1. Per gran parte dei commentatori, la portata dirompente della sentenza della Corte costituzionale tedesca sta nella pretesa di sottrarsi ai vincoli della pronuncia della Corte di Giustizia europea di Lussemburgo: “Tre sono gli aspetti di violazione del diritto comunitario. Il primo è legato alla politica monetaria: competenza esclusiva dell’Unione. Il secondo è il principio secondo il quale le sentenze della Corte europea di giustizia sono vincolanti per le magistrature nazionali. Infine, la sentenza di Karlsruhe mette in dubbio la supremazia del diritto comunitario sul diritto nazionale”, così Federico Fabbrini, professore di diritto europeo alla Dublin City University.
Norbert Röttgen, candidato alla successione della Merkel alla guida della Cdu, è stato esplicito: “In ogni ordine giuridico c’è una autorità che ha l’ultima parola. Nella interpretazione del diritto europeo, l’ultima parola spetta alla Corte europea di giustizia”. A voler tacere della Presidente, di nazionalità tedesca, della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha addirittura annunziato una procedura di infrazione in danno della Germania per la pretesa della Corte costituzionale tedesca di non adeguarsi al decisum della Corte del Lussemburgo: “la Commissione europea tiene fermi tre princìpi di base: che la politica monetaria dell’Unione è una materia di competenza esclusiva; che la legislazione EU ha il primato sulla legge nazionale e che le decisioni della Corte europea di Giustizia sono vincolanti per tutte le Corti nazionali. La parola finale sulla legge EU viene sempre detta in Lussemburgo. Da nessuna altra parte. Stiamo analizzando ora in dettaglio la pronuncia della Corte costituzionale tedesca. E stiamo valutando possibili passi ulteriori, che possono includere l’opzione di procedure di infrazione”.
“La Corte costituzionale tedesca, infatti, riconosce che spetta agli eurogiudici interpretare il diritto Ue anche per assicurare «uniformità e coerenza del diritto dell’Unione» e garantire che le rispettive funzioni giudiziarie siano esercitate in modo coordinato, ma agli Stati membri non può essere impedito un esame sulla circostanza che un atto adottato nel contesto Ue sia ultra vires. In caso contrario – ammonisce la Consulta tedesca – sarebbe concessa alle istituzioni Ue un’autorità esclusiva anche quando un’interpretazione porta a un allargamento delle competenze fissate nei Trattati. Così, i giudici di Karlsruhe si riappropriano del potere di accertare se un atto che arriva da Francoforte è ultra vires: in questi casi non vi è alcuna copertura dell’articolo 19 (che si occupa della Corte di giustizia) del Trattato di Lisbona e l’adozione dell’atto diventa privo di legittimazione democratica”: così Marina Castellaneta, Il Sole 24 Ore del 6 maggio 2020.
2. Proprio la legittimazione ad affermare l’ultra vires da parte del giudice nazionale sembra la radice del contrasto. Il termine, nella terminologia anglosassone, indica, infatti, l’eccesso di potere, che la Corte di Karlsruhe attribuisce alla Corte europea per la dichiarata sua esorbitanza dalle attribuzioni istituzionali di cui ai Trattati. La Corte Costituzionale federale afferma, infatti, che “il mandato conferito dall’art. 19 I co. cpv. TEU è in eccesso laddove i tradizionali metodi europei di interpretazione o, più generalmente i principi legali generali, comuni alle leggi degli Stati Membri, sono manifestamente trascurati” [1], per cui “il punto di vista(della sentenza CJEU del 11/12/2018) non considera l’importanza e la finalità del principio di proporzionalità (art. 5 I co. cpv. e IV co. TEU) – che si applica alla divisione delle competenze tra l’Unione Europea e gli Stati Membri – ed è semplicemente insostenibile in una prospettiva metodologica che completamente trascura i reali effetti della politica economica del programma”.
