione popolare.

Al centro dell’operazione c’è la visione “conservatrice” da parte di quella che viene definita dagli addetti ai lavori la “ditta”, cioè la leadership che garantisce il crisma del “socialismo reale”:

parliamo, cioè, della tutela della tradizione del partito berlingueriano.

Il risultato è una aggregazione elettorale dei soliti noti che prescinde da qualsiasi diagnosi aggiornata degli squilibri sociali e da un’ipotetica terapia.

Su questo tema, Massimo Salvadori scrive che, dopo il crollo del muro di Berlino, la maggioranza del Pci deliberò “la propria inevitabile trasformazione in un’altra cosa”. Tuttavia, “diverse parti

dell’esercito ex comunista adottarono linee volte o a negare o a limitare la portata del cambiamento”. Inoltre, si formò la corrente dei “comunisti democratici” che si era prefissata di combattere dall’interno le prospettive di socialdemocratizzazione del nuovo Partito, che nascerà dalle ceneri del Pci (Massimo Salvadori “La sinistra nella storia italiana”).

Questo giudizio non solo spiega la non incisività della fusione delle due principali componenti (ex PCI e ex DC) nell’elaborazione programmatica, ma induce anche a ritenere che, da sempre, vi è stata un’assenza di reali prospettive riformiste nell’azione politica del PD.

Vi sono le premesse per una svolta politica che promuova una nuova capacità laica, democratica e popolare di trasformazione della società. La risposta ai problemi qui posti non risolve il presidenzialismo.

Tre, invece, possono essere i punti di partenza per promuovere una nuova fase di trasformazione della società italiana. Il primo è che il capitalismo non si identifica necessariamente con il “neo-liberismo”: il modello capitalista, infatti, non vive unicamente di “neo-liberismo”, per cui è un sistema riformabile. Per ottenere questo risultato, le riforme strutturali del sistema produttivo necessarie possono essere terreno di incontro delle forze riformiste.

L’ipotesi aggregante è la condivisione della sostenibilità di un capitalismo riformato. Come scrive Giuliano Amato, “occorrono democrazie governanti; non sono socialmente utili le democrazie passive racchiuse nel presente. (G. Amato “Bentornato Stato, ma”).

Il secondo punto è che la positiva diversità dei numerosi mondi vitali presenti in Italia (come insegnano gli studi di Achille Ardigò) favorisce le alleanze riformiste tra i partiti, molto meno le fusioni. In questo senso, va ridimensionato il peso politico delle manovre economiche a breve termine che, essendo normalmente a pioggia, non tutelano gli interessi strutturali dei ceti medio-bassi: i lavoratori dipendenti, gli autonomi, i piccoli imprenditori, le donne. La loro coesione sociale è di per sé un potenziale di valore e di ricchezza economica.

Il terzo punto: il premio di produttività va legato ai risultati nel settore pubblico e privato. Premiare la professionalità, bandire la partitocrazia con l’unificazione dei due mercati del lavoro (privato e pubblico), cercare sinergie tra il capitale e il fattore lavoro: il motore non è la lotta di classe, l’obiettivo è lo spirito della comunità olivettiana.

Infine, tra le riforme del mondo del lavoro e della produzione c’è la partecipazione dei dipendenti agli organi di governo delle società di capitali per una reale applicazione delle procedure di informazione e di gestione.

Un passaggio per ridurre il malessere esistente nel mondo produttivo è, anche, affrontare il tema della democrazia in fabbrica: va perseguito un ribaltamento dell’attuale verticismo sindacale a favore della partecipazione dal basso. Inoltre, vanno promossi investimenti pluriennali in “beni collettivi” per la crescita della competitività: creare, cioè, uno scenario di stabilità occupazionale per vincere la paura del futuro.

Le misure qui evidenziate vanno nella direzione non solo di “correggere” il “neo-liberismo”, ma di realizzare anche un neo-capitalismo democratico cioè un modello dinamico capace di tenere insieme una equilibrata giustizia sociale, la riduzione delle disuguaglianze sociali, il rafforzamento delle istituzioni democratiche, livelli di produttività competitivi a livello internazionale.

In antitesi alla logica del modello neo-liberista e della coerente riforma presidenzialista della Costituzione italiana, il neo-capitalismo democratico consente di gestire politiche industriali che possono ridurre le disuguaglianze economiche con un aumento del reddito dei lavoratori, di attuare una riqualificazione permanente del capitale umano con una riduzione dell’obsolescenza tecnologica, di ottenere una incisiva rappresentanza territoriale dei gruppi sociali più deboli grazie ad una efficiente ed efficace vicinanza tra le Istituzioni e i cittadini.

