Un amico autorevole ci invita a tenere vivo l’ammonimento di Aldo Moro a non scordare la “stagione dei doveri”.
Diritti e doveri della “cittadinanza”, dunque, tali per cui il dovere compiuto legittima la rivendicazione del diritto e quest’ultimo evoca ed esige il dovere corrispondente.
Eppure c’è, tra gli uni e gli altri, nella considerazione che ne facciamo, una doppia asimmetria. Siamo molto più facilmente inclini a pretendere il rispetto dei nostri sacrosanti diritti, piuttosto che ricordare, con altrettanto puntiglio, i nostri doveri.
Sia diritti che doveri hanno una dimensione soggettiva e personale ed una dimensione collettiva. Quest’ultima viene più facilmente associata alla sfera dei diritti, laddove, invece, il dovere è avvertito come un impegno da assumere soprattutto in prima persona, inerente il vissuto strettamente personale ed intimo di ciascuno.
La stessa libertà – fonte e condizione primaria per l’esercizio dei doveri e la fruizione dei diritti – è fermamente attestata tra questi ultimi, eppure – oggi, in modo particolare, quanto più il contesto civile è intricato, polimorfo, annodato ed opaco; difficile da interpretare secondo le categorie tradizionali della politica – dovremmo prestare più attenzione all’ altro versante, cioè alla libertà intesa come “dovere”; dovere personale di tutti e di ciascuno.
Un “dovere” che ciascuno ha, anzitutto, nei confronti di sè stesso, perché da lì, dall’essere liberi da se stessi, inizia la vera libertà. Ed un “dovere” nei confronti della collettività, non solo un diritto.
La libertà come diritto al lavoro, all’educazione, alla salute, all’esercizio dei diritti civili. Libertà dalle privazioni della povertà economica; dalle mutilazioni della povertà educativa e culturale inflitta a molti giovani da condizioni sociali precarie; dalle suggestioni e dai condizionamenti, spesso subliminali, di una comunicazione che cresce a ritmi esponenziali; dalla schiavitù volontaria della omologazione dei costumi e degli ” status symbol”; dalla soggezione al potere esondante della tecnica che, piuttosto, va governata secondo una maturazione etica e cognitiva che tenga il passo dell’incalzante sviluppo tecno- scientifico.
La libertà come “dovere” personale di mantenere limpido il proprio sguardo; come impegno ad assumere la fatica e la responsabilità di giudicare in proprio senza intrupparsi nel gregge, senza genuflettersi ossequiosi al “capo carismatico” di turno.
Il “dovere” di coltivare ed ampliare quello spazio della propria interiorità nel cui spessore può aver luogo la “composizione del conflitto”, cioè una mediazione alta, la sintesi armonica tra le mille contraddizioni che quotidianamente attraversano il nostro vissuto, amplificate dal megafono della comunicazione e dalla marea montante di un’informazione “informe” e difficile da riordinare.
“Composizione del conflitto” che sarebbe ardua, quasi impossibile nella dimensione collettiva se ciascuno fungesse da superficie piatta che, anziché assorbe e comporre, per la propria parte, le disarmonie di un contesto tumultuoso, le riflettesse, moltiplicandole a mo’ di specchio, nell’ambiente circostante, concorrendo ad una sorta di reazione a catena incontenibile.
Ancora, da uomini liberi, il dovere di custodire l’uso corretto della propria ragione, il concorso equilibrato, non sopra le righe e sconvolgente, delle proprie emozioni e dei sentimenti a quei processi cognitivi di cui pur sono parte essenziale e costitutiva e da cui scaturiscono i nostri giudizi.
La ragione è un coltello tagliente che entra nelle giunture e nella carne viva degli argomenti ed il cui impiego corretto ed efficace non e’ affatto cosi’ naturale e scontato come sembrerebbe a prima vista. Occorre che la lama sia affilata
Se fosse scheggiata lacerebbe il tessuto tematico su cui opera fino a renderlo slabbrato ed irriconoscibile, indisponibile ad un dialogo produttivo. Senonché, affilare la lama è un compito non sempre leggero: implica il rispetto delle regole elementari della logica, ma esige, altresi’, un impegno della coscienza morale, la maturazione di quella consapevolezza di sè che può garantire la coerenza e la consistenza del proprio pensiero.
Insomma, ha ragione chi lamenta il fatto che la politica oggi abbia adottato modalità espressive rozze, arroganti, a tratti violente, reciprocamente offensive tra i vari attori in scena. Toni che segnalano un degrado del costume, ma anche una difficoltà oggettiva a ricomporre le nuove categorie interpretative di cui ha bisogno la “intelligenza politica” delle cose.
E’ fuori luogo – o almeno esagerato – ritenere che oggi, nel nome della libertà, la politica ed i politici avrebbero bisogno di una sorta di ascesi, almeno sul piano dell’attitudine cognitiva, cioè di un qualche attento lavoro su di se’ per essere certi di padroneggiare, almeno per quel che si puo’, gli eventi piuttosto che esserne travolti?
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata: Shutterstock

About Author