Il libro collettaneo che il lettore ha per mano (S. Zamagni, a cura di, Creazione di lavoro nella stagione della quarta rivoluzione industriale: il caso dell’Emilia-Romagna, Bologna, Il Mulino, 2018) è il frutto dell’impegno congiunto di un gruppo di studiosi che, riuniti dall’Istituto “Veritatis Splendor” di Bologna, hanno inteso dedicare la propria attenzione alla grande questione del lavoro, oggi tornata al centro delle preoccupazioni dei più. L’occasione che ha propiziato questo “incontro di menti” è stata il varo, nel giugno 2017, del progetto “Insieme per il lavoro” che ha visto il coinvolgimento attivo della Chiesa di Bologna, del Comune di Bologna, delle Associazioni Imprenditoriali di Bologna, del Sindacato e di talune espressioni del Terzo Settore. E’ questo un tentativo ben riuscito che dimostra come sia concretamente possibile – quando lo si vuole – dare ali a quel principio di sussidiarietà circolare, cui fa esplicito riferimento l’art. 118 della nostra Carta Costituzionale.
I saggi inediti qui raccolti affrontano l’intrigante tematica del lavoro da angolature diverse, da quella economica a quella sociologica; da quella della scienza dell’organizzazione a quella giuridica. Il campo empiricamente esplorato è quello dell’Emilia Romagna, pur essendo vero che non poche delle considerazioni e delle proposte qui avanzate hanno validità più generale e sono estendibili anche ad altri territori regionali. Il taglio espositivo che si è scelto di adottare è quello del policy-making; l’intento, infatti, degli autori dei singoli capitoli è quello di suggerire linee di azione capaci di suggerire credibili vie d’uscita da quel “disagio di civiltà” (S. Freud) che incombe sulla nostra società. Si tratta di questo.
Il “Global Employment Trend” dell’ILO (International Labour Office delle Nazioni Unite) ci informa che il divario occupazionale – la perdita cumulata di posti di lavoro – rispetto alla situazione prevalente prima della crisi del 2007-8 è destinato a crescere: da 62 milioni nel 2013 a 81 milioni nel 2018. Anche il tasso di disoccupazione non si ridurrà, ciò che provocherà un ulteriore aumento del numero assoluto di disoccupati. Sono quelli europei i paesi che più stanno risentendo della transizione tecnologica oggi in atto. La disoccupazione ha già superato in Europa la soglia dei 27 milioni di persone e di queste il 40 per cento circa è rappresentato da disoccupati di lungo termine (oltre i 12 mesi). La situazione è ulteriormente aggravata dalla comparsa della nuova figura dei NEET (“not in education, employment or training), dei giovani cioè di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono in apprendistato. I giovani italiani che vivono tale condizione esistenziale sono oltre 2,4 milioni, pari a circa il 26% della popolazione giovanile in questa fascia di età. (Nel Mezzogiorno, la medesima percentuale arriva al 54% !). Il dato dei NEET è di speciale interesse perchè, a differenza del tasso di disoccupazione giovanile, esso prende in considerazione anche i giovani che non cercano più lavoro, in quanto scoraggiati. Il tasso dei NEET è, pertanto, l’indicatore che meglio di altri dà conto dello spreco umano, del sottoutilizzo del potenziale giovanile e, in conseguenza di ciò, della vasta diffusione tra la popolazione giovanile della diffidenza, oltre che della paura, nei riguardi del futuro.
Sappiamo, infatti, che l’estromissione dall’attività lavorativa per lunghi periodi di tempo non solamente è causa di una perdita di produzione, ma costituisce un vero e proprio razionamento della libertà. Il disoccupato di lungo termine patisce una sofferenza che nulla ha a che vedere con il minor potere d’acquisto, ma con la perdita della stima di sé e soprattutto con l’autonomia personale. Ecco perché non è lecito porre sullo stesso piano la disponibilità di un reddito da lavoro e l’acquisizione di un reddito da trasferimenti, sia pure di eguale ammontare: è la dignità della persona a fare la differenza. Non solo, ma la fuoriuscita dal lavoro tende a generare gravi perdite di abilità cognitive nella persona, dato che, se è vero che “facendo si impara”, ancor più vero è che “si disimpara non facendo”. In un’epoca come l’attuale, caratterizzata dal fenomeno della quarta rivoluzione industriale, la relazione tra capacità tecnologiche e attività lavorative è biunivoca: nel processo di lavoro non solo si applicano le conoscenze già acquisite, ma si materializza la possibilità di creare ulteriori capacità tecnologiche. Ecco perché tenere a lungo fuori dell’attività lavorativa una persona significa negarle – la sua fecondità. Poiché è attraverso il lavoro che l’essere umano impara a conoscere se stesso e a realizzare il proprio piano di vita, la buona società in cui vivere è allora quella che non umilia i suoi componenti, distribuendo loro assegni o provvidenze varie e, negando al tempo stesso l’accesso all’attività lavorativa.
