INSIEME pubblica il III° Quaderno curato da Roberto Pertile, responsabile del Dipartimento delle Politiche Industriali, dal titolo “Questa economia non ama la persona” (CLICCA QUI).

Il quaderno è diviso in tre parti: 

-“A questa economia non piace la persona umana”

-“Prospettive economiche”

-“Il mondo del lavoro al femminile”

Quello che segue è il contributo di Daniele Ciravegna,  dal titolo “Pnrr, criticità e prospettive”, elaborato nel gennaio 2023

 

  1. Sguardo d’insieme

L’analisi che segue riguarda principalmente alcuni aspetti della valutazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) inviato dal Governo italiano alla Commissione europea, a fine aprile 2021. Ciò non può essere fatto se non si hanno presenti gli elementi qualitativi del Programma Next Generation EU, per la cui realizzazione sono stati varati i PNRR in parola.

Questi elementi qualitativi possono essere trovati nel Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio (Regolamento 2021/241 del 12.02.2021) che ha costituito il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (DRR), il quale, all’art. 3, prevede le aree d’intervento di pertinenza europea strutturate in sei pilastri:

a) transizione verde, cui destinare non meno del 37 per cento del totale delle risorse del PNRR;

b) trasformazione digitale, cui destinare non meno del 20 per cento del totale delle risorse del PNRR;

c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, che comprenda coesione economica, occupazione, produttività, competitività, ricerca, sviluppo e innovazione, mercato interno ben funzionante con PMI forti;

d) coesione sociale e territoriale;

e) salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, al fine, fra l’altro, di rafforzare la capacità di risposta alle crisi e la preparazione alle crisi;

f) politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze.

Inoltre, all’art. 4 viene indicato che «obiettivo generale del Dispositivo è promuovere la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione migliorando la resilienza, la preparazione alle crisi, la capacità di aggiustamento e il potenziale di crescita degli stati membri, attenuando l’impatto sociale ed economico della crisi COVID-19, in particolare sulle donne, sostenendo la transizione verde, contribuendo all’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali, sostenendo la transizione verde, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Unione per il 2030 […] nonché al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica dell’UE entro il 2050 e della transizione digitale, contribuendo in tal modo alla convergenza economica e sociale verso l’alto, a ripristinare e a promuovere la crescita sostenibile e l’integrazione delle economie dell’Unione e a incentivare la creazione di posti di lavoro di alta qualità nonché contribuendo all’autonomia strategica dell’Unione unitamente a un’economia aperta e generando un valore aggiunto europeo». Semplice e chiaro, no?

I PNRR dei singoli paesi hanno potuto aggiungere altri obiettivi rafforzativi rispetto ai sei pilasti predetti, come il PNRR italiano che ha indicato, quale priorità trasversale, che il Piano destini mediamente il 40 per cento delle risorse al Mezzogiorno.

  1. Criticità

La prima criticità riguarda la grave scarsità delle informazioni indispensabili per monitorare e valutare la realizzazione del PNRR (vedi il mio “Maggiore trasparenza nell’attuazione del PNRR”, in Politica Insieme, 11.12.2022).

Una recente nota di L. Rizzo, R. Secomandi e A. Zanardi (Lavoce.info, 21.01.2023) permette di ampliare il quadro delle deficienze presenti in questo contesto.

Premetto che la realizzazione del PNRR dev’essere monitorata da due diverse prospettive. La prima è quella del raggiungimento dei milestone (“traguardi”, di natura qualitativa) e dei target (“obiettivi”, di natura quantitativa) semestrali programmati, a cui si collegano le scadenze per l’erogazione delle rate di finanziamento da parte della Commissione Europea. Da questo punto di vista, a inizio del 2023, il PNRR italiano non risulta pienamente attuato: le condizioni relative alle scadenze del secondo semestre del 2022 non sono state tutte soddisfatte. Secondo il monitoraggio effettuato da Openpolis – “fondazione romana senza fini di lucro produttrice di dati di qualità per la comunità e le istituzioni”, che ha attivato il progetto OpenPNRR e produce una newsletter dedicata – a inizio 2023, 14 scadenze europee, sulle 55 previste per il secondo semestre 2022, risultano ancora non completate. L’incompletezza di molte di queste scadenze può essere spiegata da motivi legati alle tempistiche burocratiche e amministrative e ai loro difetti. Altre scadenze richiedono l’effettiva realizzazione di interventi, ma il mancato accesso ai documenti non permette di risalire alle cause delle inadempienze operative. Per un motivo o per l’altro non è stato possibile dichiarare il completamento della scadenza, quindi l’avvio della richiesta e il rilascio delle risorse PNRR (3^ rata per 21,8 miliardi di euro).

