Nel recente Decreto aiuti approvato dal Governo Meloni è stata inserita una norma che che aumenta da 600 a 3.000 euro il massimale annuo dell’esenzione fiscale e contributiva delle prestazioni erogate dalle imprese ai lavoratori dipendenti per l’utilizzo di mezzi di trasporto e di strumenti informatici, per l’acquisto di prodotti di utilità sociale, per il pagamento delle bollette energetiche (fringe benefit). L’intento è quello di incentivare le erogazioni liberali da parte delle aziende a favore dei propri lavoratori, come contributo a contenere l’impatto dell’inflazione sui salari, tenendo conto del fatto che l’impennata dei prezzi non era stata ponderata nell’occasione dei rinnovi dei contratti collettivi e che sono oltre un terzo i lavoratori in attesa dei rinnovi contrattuali dei settori di appartenenza.

Allo stato attuale la norma, per i limiti di spesa stabiliti dal Parlamento, consente di utilizzare lo sconto fiscale solo per le erogazioni formalmente disposte entro il 31 dicembre 2022. L’anticipazione imposta dal Governo fa intravedere la possibilità di prolungare l’impegno anche per i periodi successivi con l’approvazione della nuova Legge di bilancio 2023. Nell’ambito di un pacchetto di misure che prevedono anche il prosieguo della riduzione del cuneo fiscale sui salari (attualmente pari al 2% delle retribuzioni lorde fino a 35 mila euro a partire dal mese di agosto u,s,), l’introduzione di un’aliquota ridotta (flat tax incrementale) per le quote dei redditi da lavoro dipendente superiori alla media dei tre anni precedenti, un possibile incremento del limite massimo di 3.000 euro anno per la tassazione agevolata della quota dei salari (attualmente del 10%) collegati ai risultati delle imprese, derivante dall’attuazione degli accordi sindacali aziendali e territoriali.

L’insieme di queste proposte delinea la strategia dell’Esecutivo sul tema delle politiche salariali, in particolare rispettando l’autonomia contrattuale delle parti sociali abbandonando l’intenzione del Governo precedente di introdurre un salario minimo per legge, limitando la propria iniziativa al potenziamento degli sgravi fiscali e contributivi finalizzati a incentivare il perseguimento di obiettivi di interesse generale: la riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni, l’aumento della produttività, il concorso del welfare aziendale al sistema delle prestazioni sociali.

La norma che aumenta i fringe benefit è stata criticata da molti esponenti del mondo imprenditoriale perché il tempo limitato di vigenza pregiudica la possibilità di una concreta attuazione. Il Presidente dell’Aiwa (l’associazione delle imprese che erogano servizi per il welfare aziendale) Emmanuele Massagli la critica nel merito perché l’ampliamento dell’agevolazione fiscale per le erogazioni unilateralmente disposte dalle aziende rischia di depotenziare il ruolo e le finalità della contrattazione collettiva e la finalità sociale delle prestazioni del welfare aziendale. In tal senso, giova ricordare che dal 2016 (legge 208/2015) è in vigore una normativa che prevede una tassazione agevolata del 10%, fino a un massimale di 3.000 euro annuo, per gli importi salariali legati ai risultati delle imprese previsti dai contratti aziendali e territoriali. Le norme richiamate consentono ai lavoratori di destinare una parte di questo salario alle prestazioni di natura sociale (servizi di cura e di conciliazione dei carichi familiari con quelli lavorativi, sostegni per lo studio, assicurazioni sanitarie…), ottenendo in questo caso l’esenzione totale dalla tassazione della quota del salario trasferita.

In via teorica potrebbe essere compensata da un analogo taglio strutturale della spesa pubblica, come proposto dalla Confindustria, ma che nella migliore delle ipotesi potrebbe solo contribuire a contenere l’entità dei trasferimenti a carico dello Stato.

L’osservatorio del ministero del Lavoro che effettua il censimento degli accordi contrattuali di secondo livello aziendali e territoriali, anche ai fini delle agevolazioni fiscali e contributive, evidenzia una forte crescita delle intese sindacali nel corso degli anni di vigenza delle norme di incentivazione, oltre 70 mila accordi depositati, tra i quali 8.137 attualmente in vigore, riferiti a 7.436 contratti aziendali e 991 territoriali che coinvolgono una platea di circa 2,6 milioni di lavoratori occupati per il 51% in aziende inferiori ai 50 dipendenti e per il 34% in quelle con più di 100.

La stragrande parte di questi accordi, il 60%, è vigente nei comparti dei servizi e la rimanente in quelli industriali al netto di una piccola quota nel settore agricolo. L’importo medio delle erogazioni accertate per obiettivi di produttività, qualità, redditività e partecipazione agli utili è di poco superiore ai 1.500 euro. Il 57% dei contratti destina una parte delle risorse per le misure di welfare aziendale.

Giova sottolineare anche il numero degli accordi aziendali, 1.440, che sono avvalsi della possibilità prevista dalla legge (art. 8 del legge n. 148 del 2011) di derogare alle disposizioni previste dai contratti nazionali su una serie di istituti contrattuali.

Questi numeri non sono esaustivi dell’intera platea dei contratti di secondo livello che, nelle indagini promosse dal Cnel e dalle associazioni sindacali e imprenditoriali, vedono coinvolti circa un terzo, 5 milioni, dei lavoratori privati.

I margini di espansione della contrattazione di secondo livello sono rilevanti anche per la finalità di contribuire alla crescita della produttività a livello di sistema e per rimediare i ritardi nelle politiche attive del lavoro, ma lo spostamento del baricentro dalla contrattazione nazionale verso quella territoriale viene attualmente ostacolato dalla Cgil e dalla Uil e incontra resistenze anche in una parte significativa delle associazioni imprenditoriali che non hanno una presenza diffusa nei singoli territori. Senza trascurare il peso che sulle relazioni tra le parti sociali potrebbero avere i ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi nazionali che riguardano una platea superiore ai tre milioni di lavoratori.

Le buone intenzioni del Governo dovranno, pertanto, essere verificate alla luce: delle obiettive incertezze riguardanti l’entità e la durata della crescita dei prezzi; dei vincoli per la spesa pubblica per il breve e lungo periodo per evitare di compromettere la sostenibilità e gli equilibri interni delle prestazioni sociali; della disponibilità delle parti sociali di assumere in presa diretta, e non solo rivendicativa, un ruolo attivo nella gestione delle risposte.

Data la necessità di far fronte ai vincoli di spesa derivanti dal proseguo degli interventi di sostegno emergenziali, dalla rivalutazione delle pensioni e dai rinnovi contrattuali dei pubblici dipendenti, non esistono margini per offrire risposte strutturali ai quesiti aperti con la nuova Legge di bilancio che dovrà essere approvata entro la fine dell’anno.

Ma il confronto tra il Governo e le parti sociali, avviato nei giorni recenti, sarà comunque estremamente utile per comprendere la praticabilità degli orientamenti proposti e la loro utilità anche per gestire le conseguenze sulle attività produttive e sull’occupazione della prevista riduzione del tasso di crescita dell’economia nel corso del prossimo anno.

Natale Forlani

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