La letteratura sulle politiche occupazionali è ormai schiera: si va dalle proposte volte a migliorare la qualità dei posti di lavoro, con interventi sul lato della domanda di lavoro, a proposte che incidono sul lato dell’offerta di lavoro allo scopo di ridurre lo “skill’s gap” intervenendo sul divario fra le competenze acquisite a scuola e quelle richieste dal sistema produttivo. Senza questo divario la disoccupazione giovanile si ridurrebbe dal 28% al 16%. E ancora, vi sono coloro che propongono di favorire l’occupazione rispetto all’assistenza (make work pay) e coloro che invece suggeriscono di facilitare la transizione dalla disoccupazione assistita all’occupabilità (welfare to work) mediante l’aumento della flessibilità della prestazione, da non confondersi con la flessibilità dell’occupazione. Vi sono, infine, quelli che insistono sulle metacompetenze che incentivano a mantenere flessibilità di pensiero e ad arricchire le abilità relazionali. E così via. (Per una recente e accurata indagine empirica, rinvio a P. Moore et Al., Humans and Machines at Work, Palgrave Macmillan, Londra, 2018).
Questi e tanti altri contributi contengono tutti grumi di verità e suggerimenti preziosi per l’azione. Tuttavia, non pare emergere da questa vasta letteratura la consapevolezza che quella del lavoro è questione che, in quanto ha a che vedere con la libertà sostanziale dell’uomo, non può essere affrontata restando entro l’orizzonte del solo mercato del lavoro. Quel che occorre mettere in discussione è l’intero modello di ordine sociale, vale a dire l’assetto istituzionale della società, per verificare se non è per caso a tale livello che è urgente intervenire. Invero, pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia delle economie di mercato, l’insufficienza di lavoro ha assunto oggi forme e caratteri affatto nuovi. La dimensione quantitativa del problema occupazionale, oltre che la sua persistenza nel tempo, fanno piuttosto pensare a cause di naturale strutturale, cioè non congiunturale, connesse all’attuale passaggio d’epoca, quello dalla società fordista alla società post-fordista. Settant’anni fa, J.M. Keynes giudicava la disoccupazione di massa in una società ricca una vergognosa assurdità, che era possibile eliminare. Oggi, le nostre economie sono oltre tre volte più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione di giudicare la disoccupazione attuale tre volte più assurda e pericolosa, perché in società tre volte più ricche, l’ineguaglianza e l’esclusione sociale che la disoccupazione provoca è almeno tre volte più devastante. C’è allora da chiedersi se invece di affrontare la questione a spizzichi, accumulando suggerimenti e misure di vario tipo, tutte in sé valide ma ben al di sotto della necessità, non sia giunto il momento di riflettere su taluni tratti salienti dell’attuale modello di sviluppo per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte. E’ su tale sfondo che vanno lette le pagine del presente libro.
Di un ulteriore aspetto desidero qui brevemente dire. Perché pare così difficile oggi avere ragione della disoccupazione e soprattutto dell’inoccupazione? E’ forse la non conoscenza delle cause del fenomeno oppure la non disponibilità degli strumenti di intervento a impedire una soluzione del problema? Non lo credo proprio. Ritengo piuttosto che il fattore principale vada rintracciato in una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane disponibili. Si consideri che in un’economia avanzata, la disoccupazione non è mai “colpa” del progresso tecnico, ma dell’inadeguatezza dell’assetto istituzionale e delle politiche messe in campo. E’ un fatto che le nuove tecnologie liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale trasforma in disoccupazione oppure in forme varie di precarietà. L’aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo – un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi – continua ad essere utilizzato per la produzione di cose o servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo “costretti” cioè indotti a consumare, mentre non riusciamo a consumare o ad avere accesso ad altri beni perché non vi è che li produce. Il risultato è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su progetti tesi a creare modeste occasioni di lavoro effimere o transitorie, anziché adoperarsi per riprogettare la vita di una società post-industriale fortunatamente capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e dunque capace di utilizzare il tempo così liberato per iniziative che dilatino gli spazi di libertà dei cittadini.