A questo proposito, val la pena di annotare che la Commissione europea finora ha valutato con una certa flessibilità l’operato dell’Italia sul PNRR: è più politico che tecnico e ciò è stato evidente nei confronti del Governo Draghi. Si tratta di vedere se continuerà nei confronti del nuovo Governo.

La seconda prospettiva è appunto il confronto tra le spese programmate con le risorse del DRR e le spese effettivamente realizzate o che si prevede di realizzare nell’arco degli anni 2020-2026. La predetta nota pubblicata su Lavoce.info mette in evidenza, per quello che è possibile, la discrepanza fra le spese programmate e quelle realizzate nel triennio 2020-2022: si tratta di valori globali e le prime superano le seconde per 26,7 miliardi di euro, che si programma di recuperare negli anni 2024-2026. Secondo la stessa fonte, la NADEF (“Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza”) del 2022 e la “Seconda relazione sullo stato di attuazione del PNRR” di Italiadomani (5.10.2022) motivano i predetti slittamenti della spesa con due ordini di considerazioni. «La prima è che le spese effettivamente realizzate sono in realtà maggiori di quelle contabilizzate per i ritardi di registrazione nel sistema Regis, l’infrastruttura progettata dalla Ragioneria Generale dello Stato per la gestione e il monitoraggio del PNRR, che è ancora largamente incompleta. La seconda, più sostanziale, è che la concreta attuazione dei progetti del PNRR si sta rivelando più complessa del previsto: il ritardato avvio di alcuni progetti riflette, oltre ai tempi di adattamento alle procedure innovative del PNRR, gli effetti dell’impennata dei costi delle opere pubbliche.

«Sarebbe assai interessante capire in quali aree d’intervento si concentrano di più le criticità e quindi i ritardi delle erogazioni effettive. Purtroppo le informazioni ufficiali riportano soltanto dati aggregati sulla spesa finora realizzata e sulle previsioni, senza alcuna articolazione per missioni/componenti/investimenti».

  1. Prospettive

In presenza di forte carenza di informazioni circa il già realizzato, diventa difficile fornire chiare prospettive per il futuro, che saranno condizionate dai rinvii al futuro delle minori spese effettive rispetto a quelle programmate del passato. La predetta “Seconda relazione di Italiadomani sullo stato di attuazione del PNRR” fornisce dati in proposito, secondo il profilo programmatico, sempre a livello estremamente aggregato e con riferimento alle sole risorse del DRR:

ANNI                                       UTILIZZO RISORSE (in miliardi di euro)

2020-21                                                         5,5

2022                                                             15,0

2023                                                              40,9

2024                                                              46,5

2025                                                              47,7

2026                                                              35,9

———-

TOTALE                                                        191,5

 

Sarebbero quindi i 4 anni finali quelli maggiormente coinvolti nella realizzazione della mole di realizzazioni del PNRR. In questi anni si avrà una rilevante spinta dal lato della domanda e dell’offerta (per effetto degli investimenti che saranno fatti con l’attuazione del Piano stesso). Secondo le proiezioni del modello econometrico del MEF – fatte proprie dal Presidente Draghi nella Premessa all’ultima versione del PNRR italiano – le risorse impiegate del PNRR dovrebbero portare il PIL del Paese, nel 2026, a un livello di 3,6 punti percentuali più alti rispetto all’andamento tendenziale (senza PNRR) e, nel triennio 2024-26, il livello dell’occupazione aggregata dovrebbe essere più alto di 3,2 punti percentuali.

Ma i predetti risultati previsti non potranno non scontare le rilevanti variazioni intervenute nel contesto economico mondiale successivamente al 2021. Mi riferisco alla crisi del fenomeno della globalizzazione economica, all’emergere di conflitti economici fra le diverse macroaree, al sorgere di rilevanti spinte inflazionistiche nelle diverse economie.

Voglio soffermarmi sull’ultimo evento, l’inflazione dei prezzi, considerata da molti, anche con cultura economica non bassa, come la più grave malattia dell’economia. Tra questi troviamo anche Christine Lagarde, Presidente della BCE, la quale – peraltro non scevra di dichiarazioni ad effetto, che poi talvolta si rimangia – ha dichiarato recentemente che la BCE deve mettere in atto una rilevante politica monetaria restrittiva per portare l’inflazione nell’Eurozona sotto il 2 per cento annuo, con ciò mostrando di voler seguire alla lettera la politica della stabilità monetaria soprattutto, che era stata proprio di un suo predecessore, Jean-Claude Trichet, ma non del suo immediato predecessore, Mario Draghi.