Eppure, in virtù dell’allargamento delle competenze della CJEU con la riforma di Lisbona (2007-2009) dei Tre Pilastri (trattato di Maastricht 1992-1993, di Amsterdam 1997-1999 e di Nizza 2001-2003), i c.d. Trattati istitutivi della UE, a tutte le attività dell’Unione, a eccezione della politica estera e di sicurezza comune, compreso quindi il controllo delle misure che limitano i diritti della persona, l’attuale quadro di attribuzione prevede, tra le competenze esclusive dell’UE, la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta é l’euro.
Dunque, se non vi è dubbio che la politica monetaria, per la quale il Parlamento europeo con il Trattato di Lisbona è divenuto colegislatore insieme al Consiglio, sia di competenza esclusiva dell’UE, analogamente va riconosciuta la correlata giurisdizione della Corte di Giustizia, del resto espressamente sancita dall’art. 35 del IV Protocollo sullo Statuto dell’Eurosistema allegato al TFUE.
Resta il problema della sua eventuale esorbitanza rispetto al principio di proporzionalità, sancito dall’art. 5 TUE: “1. La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità”. Resta fermo che “2. In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”. Residua, quindi, la previsione che “I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo”, dal momento che “4. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”.
3. La questione, allora, riguarda il senso della dialettica fra il diritto positivo, così come desumibile dai Trattati, e in particolare del potere di controllo da parte degli Stati nazionali di cui al n. 3 secondo comma dell’art. 5 TUE, espressamente richiamato dalla Corte di Karlsruhe, ed il processo di integrazione europeo, rispetto al quale rileva in modo peculiare il rapporto fra la moneta, e il correlato potere di emissione, e la politica economica: questo in relazione al tema della sovranità e della sua devoluzione di prerogative da parte degli Stati nazionali a favore dell’Unione, in base al cennato principio di attribuzione (coverall).
Sotto tale profilo, non sembra fondata la sicumera dei rappresentanti UE sulla pronuncia tedesca. Come ha osservato Giuseppe Berruti, attuale commissario CONSOB, “l’Europa non ha dato vita ad uno Stato sovranazionale. È ancora una unione, per quanto fortemente integrata, che fa convivere i diversi sistemi nazionali mediante meccanismi complessi. In questo sistema il governo della moneta è stato dato non già ad uno Stato sovranazionale, perché non esiste uno Stato Europa, ma ad un fondamentale organo europeo, quale è la Banca centrale. Una banca, non uno Stato. Una banca che non può, o non potrebbe, fare politica economica per tutti, ma che deve tener conto della esistenza di diverse politiche e di diversi interessi economici nazionali (…) il coronavirus oggi potrebbe essere affrontato con una sovranità monetaria europea frutto di una politica economica unitaria (…). Ma considero la mancanza della piena statualità dell’euro un handicap nel confronto con i particolarismi nazionali” (in ‘La Stampa’ del 11.5.2020.
Da questa prospettiva, da un lato le censure di Karlsruhe alla politica espansiva della BCE non riguardano tanto la possibile erosione del risparmio dei contribuenti tedeschi, bensì la lesione della sovranità della Germania in materia di politica economica, non attribuita alla UE; dall’altro, esprimono il disagio di una incompiuta integrazione europea, che in realtà nasce dalla pretesa di avere posto come fulcro della unificazione l’uso di una moneta comune, in assenza però del correlato potere di gestione della politica economica rimasto in capo agli Stati nazionali. E questo per di più sulla base di strumenti di tipo convenzionale (i Trattati) privi di propria efficacia di accrescimento del processo di unificazione, che non a caso rimane quale sfondo di riferimento più nei continui auspici e moniti che non nella prassi e, soprattutto, nella lettera vincolante delle norme dell’Unione.