In conclusione, una nuova politica di trasformazione della nostra società non passa attraverso politiche di neo-presidenzialismo, coerenti con il modello neo-liberista, bensì grazie a processi di coesione sociale radicati in un rinnovato capitalismo democratico.

 

 

 

 

 

 

 

 

TERZA PARTE

IL MONDO DEL LAVORO AL FEMMINILE

 

 

 

IL MONDO DEL LAVORO AL FEMMININLE di Isa Maggi

 

Buonasera a tutti i nostri amici che ci seguono, un saluto alle meravigliose relatrici presenti in questo webinar ed un ringraziamento particolare a Roberto Pertile.

Mi presento velocemente:

sono una donna di 62 anni, moglie con lo stesso marito da 40 anni e madre di 4 figli, 3 maschi e 1 femmina. La mia attività professionale inizia come psicologa dell’età evolutiva ed è proseguita come insegnante irc nella scuola primaria, da qualche anno impegnata in politica ora sono nel coordinamento nazionale del partito Insieme. Da qualche mese sto lottando con un tumore ma non intendo mollare come spesso tocca a noi donne.

Detto questo

Ho pochi minuti e dunque inizierò subito nel tentativo di offrire una riflessione sul tema del lavoro al femminile partendo da un presupposto per me fondamentale da cui partire per poi arrivare via via alla concretezza dell’argomento.

Signori miei dobbiamo ripartire dal seguente concetto, presente in ogni cultura e religione del mondo, che esalta il lavoro perché lavorare è come partecipare all’opera creatrice di Dio e l’uomo e la donna sono i collaboratori per eccellenza di questa creazione. Per chi non è credente rimane sempre il valore della cooperazione tra uomini che trovano nel lavoro lo strumento più alto per la costruzione di un popolo.

Da qui è giusto recuperare il valore e la sacralità del lavoro stesso.

Pensiamo che già dalle origini dell’uomo il dedicare alle divinità il raccolto il bestiame era collegato alla ritualità del ringraziamento e dell’affidamento e dunque possiamo affermare che da sempre il lavoro è un segno di alto significato.

Ora se questo è vero, nella donna il discorso si fa doppiamente importante: sia perché la donna è portatrice di vita, conduce la vita di un’altra persona per nove mesi, sia perché ANCHE la donna nel lavoro diventa collaboratrice per eccellenza dell’opera della Creazione.

Detto questo scendiamo nel concreto e cerchiamo di declinare al meglio questo concetto così alto sulla bellezza e particolarità che ha il lavoro al femminile.

E’ presto detto, se prima non diamo valore e significato alle azioni che l’uomo e la donna intraprendono nella vita, difficile sarà promuovere una politica attenta ai bisogni delle persone.

Nel caso della donna che lavora, una buona politica dunque guarderà al suo duplice ruolo nella società cioè sia come madre e come lavoratrice impegnata, attraverso il lavoro, all’opera costruttiva della società stessa.

Dunque questo duplice ruolo va protetto, custodito e salvaguardato.

Al fine di tutelare questa funzione svolta dalle donne lavoratrici e madri in ambito familiare e, più in generale, per garantire loro una parità di trattamento in tema di pari opportunità anche in ambito lavorativo, l’art. 37 della Costituzione afferma che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Purtroppo oggi vediamo ancora negato nei fatti questo articolo, nel senso che la donna porta con sé un vissuto conflittuale. Quando progetta la sua vita è difficile che le due dimensioni “maternità e lavoro” possano convivere con armonia. Anzi spesso, con rarissime eccezioni, la maternità è vista dal datore di lavoro come un problema, un sovraccarico economico perché lo stesso stato e governo italiano non la contempla come una ricchezza e risorsa per il futuro del Paese. Tutto il problema che viviamo mi sembra abbastanza evidente ma ancora forse non vissuto come drammatico evidentemente.

Es. Licenziata dalla scuola perché sposata avrei potuto avere un figlio

In questa prospettiva noi come partito Insieme desideriamo fortemente questa trasformazione culturale dove alla donna siano rivalutati entrambi gli apporti, maternità e lavoro, così fondamentali.

Ovviamente la mia missione esalta l’essere donna in quanto creatura che meglio può sintetizzare tutti gli ingredienti necessari perché qualsiasi tipo di attività lavorativa, grazie al suo genio come affermava Papa Giovanni Paolo II, possa essere realizzata.