Il punto che merita attenzione è che occorre distinguere tra impiego, cioè posto di lavoro, e attività lavorativa. In ciascuna fase dello sviluppo storico delle economie di mercato è la società stessa, con el sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi (il cosiddetto lavoro salariato) e la sfera delle attività lavorative. Ebbene, tale confine è, oggi, ancora quasi il medesimo di quello in essere durante la fase della società fordista. E’ questa la vera rigidità che occorre superare se si vuole avere ragione del problema in questione. Pensare di dare un lavoro a tutti sotto forma di impiego sarebbe pura utopia (o peggio, pericolosa menzogna). Infatti, è bensì vero che politiche di riduzione del costo del lavoro, unitamente a politiche di sostegno alla domanda aggregata potrebbero accrescere, in alcuni settori, la produzione più rapidamente dell’aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione. Ma a quale prezzo? Quello di dare vita a eticamente inaccettabili e politicamente pericolosi trade-offs: per distribuire lavoro a tutti si finirebbe con l’accettare come qualcosa di inevitabile la categoria dei working poors, oppure come qualcosa di naturale il modello neo-consumista o altro ancora. Accade così che la società post industriale registri, al tempo stesso, un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, e un problema di eccesso di domanda di attività lavorative, domanda che non trova soddisfazione. (La più recente letteratura sull’impatto occupazionale delle nuove tecnologie convergenti tende a distinguere tra il task-based approach e l’occupation – based approach in analogia alla distinzione sopra tracciata tra posto di lavoro e attività lavorativa. Un’interessante indagine empirica riferita al mercato del lavoro italiano, volta a determinare la probabilità di automazione delle varie occupazioni, è quella di E. Filippi e S. Trento, “I rischi dell’automazione del lavoro. Una stima per l’Italia”, Il Mulino, 4, 2018).
Quel che va fatto è di favorire, con politiche intelligenti e coraggiose, il trasferimento del lavoro “liberato” dal settore capitalistico dell’economia al settore sociale della stessa. Il quale è connotato dal fatto che la categoria di beni che esso produce, e per i quali possiede un rilevante vantaggio comparato, comprende beni comuni (ossia commons, come difesa del territorio, ambiente, conoscenza), beni relazionali (servizi alla persona, care economy), beni meritori, beni pubblici locali, industrie culturali e creative della cosiddetta economia arancione. Si pensi a soggetti come quelli che appartengono al variegato mondo della cooperazione, alle imprese sociali, alle società benefit (di recente nascita in Italia), a certi enti di Terzo Settore come le cooperative sociali e le cooperative di comunità – soggetti questi che finora sono stati impediti, di fatto, (soprattutto a livello normativo), di sprigionare tutto il loro potenziale di sviluppo. In sostanza, si tratta di muovere passi decisi, sicuramente fattibili, verso l’attuazione pratica della biodiversità economica – un principio che la più recente e accreditata letteratura di economia ha indicato come condizione sine qua non per incamminarsi su sentieri di sviluppo umano integrale (da non confondersi con il sentiero della crescita che “risolve tutto!”). Per vivere bene, infatti, c’è bisogno di creazione di valore diverso da quello materiale – che resta comunque necessario.
Un punto deve, in ogni caso, essere tenuto fermo: il lavoro si crea; non si redistribuisce quello che già c’è. Occorre andare oltre l’obsoleta concezione “petrolifera” del lavoro, secondo cui questo è pensato come una sorta di giacimento da cui estrarre posti di lavoro. E’ il fare impresa la via maestra per creare lavoro. Ma – come sopra detto – l’impresa che crea lavoro non è solamente quella di tipo capitalistico. Oggi, questo è concretamente possibile a condizione che lo si voglia e che ci si liberi da anchilosanti forme di pigrizia intellettuale e di irresponsabilità politica. Come sempre più spesso si sente affermare, alla base del nuovo modello di sviluppo c’è una specifica domanda di qualità della vita. Ma questa va ben oltre una domanda di beni “ben fatti”. E’ piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di partecipazione, cioè una domanda di qualità delle relazioni umane.
Per concludere. Vi sono due modi errati di porsi di fronte alla grande sfida del lavoro. Per un verso, quello di chi cede alla tentazione di restare al di sopra della realtà con l’utopia; per l’altro verso, quello di chi si colloca al di sotto della realtà con la rassegnazione e il disincanto. Gli autori di questi saggi non sono caduti in trappole del genere. Non possiamo, infatti, vagare tra l’ottimismo spensierato di chi vede il processo storico come una marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione e il cinismo disperante di chi ritiene che non vi sia nulla da fare. Recuperare le tradizioni ideali e i principi fondativi della matrice culturale del territorio emiliano-romagnolo – dalla laboriosità allo spirito di sacrificio; dalla passione per l’etica dell’agire alla coesione sociale; dalla creatività alla solidarietà vissuta e non solamente declamata – è allora la via pervia per vincere la sfida. Tenendo sempre a mente che – come ricordava Gustav Mahler – la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non la conservazione delle ceneri.
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