Lagarde appartiene al filone di pensiero monetaristico secondo il quale le banche centrali devono interessarsi solamente della stabilità dei prezzi e, per far ciò, devono essere del tutto indipendenti dai governi delle nazioni (isolate o consociate). Unico caso a livello macroeconomico in cui un organismo pubblico è sottratto all’influenza di un qualche Governo.

Nello statuto della BCE è scritto che il suo scopo principale è mantenere la stabilità dei prezzi. Fatta salva la stabilità dei prezzi, la BCE e le banche centrali dell’Eurozona possono muoversi, in modo del tutto autonomo, nella ricerca di una crescita equilibrata e competitiva che punti alla piena occupazione e al progresso sociale. Se si guarda allo statuto della Federal Reserve statunitense, si scopre che, invece, il primo compito della sua politica monetaria è la massima occupazione, seguito dalla stabilità dei prezzi e da tassi d’interesse moderati nel lungo periodo.

Ora, è certamente vero che l’inflazione dei prezzi, se ha un certo livello e una certa durata, può influire sulle aspettative inflazionistiche in modo tale da rendere difficile o impossibile – se non cambiando la moneta – il rientro dall’inflazione stessa, ma la preoccupazione per quest’ultimo fatto ha sottostante il pensiero che l’inflazione sia, di per sé, un fenomeno negativo da evitare a qualsiasi costo e che la via per il rientro debba passare attraverso la restrizione monetaria che crea restrizione della domanda aggregata.

L’aumento dei prezzi è indubbiamente fonte di disagio poiché fa variare il potere d’acquisto della moneta; cioè, in un’economia nella quale le transazioni economiche e finanziarie vengono definite in termini monetari, fa variare l’unità di misura adottata, creando confusione. Se ogni anno il metro con cui si misurano le distanze fosse ridefinito, riducendone o aumentandone la lunghezza, si creerebbero confusione e inconvenienti: nel misurare una distanza sarebbe infatti indispensabile specificare se la misura è in metri del 2020 o in metri del 2021 o in metri del….. Analogamente, il metro monetario diventa un’unità di misura poco utile e genera confusione quando il suo potere d’acquisto varia continuamente nel corso del tempo.

Dato per assodato questo costo dell’inflazione dei prezzi, abbiamo che ne esistono altri, i quali sono differenti a seconda che l’inflazione sia prevista o imprevista. Se l’inflazione fosse prevista, se ogni aumento dei prezzi dei beni acquistati fosse compensato da un uguale aumento dei redditi, se tutti i redditi fossero, per così dire, pienamente indicizzati ai prezzi, l’unico effetto dell’inflazione sarebbe quello di moltiplicare tutti i prezzi e tutti i redditi nominali moltiplicandoli per un fattore maggiore di 1, senza influire in alcun modo sulle grandezze reali (a parte i cosiddetti costi di revisione dei menù, dati dal consumo di risorse reali derivante dall’aggiornamento dei prezzi, dalla revisione dei cataloghi di vendita, dalla riprogrammazione delle macchine distributrici di prodotti e dalla rinegoziazione delle remunerazioni, a meno che queste ultime siano perfettamente indicizzate all’andamento dei prezzi.

L’inflazione dei prezzi non è comunque un fenomeno caratterizzato da prezzi e da redditi che aumentano tutti nella stessa misura e in modo perfettamente previsto; anzi, tanto più la media dei prezzi aumenta tanto più ne aumenta anche la varianza. I prezzi relativi vengono quindi a essere alterati in modo rilevante durante i periodi inflazionistici e tanto più quanto maggiore è l’inflazione. Viene così fortemente ridotta l’efficienza del meccanismo dei prezzi, il che provoca probabilmente distorsioni nell’allocazione delle risorse fra le diverse produzioni. Inoltre, all’aumentare del tasso medio d’inflazione, solitamente cresce la volatilità delle variazioni di mese in mese, con il che aumenta il rischio delle scelte di investimento e di produzione e, a meno che gli imprenditori siano propensi al rischio, ciò creerebbe intoppi alla crescita economica. Ma questa possibile correlazione di segno negativo fra inflazione e crescita economica non è comunque robustamente confermata sul piano empirico.