Infatti leggiamo al n. 295 del Compendio della DSC

Il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale, perciò va garantita la presenza delle donne anche in ambito lavorativo. Il primo indispensabile passo in tale direzione è la concreta possibilità di accesso alla formazione professionale. Il riconoscimento e la tutela dei diritti delle donne nel contesto lavorativo dipendono, in generale, dall’organizzazione del lavoro, che deve tener conto della dignità e della vocazione della donna, la cui «vera promozione… esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l’abbandono della famiglia, nella quale ha come madre un ruolo insostituibile» 636. È una questione su cui si misurano la qualità della società e l’effettiva tutela del diritto al lavoro delle donne. La persistenza di molte forme di discriminazione offensive della dignità e vocazione della donna nella sfera del lavoro è dovuta ad una lunga serie di condizionamenti penalizzanti per la donna, che è stata ed è ancora «travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in schiavitù».637 Queste difficoltà, purtroppo, non sono superate, come dimostrano ovunque le diverse situazioni che avviliscono le donne, assoggettandole anche a forme di vero e proprio sfruttamento. L’urgenza di un effettivo riconoscimento dei diritti delle donne nel lavoro si avverte specialmente sotto l’aspetto retributivo, assicurativo e previdenziale.

Scendendo ancora di più nel concreto oggi molte donne nell’intraprendere un lavoro sono costrette a posticipare l’arrivo di un figlio o addirittura negarlo.

Questo è un grave problema dovuto ancora una volta all’incapacità dei nostri decisori politici che guardano all’immediata senza una visione profetica e prospettica del futuro del Paese.

 

SECONDA PARTE

Il lavoro al femminile riporta immediatamente al discorso per la donna sono più adatti certi lavori rispetto ad altri.

Nel tempo ma ancora oggi la donna vive soprattutto come sfida questo discorso e vediamo che la sua presenza ormai è in tutti gli ambiti lavorativi a cominciare dalle forze armate, nell’area aerospaziale, con le quote rosa si è cercato di promuovere questa presenza femminile in campo politico anche se ancora c’è molto da fare. Anche se io non lascerei del tutto la questione legata alla differenza che di fatto sottolinea la natura stessa.

L’uomo e la donna sono effettivamente due creature che vanno a completarsi e dunque andrebbero ricercati più gli aspetti che li uniscono e rispettati gli aspetti che li dividono es. chef uomo/donna si.

Lavoro ad una cava lo vedrei poco adatto per una donna…

Es. Da giovane insegnare mi ha permesso di poter allevare 4 figli oggi non sarebbe più possibile visto che si sta sempre a scuola con i tanti problemi che la scuola oggi vive e devo dire sempre più in corsa verso la morte dell’educativo in nome di un “aziendificio”, perdonatemi il termine.

Oggi certamente come insegnante non avrei potuto avere 4 figli e torniamo al problema della denatalità.

 

 

 

 

L’IMPRESA AL FEMMINILE di Serena Agostini

 

Grazie ancora della sempre splendida occasione di incontro promossa dal Vostro Gruppo.

Premesso il fatto che ho apprezzato tantissimo tutte le relazioni e gli interventi, mi permetto di sottolineare la ‘potenza’ del messaggio trasmesso da Isa con le sue parole che sgorgavano da un’esperienza durissima che è scaturita in un bene straordinario. Non aggiungo altro, ma ho provato un senso di vicinanza ed immedesimazione incredibili. Inoltre un abbraccio a Eleonora, splendida e profonda guerriera: siamo al Tuo fianco!

Passando ai contenuti del mio intervento, li riassumo come da Te richiesto come segue:

La questione femminile è storicamente ‘giovane’ e credo ne vadano contemplati i tempi di radicamento e contaminazione a livello culturale (le giovani generazioni in questo senso dimostrano maggiore maturità) senza eccessivamente colpevolizzare o sminuire i già importantissimi passi avanti che si sono fatti dal 1946 ad oggi.

Credo sia venuto il momento di abbandonare il seppur valido strumento delle ‘quote rosa’ che hanno certo lavorato come acceleratori culturali, ma che oggi rischiano di creare delle riserve addirittura controproducenti;

Il tema della conciliazione famiglia-lavoro è importante e va sicuramente sostenuto attraverso una legislazione di sostegno (asili nido gratis-Lombardia, nidi aziendali, congedi parentali, deducibilità delle spese per l’infanzia)

Il tema del lavoro ha a che fare non solo con la produzione di PIL, ma anche con l’indipendenza, la libertà e la gratificazione personale della donna

In Azienda sono sicuramente da favorire misure di elasticità quali il part-time, smart-working, lavoro per obiettivi.

Tengo a precisare che il dato di accesso al lavoro medio nazionale da parte della popolazione femminile è fortemente inficiato dal grande scarto tra Nord e Sud e questo dovrebbe indurci ad esportare le best-practices nei territori in cui la % è oggettivamente preoccupante.

 

Credo di non dover aggiungere altro, se non rinnovare i miei ringraziamenti per il dibattito e rivolgere a Voi ed alle Vostre Famiglie i migliori auguri per le prossime Festività.