Ritengo che la riflessione sul lavoro nell’era delle macchine “intelligenti” debba diventare una delle principali urgenze della politica e della società.
Per “macchine intelligenti” non si intendono solo i robot a cui l’intelligenza artificiale aggiunge autonomia, ma anche i dispositivi che pervaderanno gli oggetti di uso comune, e la rete che li connetterà facendo circolare dati e permettendo di analizzarne non solo il contenuto, ma la logica che ne indirizza i flussi, la prossimità e la densità delle relazioni comunicative.
Gli scenari nuovi richiedono però nuovi paradigmi di governo, e su questo si percepiscono almeno due ordini di difficoltà: quello interpretativo, che troppo spesso indaga sugli sviluppi dell’innovazione tecnologica utilizzando schemi ormai obsoleti, e quello di governo, che si muove cercando di assecondare o contrastare l’impatto sociale delle tecnologie senza assumere un quadro di orientamento complessivo, o per meglio dire una visione antropologica entro la quale collocare i provvedimenti normativi.
Riguardo al primo punto, la capacità di interpretare l’andamento della tecnologia, ancora troppo poco si riflette sull’impatto prossimo dell’intelligenza artificiale, che non riguarda solo la robotica e le macchine “autonome”. Gli algoritmi basati sull’intelligenza artificiale stanno occupando in maniera estensiva i settori dei servizi e dell’organizzazione, e già stanno diventando determinanti in molti processi decisionali, nei più svariati settori.
Il lavoro umano, di conseguenza, troverà minori opportunità in ambiti produttivi assai più ampi di quelli correntemente percepiti. Si prospetta pertanto un mondo di crescenti disuguaglianze, tra un elite economica di pochissime persone, una fascia ristretta di tecno-potenti che costruiscono le soluzioni tecnologiche, e un’area sempre più ampia spinta verso i livelli di sussistenza., sotto i quali le fasce di povertà aumenteranno a ritmo crescente.
Il mito del mondo moderno, quello di dare benessere a una popolazione sempre più ampia, rischia di capovolgersi nel suo contrario, se la produttività economica diventerà il primo criterio di valore e, in essa, il ruolo delle macchine diventerà prevalente.
Per contrastare le prospettive negative occorre mettere in atto misure di governo e strategie adatte. Non serve immaginare stravolgimenti dei sistemi economici, che non si sono mai realizzati senza spinte rivoluzionarie, ma è senza dubbio necessario avere ben presente un modello antropologico e sociale verso cui tendere e da cui trarre ispirazione.
Sotto questo profilo mi sembrano interessanti le intuizioni di chi promuove nuove forme di partecipazione d’impresa. Il patto da stabilire per salvare il lavoro non riguarda più, però, l’accordo tra lavoro e capitale, bensì quello tra lavoro e organizzazione produttiva. La tecnologia infatti sta diventando il fattore trainante dell’economia, molto più della finanza.
Le soluzioni proposte, tra le più note quella di Bill Gates sulla tassazione del lavoro dei robot e quella dell’economista Richard Freeman sulla partecipazione dei fondi pensione statunitensi all’azionariato delle aziende produttrici dei robot, hanno il pregio di richiamare all’attenzione il problema e proporre soluzioni praticabili.
In questa prospettiva credo che il pensiero cristianamente ispirato possa dare un contributo importante, dimostrando che la centralità e la dignità della persona umana possono ispirare modelli economici praticabili. Si tratta di innovare partendo da modelli proposti da economisti cattolici in passato, e che possono essere adattati alle evoluzioni future, evitando il rischio di prospettare soluzioni utopiche. Il dialogo necessario con tutti per salvaguardare il futuro del lavoro si alimenta infatti, a mio avviso, nella concretezza delle proposte.
Andrea Tomasi