Si dice giustamente che troppi parlano di argomenti che non padroneggiano e che occorre lasciare la parola a chi se ne occupa professionalmente. È il caso degli assurdi dibattiti che hanno riempito i media, e la TV in particolare, in tempo di pandemia dove ognuno ha voluto dire la sua senza tenere in alcun conto la voce dei medici e degli infettivologi.

Tuttavia ci sono discipline che penetrano in ogni ambito permeandolo sicché, se fossero lasciata la parola ai soli competenti, non avremmo più facoltà di dire alcunché su questioni che toccano la nostra vita, e la politica ne risulterebbe cancellata. È il caso dell’economia. È questo un terreno in cui mi sento a disagio per la scarsa conoscenza dei suoi fondamenti, ma sul quale inevitabilmente debbo inoltrarmi quando da molti esperti vengono indicazioni che contraddicono ciò che a me pare giusto ed auspicabile.

Ho, in altro articolo, riportato l’affermazione di Giorgio Parisi (premio Nobel per la fisica e studioso dei sistemi complessi) circa l’impossibilità di contrastare il riscaldamento climatico se si resta ancorati a uno sviluppo che pone al centro la crescita del PIL. A commento di tale affermazione, avevo messo in evidenza che molta parte dei guasti ambientali e dei fattori che provocano il riscaldamento climatico sono riconducibili ad esternalità negative (emissioni di CO2, metano e inquinanti vari, deforestazione ecc.) che le attività produttive creano ma il mercato non registra ed il PIL non considera.

L’amico Daniele Ciravegna ha scritto che, “se, fra le cose prodotte, ci sono cose dannose (e l’inquinamento, compreso l’innalzamento delle temperature, è cosa dannosa per l’ambiente in cui la comunità vive), il loro valore (calcolato con riferimento al costo del disinquinamento) dovrebbe essere sommato come valore negativo (disutilità) e l’aggregato verrebbe ad essere ridimensionato (valore assoluto e crescita ridotti)”. Sarebbe una cosa giustissima ma dubito che tale proposta mai potrà essere accolta da coloro che assegnano una assoluta centralità a un mercato globale sempre più pervasivo. Ritengo che questo debba essere messo in discussione.

Rispetto alle sopraddette esternalità, viene detto da taluni che ci sono soluzioni per porre rimedio ai guasti prodotti: limiti legali alle emissioni nocive; divieto di utilizzo di certe tecnologie almeno in alcuni contesti; tasse su beni la cui produzione comporta tali guasti, e via dicendo. Ma, mi pare evidente che questi interventi non bastino, o siano troppo limitati in intensità e numero, altrimenti non ci troveremmo nella critica situazione attuale. Ci sono inoltre forti resistenze espresse dal mondo economico a che tali mezzi siano messi in campo, come si è visto nel nostro Paese con la tassa (di modestissimo importo) sulla plastica. In ogni caso, lo dicono gli stessi economisti di impronta liberale (la stragrande maggioranza) che i sopraddetti vincoli (i rimedi) costituiscono violazioni delle leggi di mercato.

Il mercato produce danni o inconvenienti non solo perché non segnala e non sanziona quelle che ho indicato come esternalità negative o disutilità. Dobbiamo anche tenere conto delle esternalità di ordine positivo, ovvero quelle ricadute benefiche delle attività produttive, che tuttavia il mercato non riconosce e di conseguenza non ricompensa.

In primo luogo, mi viene alla mente l’agricoltura. Compito primario dell’agricoltura (e in questa includo la zootecnica) è quello di produrre beni, soprattutto alimenti che finiscono sul mercato. Ma ci sono altre importanti funzioni che non devono essere trascurate.

La produzione di alimenti è da considerarsi un obiettivo strategico: un Paese (come l’Italia) che, in ambito alimentare, dovesse dipendere completamente da altri sarebbe politicamente ricattabile (non ci sono solo il petrolio e il metano in tal senso). Le pratiche agricole non possono essere accantonate, nemmeno temporaneamente, senza produrre gravi conseguenze. Infatti, ove accadesse, non sarebbero poi, al bisogno, ripristinabili in tempi brevi: i terreni abbandonati richiederebbero forti investimenti; il patrimonio zootecnico e quello arboricolo non si ricreano, quantitativamente e qualitativamente, dal nulla; la mano d’opera agricola ha una elevata professionalità che si forma solo in tempi lunghi: è difficile trasformare un operaio in un contadino. Se le logiche di mercato conducono a ridimensionare o ad abbandonare certe produzioni agricole, viene messo a rischio il futuro del Paese. Nel valore delle produzioni agricole (non retribuito), c’è anche la prevenzione di questo rischio.

Inoltre, alle attività agricole, è collegata una migliore distribuzione degli insediamenti abitativi sul territorio, con tutto ciò che questo implica. Si aggiunga che, in un paese densamente popolato e connotato dall’azione dell’uomo, tali attività hanno una essenziale funzione nella conservazione dell’ambiente: sono evidenti le funzioni di ordine idrogeologico in ambito montano e collinare; ad esse è legata la conservazione del paesaggio che, in un Paese ricco di storia e di bellezze artistiche e naturali, costituisce un patrimonio culturale ed economico (si pensi al turismo). Oggi, la stessa presenza della fauna stanziale dipende dalla presenza e dalle modalità di attuazione delle tecniche culturali (quelle di tipo industriale sono in tal senso devastanti). Non dimentichiamo infine che ai prodotti dell’agricoltura locale sono legate tradizioni alimentari che fanno parte della cultura di una popolazione. A chi poi ritiene che i patrimoni culturali delle realtà locali e regionali (fra cui dialetti, tradizioni, memorie di luoghi e fatti) siano valori da salvaguardare, è bene ricordare che è proprio nel mondo agricolo e contadino (anche se ormai in larga misura scomparso) che tali valori resistono più a lungo rispetto al processo di omologazione in atto nella società urbana.

