La Legge di bilancio, all’art.192, reca disposizioni in materia di spese di giustizia che dovrebbero imporre il divieto al personale di cancelleria di iscrivere a ruolo l’atto giudiziario qualora sia omesso o errato il pagamento del contributo unificato. C’è da chiedersi quanto questa decisione non finisca per violare il diritto universale sostanziale  alla Giustizia. Questo dev’essere assicurato a tutti i cittadini, soprattutto ai più deboli e disagiati. E’ un fatto di civiltà e di aderenza al dettato costituzionale cui siamo tutti legati.

La tematica del contributo unificato è stata già portata all’attenzione non solo della Corte Costituzionale ma anche della Corte di Giustizia europea, a conferma dei seri e gravi problemi che pone soprattutto in ordine alla congruità o meno della sua commisurazione  nell’ambito del processo.

Tuttavia,  una cosa è la determinazione del contributo unificato, ben altra cosa è condizionare l’esercizio di un diritto costituzionale – qual è, appunto, l’accesso alla giustizia – al pagamento di una tassa.

Se il sistema giustizia è un servizio fondamentale che lo Stato deve assicurare non vi è dubbio che debba essere erogato dietro versamento di un contributo da parte di chi  ne faccia uso. Contributo di cui la Corte Costituzionale ha più volte ribadito  la natura giuridica di tassa, cioè di entrata tributaria erariale.

Di qui il problema della commisurazione che, sulla base di una logica economica, dovrebbe essere parametrata alla qualità e quantità della prestazione erogata. In ogni caso, questo non può essere l’unico criterio perché vi sono diritti garantiti dalla Costituzione, come quello del diritto di difesa (art.24 Cost.),  che richiedono meccanismi di bilanciamento.

Ecco perché il divieto di iscrivere a ruolo una causa, qualora sia stato omesso o errato il versamento di una tassa, non è accettabile. Cui prodest?

La mercificazione di un bene tanto fondamentale quanto lo è, ad esempio, il diritto alla salute ripugna, anzitutto, alla coscienza di qualunque onesto cittadino. Se poi, lo sventurato fosse anche non abbiente ci sarebbe proprio di che vergognarsi.

Come non richiamare alla mente la parabola evangelica di quel giudice disonesto che rende giustizia alla vedova a causa della sua insistenza. Il giudice, altrimenti, non ascoltava la vedova solamente perché era povera e non poteva pagare. Per chi si ispira alla morale cristiana, ma anche ai principi laici ed universali dell’uguaglianza, dell’equità e della solidarietà, non dev’essere così. E non lo è neppure per la Costituzione.

La Corte Costituzionale, così, si è più volte espressa nel senso di negare che l’attuale commisurazione del contributo unificato sia da considerarsi illegittima, ma anche perché l’omesso versamento non è causa di improcedibilità dell’azione (ordinanza n.143 del 20.04.2011). Come si concilia allora quanto è introdotto nella Legge di bilancio, che però, fortunatamente, va adesso all’esame del Parlamento da cui c’è da sperare un pronto intervento riparatorio?

In conclusione: se la Giustizia è un servizio, dovrebbe configurarsi come una delle forme più alte di servizio garantito ad una comunità, si deve prendere in considerazione anche un’altra prospettiva partendo dalla premessa che il sistema prevede già ora trattamenti differenziati per coloro che versino in particolari situazioni di bisogno. Ma questo non può essere assicurato sulla base di parametri del tutto astratti e non relativi, per esempio al valore di causa.

Dunque, una prospettiva da tenere in seria considerazione, che incide sul modo di intendere il contributo unificato potrebbe essere quella di disporne il pagamento alla conclusione del procedimento giudiziario parametrato sull’effettiva utilità conseguita dalle parti con il provvedimento emesso dal Giudice.

Tale prospettiva avrebbe almeno il pregio di superare l’eccezione di incostituzionalità per impedimento all’accesso alla giustizia e violazione del diritto di difesa stabilito dall’art.24 Cost. E renderebbe giustizia …. alla “vedova” della parabola evangelica.

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