Ieri, su queste pagine, Giancarlo Infante ha scomodato niente meno che il Re Sole (CLICCA QUI). “L’ Etat c’est moi!”, affermava Luigi XIV. Tradotto in tutt’altro contesto, si può effettivamente ravvisare una qualche, sia pure lontana, analogia con chi, immaginando di incarnare il “Centro”, millanta di potersi porre come demiurgo dell’intero sistema. In verità, si tratta di una tentazione coltivata da molti e diffusa più di quanto non si creda.

Si è scatenata la corsa all’oro del “Centro” e chiunque abbia un carro e una padella corre al greto del fiume per setacciarne la sabbia, sperando di imbattersi nella pepita che gli cambia la vita. Senoncé oggi le cose stanno diversamente. In un contesto sociale fortemente articolato e plurale, tale da imporre una logica a rete, che anche il sistema politico dovrebbe mutuare, il “Centro”, nello stesso tempo, sta dappertutto e da nessuna parte.

Che legioni di “federatori” si affatichino attorno ad un “Centro” concepito come terzo incomodo e forza di interposizione di un sistema “depasse’” serve soltanto a consegnare pure loro a quel limbo dell’ inerzia e dell’impotenza cui è giunta, con il bipolarismo maggioritario, la cosiddetta “Seconda repubblica”. Il “Centro” di cui si va discutendo non ha i caratteri del luogo da cui si irradiano quelle nuove categorie interpretative di cui avrebbe bisogno una politica in grado di affrontare le sfide della globalizzazione che, declinate su più versanti, ci interpellano.
Tutt’al più sembra essere una soluzione di comodo che, sostanzialmente, nel momento in cui vorrebbe negarla, di fatto conferma la “ratio” dell’attuale sistema. Al quale, sostanzialmente, si iscrive, salvo stiracchiare la propria “centralità” quel tanto appena un po’ più dall’una o dall’altra parte, necessario ad alludere, secondo la propensione originaria di ciascuno, a future alleanze di un tipo o piuttosto dell’altro.

La differenza la fa piuttosto l’autonomia. Come rivendichiamo da tempi non sospetti. Un’ autonomia di pensiero e di programma, ancor prima che di schieramento. Si tratta, insomma, di maturare una posizione politica e programmatica che sia, in un certo senso, ectopica rispetto al quadro attuale. Cioè, collocata altrove, a costo di apparire fuori luogo e fuori contesto a fronte di quella ristretta cornice in un cui si esercita l’arte combinatoria di quel “gioco del quindici”, un gioco gattopardesco in cui tutto mutava perché tutto tornasse come prima,  già evocato in altra occasione(CLICCA QUI). Che sappia, così, costituire, in virtù della sua pregnanza tematica, un momento di utile provocazione offerto anche alle forze già in campo o, meglio, alle culture politiche che le ispirano. Culture impallidite dal reciproco “appeasement” indispensabile per concepire l’uno e l’altro degli aggregati elettorali che da quasi tre decenni si fronteggiano nel Paese, via via progressivamente ristretti in un circolo chiuso che ha disamorato gli elettori.

Eppure, almeno le culture politiche che si rifanno ad una robusta radice storica meritano un’occasione di chiarimento e di riscatto a fronte di un elettorato che, sottratto al ricatto del cosiddetto “voto utile”, sia posto nella condizione di pronunciarsi davvero liberamente.

Si torna, in buona sostanza, al tema della legge elettorale. Per trasformare il nostro sistema politico, è necessario che qualcuno si assuma almeno l’ardire di invocarne una credibile alternativa di metodo e di contenuti.

Domenico Galbiati

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