Coloro che sanno apprezzare i valori delle cose solo se monetizzabili dovrebbero sapere che tutti gli aspetti sopra riportati hanno anche ricadute di ordine economico che devono in qualche modo essere riconosciute.

Certo in Europa, sono stati messi in atto provvedimenti a favore dell’agricoltura (sostegno ai prezzi, integrazione dei redditi degli agricoltori, fondi per lo sviluppo rurale, ecc.). In particolare, sono state in vigore misure a difesa delle produzioni nazionali ritenute non competitive in un mercato mondiale in cui, per condizioni naturali o oneri di mano d’opera, i costi produttivi sono più elevati di quelli della concorrenza extracomunitaria. Tuttavia, in nome delle leggi di mercato e della tutela del consumatore, la spesa comunitaria a sostegno dell’agricoltura è stata complessivamente ridimensionata senza comprendere, non solo il ruolo strategico di questo settore, ma che quegli “aiuti” (tanto criticati dai liberisti) erano solo un parziale riconoscimento di quelle ricadute benefiche (le esternalità positive) connesse alle attività agricole.

Altro ambito produttivo in cui non si tiene alcun conto dei benefici non direttamente monetizzabili sul mercato è quello del piccolo commercio. L’esistenza di una diffusa e capillare rete di negozi nei centri e nelle periferie urbane è di grande importanza per mantenere vivi centri urbani e singoli quartieri, per creare condizioni di sicurezza, per mantenere contatti tra le persone, in sostanza per alimentare il capitale sociale. Già l’avvento dei grandi centri commerciali aveva duramente colpito questo settore. Ora il commercio online gli sta dando il colpo di grazia, mettendo in crisi anche quei centri commerciali che già avevano pesato negativamente su di esso.

Anche a difesa del piccolo commercio, o delle tradizionali botteghe, sono state spese molte parole rivelatesi vuote di contenuto: infatti, erano stati posti, fin nei piani regolatori delle città, limiti alla costruzione di sempre nuovi centri commerciali, limiti sempre volatilizzatisi a fronte di pressioni politiche e soprattutto degli utili derivanti dagli oneri di urbanizzazione per i permessi edilizi ad essi concessi che i comuni possono utilizzare anche per le crescenti spese correnti.

Oggi ci vengono dalla UE, sempre in nome dell’interesse dei consumatori (e credo per ragioni ideologiche), richieste di varare riforme e misure ispirate a logiche economicistiche tese ad assegnare assoluta priorità alla concorrenza, e, nella sostanza, ad estromettere dal mercato tutti i soggetti “autonomi” (imprese familiari, artigiani, piccoli commercianti, ambulanti, taxisti, e perfino taluni liberi professionisti, ecc.) ritenuti espressione di assetti precapitalistici. Un conto è ottenere, da parte dello Stato, adeguati introiti dalle concessioni di beni demaniali (come le spiagge), altra cosa è aprire ulteriori spazi alle grandi imprese, sovente multinazionali, che operano in tali ambiti con criteri più che discutibili. A parte il fatto che le esigenze degli esseri umani non riguardano la sola dimensione del “consumatore”, nessuno si interroga su quali siano le conseguenze di tali riforme su tutte le possibili ricadute positive (sul piano sociale e territoriale) delle attività svolte dai soggetti in questione che il mercato non è in grado di prendere in considerazione.

Qualcuno, sicuramente, riterrà queste mie considerazioni espressioni di una mentalità passatista, incapace di cogliere il valore della crescita prodotta da un mercato non ostacolato da lacci e laccioli di varia natura. Forse sarà così, almeno in parte, essendo un certo grado di passatismo connaturato alle persone di età avanzata quale il sottoscritto. Tuttavia credo che le sopraddette considerazioni non siano totalmente irrilevanti, se già anni fa, Ralp Dahrendorf, illustre sociologo, per dieci anni direttore della prestigiosa London School of Economics, si pose questi interrogativi in apertura del libro “La libertà che cambia”.

Ha infatti scritto: “Ci sono domande che colgono impreparati i difensori della società aperta. Il mercato è davvero l’ultima parola in fatto di progresso sociale? Non stiamo distruggendo, in nome del mercato, aspetti della nostra vita non meno preziosi e forse più necessari di una maggiore disponibilità di beni? In omaggio alla flessibilità del mercato del lavoro, è così desiderabile che la gente si sradichi e si trasferisca in luoghi estranei? Per accrescere l’efficienza del commercio, vogliamo che i quartieri centrali delle nostre città diventino morti residui di età passate, mentre andiamo a far compere nei centri commerciali di periferia? L’esistenza di imprese altamente competitive e produttive circondate da un mare di disoccupazione e di povertà è davvero l’obbiettivo supremo della nostra economia politica? ”

Sono domande alle quali dovrebbero cercare di dare una risposta soprattutto quanti immaginano che, per trovare il cammino su cui indirizzarsi in un mondo in trasformazione e per affrontare le molte imminenti criticità, sia sufficiente rifarsi alla distinzione tra società aperta e mondi chiusi, tra mercato e autarchia, tra liberaldemocrazia e autoritarismo con cui rozzamente interpretano la complessa realtà in cui ci troviamo a vivere.

Giuseppe Ladetto

 

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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