È difficile concordare col Ministro italiano dell’Economia, Gualtieri, che ha minimizzato la portata della sentenza tedesca, dicendosi certo che “la Bundesbank continuerà ad essere parte attiva della politica monetaria europea acquistando titoli di Stato tedeschi nell’ambito del PSPP”: il che è invece tutt’altro che scontato, non potendosi presumere che il dibattito in Germania si esaurisca senza conseguenze.
Markus Kerber, professore di finanza pubblica ed economia politica alla Technische Universitat di Berlino, uno dei ricorrenti alla Corte costituzionale nel caso in esame, vanta di avere “innescato un conflitto istituzionale molto grave: per la prima volta una Corte nazionale lancia una sfida alla Corte europea (…) Ha detto che il principio di proporzionalità -anche quello del PSPP- è un principio fondamentale anche nel diritto europeo, proprio come lo è nel diritto costituzionale tedesco. Se è così, nemmeno la Banca centrale europea può contravvenire ad esso, acquistando titoli di debito pubblico indefinitamente, come è avvenuto con il Quantitative easing (…) Abbiamo dimostrato che la Corte europea non ha il monopolio dell’interpretazione del diritto europeo nella misura in cui utilizza metodi inaccettabili d’interpretazione. È il caso della proporzionalità. Con questa decisione la Corte tedesca ripristina il suo controllo di fatto sulla BCE e ricostruisce il suo potere in Europa”! Tranchant è la conclusione: “O la Merkel trova una soluzione che salva la faccia a tutti, o la Bundesbank dovrà ritirarsi dal PSPP e dunque dal PEPP. In tal caso comincerà l’agonia dell’eurozona (…) Quello che importa è il diritto di un popolo di decidere delle sue finanze pubbliche”.
4. Lo scenario che si apre all’esito del trimestre di proroga concesso al governo tedesco e alla Bundesbank è radicalmente alternativo: o la Germania sarà costretta ad abbandonare l’euro come moneta comune, col più che probabile effetto di stravolgimento dell’UE, che non sopravviverebbe senza l’eurozona; o si va avanti nella devoluzione della sovranità degli Stati nazionali, chiamati a conferire all’UE anche la propria politica economica e fiscale, perché diventi realmente unitaria e comune a tutti.
La seconda ipotesi è fortemente auspicata dall’establishment UE, almeno a partire dal Trattato di Maastricht. Lo stesso Roettgen lo ritiene però “ampiamente irrealistico. Significherebbe che i parlamenti nazionali dovrebbero trasferire la loro legge di bilancio, massima prerogativa del Parlamento, all’Unione europea, creando di fatto uno Stato europeo. Non abbiamo per questo né i presupposti democratici, né il consenso dei cittadini”. Si riapre il quesito se l’Europa, continente per cultura e tradizione – geograficamente è solo una penisola dell’Asia, alla cui egemonia cinese probabilmente verrebbe risucchiata in caso di prevalenza del primo corno dell’alternativa -, sia tale esclusivamente per la comune gestione dell’economia e della finanza da parte di tecnocrati più o meno illuminati, comunque non eletti dal popolo. Ovvero se il superamento della sovranità nazionale sia ammissibile solo attraverso il riconoscimento di un patto federativo fondato su valori e princìpi realmente comuni ai popoli che la compongono.
L’orologio della storia riporta allora la scelta al rifiuto del costituente europeo di inizio di terzo millennio di rifondare l’Europa sulle sue indiscutibili radici giudeo-cristiane: le uniche che, pur nella dialettica con il razionalismo illuminista, continuano ad esprimere una possibile forma di unità. E alla conseguente necessità di superare le sirene dei risorgenti nazionalismi attraverso il recupero dell’idealtipo imperiale, inteso come insieme di popoli rispondente al principio di sussidiarietà: l’unico che si è mostrato capace, pur nei limiti storici di efficienza, di declinare concretamente tale unione nel corso dei secoli.
Renato Veneruso
Pubblicato dal Centro Studi Livatino ( CLICCA QUI )