“Non è il futuro il principio della speranza; credo piuttosto che sia la speranza il principio del futuro”.

Mi pare che – soprattutto per chi guarda alla doverosità dell’impegno politico – questa affermazione dell’Arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini, tratta dal suo Messaggio alla Città, in occasione della Festività di Sant’ Ambrogio, sia illuminante e dica la fiducia con cui siamo chiamati “a dar voce ad una visione dell’uomo e della storia che si è configurata nell’umanesimo cristiano”.

Una visione che, anche in momenti particolarmente problematici e crudi, soprattutto in quelle fasi di transizione che, di per sé, generano timori ed incertezza, ci permette di guardare oltre l’immediata contingenza degli eventi, di intuire, piuttosto, gli sviluppi di un disegno storico più profondo, così da mantenere una salda direzione di marcia.

Riecheggia, nelle parole dell’Arcivescovo – soprattutto in quel chiarissimo ed esplicito “Benvenuto futuro!” – l’ammonimento con cui, in un altro frangente storico delicato, in quell’ottobre ’62 che avrebbe visto di lì a pochi giorni la crisi dei missili a Cuba, Papa Giovanni apriva i lavori del Concilio Vaticano II, respingendo le suggestioni di quelli che chiamava “profeti di sventura” ed asserendo piuttosto come: “Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini e spesso al di là delle loro aspettative…”.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti; acqua che ha scosso il mondo, il nostro Paese e spesso la città di Milano.

A cominciare da Piazza Fontana, mezzo secolo fa.

Un attentato, una strage che – come ha ricordato Mons. Delpini –  “ha seminato sconforto e paura non solo tra i milanesi, ma in tutto il Paese, per il clima che si creò a partire da quell’evento”.

Ed, in effetti, credo non sia azzardato affermare che da allora il nostro Paese non è mai più stato lo stesso.

La violenza inaudita, gratuita, perversa del terrorismo, il veleno delle trame e dei sospetti, i depistaggi e le omissioni hanno alterato profondamente la fiducia degli italiani nelle istituzioni democratiche; come si avessimo perso l’innocenza.

E’ subentrato quel sentimento guardingo, gonfio, appunto, di sfiducia, di timori incrociati, di smarrimento che ha modificato, più a fondo, di quanto non appaia il carattere morale degli italiani, li ha “separati in casa”, ha costituito l’humus su cui hanno seminato ed abbondantemente mietuto le culture dell’individualismo.

Una lunga scia di progressiva compromissione di quel sentimento di appartenenza all’orizzonte di un destino comune che ci trasciniamo anche oggi.

Ed in misura tale che c’è chi vi ha ravvisato, addirittura, quella copiosa materia prima da manipolare e da incattivire di più, aggiungendovi nuovi veleni, per costruirci sopra un contesto civile impastato di rabbia e di rancore.

Ma forse – e partendo proprio da Milano – possiamo sperare che si annuncino giorni migliori.

Dal magistero della Chiesa ambrosiana, all’ impegno delle istituzioni locali, dal vigore del volontariato e delle forze sociali, dalla consapevolezza civica crescente di importanti settori del mondo produttivo ed economico-finanziario, dall’impulso delle professioni, non certo da ultimo dal sistema universitario milanese pare di scorgere una convergenza virtuosa di sforzi comuni che consentono di sperare.

Del resto, se cresce Milano si rafforza, a vantaggio del Paese intero, la sua funzione di cerniera tra l’Italia nel suo insieme e l’Europa e, nel contempo, di snodo tra l’Europa  “continentale” e l’Europa mediterranea, secondo un indirizzo ed una prospettiva che sono essenziali.

Non a caso, il discorso di Mons. Delpini in Sant’Ambrogio ha riscosso una calorosa attenzione e grande consenso in città.

Uno dei commenti più preziosi, non a caso, a conferma di quella nuova consonanza di cui si diceva, è venuto dal nuovo Rettore della Statale, il prof. Elio Franzini che ha ricordato  come “il nuovo umanesimo che l’Arcivescovo richiama deve, dunque, svolgere in via prioritaria la funzione di far comprendere il senso del percorso tra le dimensioni del tempo: se cessassimo di credere nell’avvenire, il passato non sarebbe più pienamente il nostro passato, ma sarebbe soltanto il lascito di una civiltà morta”

Infatti, “..un autentico umanesimo – continua il Rettore – ha lo scopo di costruire una linea di tensione costruttiva tra il passato ed il futuro”.

Domenico Galbiati

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