Poiché l’inflazione dei prezzi non è perfettamente prevedibile, essa produce certamente alterazioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza all’interno del sistema economico fra gruppi sociali: 1) fra i percettori di reddito fisso e i percettori di reddito variabile; 2) fra i percettori di salario e i percettori di profitto; 3) fra i debitori e i creditori e altri ancora.

Sulla prima alternativa, va da sé che l’inflazione dei prezzi danneggia i primi rispetto ai secondi. Sulla seconda, tutto dipende dal fatto che i salari crescano più rapidamente o più lentamente dei prezzi; si può prevedere che l’inflazione da domanda tenderà a far aumentare la quota relativa dei profitti all’interno del reddito nazionale, mentre l’inflazione da costi (del lavoro) presumibilmente favorirà i percettori di salario a spese dei profitti. È evidente che l’aumento dei prezzi danneggia i creditori a vantaggio dei debitori, a meno che l’aumento dei prezzi non venga integralmente trasferito sui tassi d’interesse nominali, a salvaguardia dei livelli dei tassi d’interesse reali. In presenza d’imposizione fiscale progressiva, l’aumento dei prezzi fa aumentare il valore nominale dei redditi imponibili, con il possibile scatto verso aliquote marginali crescenti (cosiddetta imposta da inflazione). Ciò ha un significato di tipo riequilibrante nella distribuzione del reddito nazionale, a maggior ragione se lo Stato utilizza il gettito da imposta da inflazione nella direzione di aumentare l’erogazione di servizi gratuiti o di sussidi monetari ai bisognosi e alle fasce di reddito più basse.

I dati mostrano che i costi reali effettivi dell’inflazione sono contenuti e che gli effetti redistributivi dell’inflazione sono aleatori e tendono a operare in direzioni imprevedibili. Ciò non di meno, l’inflazione crea preoccupazione agli occhi della gente; v’è paura che anche l’inflazione di oggi finisca, prima o poi, per accelerare, tramutandosi in iperinflazione, come quella tedesca dei primi Anni Venti del secolo scorso, l’iperinflazione cinese e quella ungherese degli Anni Quaranta del secolo scorso e le più recenti iperinflazioni registrate in alcuni paesi dell’America Latina e dell’Europa Orientale.

Ma normalmente l’inflazione non manifesta sempre un andamento cumulativo tale da evolvere in iperinflazione. Ciò anche perché difficilmente l’inflazione può essere completamente anticipata: si dice che gli agenti economici soffrono tipicamente di illusione monetaria, cioè le loro aspettative non riescono a rendersi del tutto conto della dinamica effettiva dell’inflazione.

A questo punto, tirando le fila delle argomentazioni finora svolte, appare stupefacente che molti economisti, banche centrali, uomini politici, giornalisti possano credere veramente che l’inflazione sia la radice di tutti i mali dell’economia – per cui deve essere sùbito soffocata al manifestarsi dei primi sintomi – e che la stabilità dei prezzi sia l’unica vera ricetta per la crescita economica. Quest’affermazione, oltre che non essere corroborata dall’evidenza empirica, è priva anche di robusto fondamento teorico.

Ad ogni modo, il ragionamento che porta alla necessità d’introdurre una forte riduzione della domanda aggregata può avere una sua validità nel caso in cui l’inflazione sia da domanda aggregata che supera l’offerta aggregata, con la politica restrittiva che elimina l’eccesso di domanda), ma non nel caso in cui i prezzi sono spinti all’insù dai costi, quale è la situazione attuale in gran parte del mondo: aumento rilevante dei prezzi dell’energia e delle altre materi prime e per la presenza di colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento di beni intermedi e finali. Nel secondo caso, si viene a creare un eccesso della domanda rispetto all’offerta, non per aumento della prima – che può richiedere un aggiustamento della stessa verso il basso, con un’operazione chirurgicamente precisa che riduca l’eccesso di domanda – ma per mancanza della seconda, che spinge all’insù i costi e i prezzi di produzione, scatenando anche l’aumento dei salari, probabile causa di ulteriori aumenti dei prezzi.

Specie nel caso d’inflazione da costi, una significativa flessione della domanda aggregata non potrebbe non avere effetti negativi sull’attività produttiva; effetti che non potrebbero non avere effetti negativi sull’occupazione del lavoro: effetti negativi sulla produzione che non potrebbero che avere effetti negativi sull’occupazione del lavoro. In altri termini, non potrebbe che far aumentare l’inoccupazione, in una delle varie forme che questa può assumere: persone senza occupazione in cerca di essa (i disoccupati), ma anche persone sottoccupate in termini di ore di lavoro svolte (part-time involontario) o di qualità di prestazioni lavorative rispetto alla propria qualificazione, ma anche lavoratori sospesi (in cassa integrazione guadagni, diciamo in Italia), ma anche persone in età lavorativa senza occupazione e che non la cercano attivamente in quanto scoraggiati nella ricerca per gli insuccessi avuti in passato, ma anche lavoratori occupati con elevata precarietà nel rapporto di lavoro, i quali presentano stati occupazionali, per certi versi – la dignità del lavoratore, in primis – simili all’inoccupazione.

Siamo arrivati al bivio fra provocare un freno alla domanda aggregata, che potrebbe contenere l’ulteriore aumento dei prezzi, ma che verosimilmente farebbe aumentare l’inoccupazione (in una delle varie forme che essa può assumere) oppure non attivare questo freno sulla domanda aggregata al fine di non provocare un aumento dell’inoccupazione ma, allo stesso tempo, non provocare un contenimento dell’inflazione.

La scelta fra le due vie da imboccare deve passare attraverso il confronto fra i costi individuali e sociali che verosimilmente si avranno seguendo o l’una o l’altra.

Ho già detto dei costi individuali e sociali dell’inflazione. Che dire a proposito dei costi dell’inoccupazione? L’inoccupazione ha un primo costo a livello macroeconomico rappresentato dalla mancata produzione di beni che i lavoratori inoccupati avrebbero potuto realizzare. Al costo sociale, che deriva dalla non utilizzazione della forza lavoro disponibile, corrisponde un costo personale e famigliare costituito dal mancato reddito, il quale costo può però essere reso collettivo attraverso l’intervento redistributivo della Pubblica Amministrazione, che attui una chiara redistribuzione in quanto finanzia le provvidenze a favore degli inoccupati riducendo, tramite il prelevamento fiscale, il reddito disponibile dei soggetti che percepiscono un reddito ritenuto adeguato. Diventa meno chiaro l’effetto redistributivo se i trasferimenti agli inoccupati sono finanziati con la creazione di base monetaria.

Il costo personale non è però solo economico, in quanto il lavoratore privo di occupazione, oltre che per la mancanza retribuzione (al netto dei costi opportunità dell’attività lavorativa, comprese le provvidenze previste per gli inoccupati), può soffrire anche per sentirsi escluso dal contesto economico-sociale dal quale è stato espulso, o nel quale non riesce a inserirsi, e può andar incontro a processi di emarginazione sociale e, mentre il costo di tipo economico può essere in qualche modo assorbito all’interno del nucleo famigliare – che agisca quale stanza di compensazione dei rischi e dei benefici economici dei propri membri – è più difficile che compensazioni di questo genere possano lenire, se esistono, le sofferenze d’ordine psichico e riguardanti le relazioni interpersonali. Anzi è possibile che lo stato d’inoccupazione porti al sorgere di tensioni all’interno dello stesso nucleo famigliare, che possono portare a incomprensioni e scontri personali.

Nel valutare i costi dell’inoccupazione, occorre quindi aggiungere, ai costi reali, rappresentati dalla perdita di produzione e di reddito rispetto al potenziale, gli effetti duraturi dell’inoccupazione sulla salute mentale e fisica degli inoccupati, per non parlare delle conseguenze dei possibili comportamenti criminali degli inoccupati a danno degli altri membri della comunità.

Un altro costo rilevante, di natura individuale e collettiva, è la perdita permanente di qualificazione, di abilità professionale, di capacità a svolgere attività lavorativa da parte del lavoratore che non svolga tale attività per un periodo di tempo prolungato. Dal momento che, in ogni curriculum formativo, vengono impiegate direttamente e indirettamente anche risorse collettive, il disinvestimento è anche in termini di capitale umano della comunità e non solo individuale.

Al di sopra delle tecnicalità sopra riportate esiste il piano valoriale, il piano dei valori che discendono dai principi fondamentali che ogni persona ha. Per una persona che ha, come tali, il principio della centralità e dignità della persona, unito al principio della fraternità intracomunitaria e universale (principi propri della Dottrina sociale della Chiesa), il giudizio di fondo è che chi è inoccupato o svolge lavori precari o sottopagati perde in dignità personale, e ciò deve essere evitato a ogni costo.

Daniele Ciravegna

 

 

 

About Author